Home / Newsletter / Newsletter n. 97 - 27 ottobre 2010 / Donne e fisco: perché il quoziente è perdente

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Newsletter

Ultimi link in questa sezione

27/10/2010
Donne e fisco: perché il quoziente è perdente
27/10/2010
Scenari demografici per l'Italia
25/10/2010
Tracciando la mappa della ricchezza mondiale
20/10/2010
La crisi colpisce anche i cannoni
20/10/2010
L'Università sognata dai precari
20/10/2010
Prendendo la Fiom sul serio

Donne e fisco: perché il quoziente è perdente

27/10/2010

Pochi giorni fa il sindaco di Roma Alemanno ha premiato le trenta madri di Roma che hanno avuto più figli. Quasi contemporaneamente il consiglio comunale ha approvato una delibera a favore dell’introduzione del quoziente familiare nell’applicazione di alcune tariffe (con modalità ancora da definire).

 

Mentre la celebrazione delle madri prolifiche richiama alla memoria i tempi in cui si voleva la donna esclusivamente votata alla riproduzione della stirpe, la delibera comunale, approvata all’unanimità, nasconde il proprio carattere restauratore dietro l’apparente neutralità di interventi a sostegno della famiglia. Abbiamo imparato a diffidare di interventi genericamente a favore della famiglia se non si chiarisce che tipo di famiglia si vuole sostenere. Nel caso del quoziente familiare, come altri interventi hanno sottolineato (nota 1) , si rafforza una famiglia in cui prevale la divisione tradizionale dei ruoli – lei a casa o con un lavoretto di poco conto, lui fuori sul mercato a procurare i soldi per tutti. Si penalizzano invece famiglie più paritarie, con una divisione del lavoro pagato e non pagato più equa tra i partner.

 

La casalinga come "carico"

 

Come è stato ben spiegato da D’Ippoliti, i veri beneficiari del quoziente familiare sarebbero le famiglie benestanti monoreddito con diversi figli che in questo modo si sottrarrebbero ai rigori dell’imposta progressiva. Sono le famiglie tanto care ai partiti cattolici in Italia e in generale ai conservatori in tutti i paesi. (Se ne è recentemente accorto il primo ministro inglese Cameron che aveva proposto la politica opposta di togliere le detrazioni per i figli alle famiglie nelle quali uno dei coniugi guadagnasse più di 51.000 euro: è stato sommerso da un’ondata di proteste dall’interno del suo stesso partito). Ma non solo il quoziente familiare è iniquo sul piano della giustizia sociale, è anche un chiaro disconoscimento del contributo al benessere della famiglia fornito dal lavoro di cura erogato dalle donne. Mette infatti sullo stesso piano famiglie che hanno lo stesso reddito monetario ma non la stessa – e più rilevante – “capacità di pagamento”. (2) La “moglie a carico” lo è solo dal punto di vista del reddito monetario; nella maggioranza dei casi invece non è un fardello inattivo, bensì lavora senza retribuzione per un numero di ore pari o superiori a quelle del coniuge migliorando la qualità della vita dei suoi familiari. Una famiglia dove uno solo guadagni 40.000 euro o dove i due coniugi guadagnino 20.000 euro ciascuno non hanno la stessa “capacità di pagamento”: questa sarà maggiore per quella famiglia che non deve acquistare sul mercato i servizi sostitutivi del lavoro domestico. E’ quindi giusto, come accade nel nostro sistema, che, a parità di reddito, la famiglia monoreddito abbia un’imposta superiore, perché superiore è la quantità/qualità dei servizi di cui dispone. Questa è stata la scelta dell’Italia, anche se attenuata dal mantenimento in vigore delle detrazioni per il coniuge a carico. Si è voluto infatti evitare quella scelta netta a favore della tassazione individuale che altri paesi, come la Svezia, hanno più coraggiosamente effettuato (si veda l'articolo di Ruggero Paladini su questo stesso sito).

 

L'effetto sull'occupazione femminile

 

E’ indubitabile che le famiglie monoreddito con figli presentino rischi di povertà elevati. Ma non è l’introduzione del quoziente familiare il rimedio, visto che scoraggia l’ingresso delle donne sul mercato del lavoro (come spieghiamo in questa scheda). E, come dimostrato dalla ricerca empirica, avere due redditi in famiglia è la via migliore di uscita dalla povertà o dalla minaccia di povertà. Il quoziente familiare invertirebbe quindi una tendenza avviata nel 1984 da uno studio della Commissione Europea (3), ossia quella di valutare i vantaggi dei regimi fiscali sulla base degli effetti sulla partecipazione al mercato del lavoro di uomini e donne. La controprova del fatto che il passaggio al quoziente può scoraggiare il lavoro femminile viene da quegli studi che hanno simulato il passaggio inverso, cioè da un sistema basato sul quoziente o su altre forme di cumulo dei redditi alla tassazione separata. In Germania la tassazione non è separata e le modalità sono ancora più disincentivanti per un lavoratore secondario di quanto lo siano nel sistema francese. Secondo una simulazione di esperti autorevoli quali Steiner e Wrohlich (4) il passaggio dal sistema attuale alla tassazione separata determinerebbe un aumento di 4,9 punti percentuali nel tasso femminile di partecipazione alla forza lavoro: 430 mila donne in più. Per la Francia Echevin (5) ha stimato un impatto più modesto: un eventuale passaggio alla tassazione individuale aumenterebbe di 0,6 punti percentuali la partecipazione delle donne sposate, corrispondente a circa 80.000 donne in più.

 

I sostenitori del quoziente non farebbero però bene a scommettere su un effetto di scoraggiamento modesto. Se lo fosse ciò implicherebbe che la variazione nel reddito delle famiglie più povere sarebbe modesta a sua volta. E’ infatti assodato negli studi sul comportamento dell’offerta di lavoro che i soggetti più sensibili a variazioni nel salario netto e quindi più esposti al rischio di ritirarsi dal mercato quando la tassazione lo riduce (o aumenta quello del marito) sono le donne con scarse prospettive salariali e che più spesso fanno parte di famiglie a rischio di povertà (6) . Dunque, delle due l’una: o il quoziente è uno strumento efficace per contrastare la povertà, e i suoi effetti sulla tassazione delle famiglie più povere sono rilevanti, e allora il rischio di scoraggiamento non è marginale, perché proprio nelle famiglie più povere piccole variazioni hanno effetti sensibili sulle decisioni di partecipazione al mercato del lavoro delle donne. Oppure tale rischio è basso ma scarsa è anche l’efficacia redistributiva del provvedimento a favore dei redditi minori. Di certo una tale riforma non può incoraggiare l’occupazione delle donne e questo è deleterio in un paese che sta ai gradini più bassi della classifica europea. E che ne soffre.

 

Qualcuno potrebbe obiettare: perché dovremmo preoccuparci, se proprio i casi di Francia e Germania dimostrano che un sistema fiscale basato sulla tassazione congiunta dei redditi familiari può convivere con un alto tasso di occupazione femminile? La risposta è necessariamente articolata. Innanzitutto la tassazione, e in particolare il quoziente, è solo uno dei fattori che agiscono sull'occupazione. In Francia gli effetti del quoziente sono ben compensati da una rete estesa di servizi all'infanzia e agli anziani. In Germania, invece, un tasso di occupazione più che rispettabile per le donne (65.4%) nasconde un grosso ricorso a lavori ad orario ridotto, fino ai cosidetti lavori 'minuscoli' (mini-jobs), meno di 16 ore la settimana. Nel 2008 poco meno della metà delle donne (45,4%) non lavorava a tempo pieno, anche se il part-time continua ad essere penalizzante più di quanto non lo sia nella vicina Olanda. Insomma, sotto sotto la vernice di un buon livello occupazione si cela più di qualche realtà di marginalizzazione che un sistema di tassazione basato sul cumulo dei redditi non ha contribuito a sanare.

 

Una proposta alternativa

 

Il sostegno delle famiglie a rischio di povertà non passa necessariamente attraverso la tassazione. Ma se si vuole usare la leva fiscale perché non rovesciare la logica del quoziente e introdurre misure che allontanino il rischio di povertà favorendo al contempo l’occupazione? Un’opzione possibile è l'introduzione di misure simili all’Earned Income Tax Credit (EITC) introdotto negli Stati uniti negli anni settanta, lanciato in Gran Bretagna come Working Tax Credit (WTC) nel 1997 e in crescente affermazione nei paesi della vecchia Europa, in 11 dei quali è in vigore in una qualche forma (7). A grandi linee funziona così: a chi appartiene alla tipologia di famiglia individuata come "bisognosa" e già lavora o decide di entrare nel mercato del lavoro viene concesso un sussidio proporzionale ai guadagni fino ad una certa soglia di reddito; al di sopra di questa soglia il sussidio viene gradualmente ritirato. Gli esiti che questo tipo di misura ha avuto nei diversi paesi europei possono fare da guida per una formulazione che tenga conto delle condizioni che devono essere soddisfatte perché il provvedimento risulti efficace e non incoraggi soltanto "lavoretti": a differenza del quoziente, che è parte integrante di una politica di welfare tutta giocata sulla famiglia, una proposta di sostegno della famiglia attraverso il lavoro dei due coniugi presuppone infatti, oltre all’esistenza di una domanda di lavoro a condizioni decenti, lo sviluppo di un tipo di welfare e di servizi a basso costo capace di garantire la conciliazione di lavoro e cura. Quanto alla spesa aggiuntiva per l’erario, un simile provvedimento si autofinanzierebbe almeno in parte grazie alla probabile emersione di una quota di lavoro nero e alla creazione di nuovi posti di lavoro.

 

I WTC soffrono della cattiva fama di cui ancora gode il cosiddetto ‘workfare’ nel nostro paese. La convinzione che non si debba affrontare il problema della povertà ‘costringendo’ le persone a lavorare è diffusa e resiste al dubbio che ci sia un po’ di ipocrisia nel ragionamento. Quanti, infatti, lavorano per il solo gusto di lavorare senza essere “costretti”? Rimane comunque il dato avvallato da numerose ricerche: avere più di un reddito in famiglia è la migliore assicurazione contro la povertà.

 

Note

 

1. Chiara Saraceno, Alcune considerazioni in tema di quoziente famigliare, www.nelmerito.com

 

E. Granaglia, Uguaglianza di opportunità e politiche per le famiglie, www.nelmerito.com

 

2. Si veda J. Nelson 1996, Feminist theory and income tax. In Feminism, Objectivity, and Economics, New York: Routledge.

 

3. European Commission 1985 memorandum on Income Taxation and equal Treatment for Men and Women COM (84)695 final

 

4. Steiner, Viktor; Wrohlich, Katharina (2004), Household Taxation, Income Splitting and Labour Supply Incentives – A Microsimulation Study for Germany, DIW Berlin, Discussion Papers No. 421, download 23.4.2009 http://www.diw.de/documents/publikationen/73/41669/dp421.pdf

 

5. Echevin D. (2003), «L’individualisation de l’impôt sur le revenu: équitable ou pas?», Economie et Prévision, n°160-161.

 

6. In tutti i paesi, Italia inclusa, la reattività dell’offerta di lavoro a variazioni del salario netto è generalmente molto più alta per le donne sposate, a livelli bassi di istruzione e con modeste prospettive di salario.

 

7. Si veda il Rapporto di F. Bettio e A. Verashchagina (2009) Fiscal systems and female employment in Europe; si veda anche “Chi lavora in famiglia” di Daniela del Boca e Tito Boeri)

Tratto da www.ingenere.it