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1. La prima notizia è che ben due figli di Ralph Miliband – non uno, due: Ed e David – si sono battuti per divenire segretari del partito laburista. Chissà cosa avrebbe pensato il padre, uno dei grandi pensatori marxisti del secondo ‘900, fondatore della New Left Review e soprattutto autore di un libro (certo, non la sua opera più importante) dal titolo Parliamentary Socialism: A Study of the Politics of Labour, nel quale criticava aspramente il parlamentarismo del Partito Laburista. Le sue tesi divennero la base teorica sulla quale si formarono i leader della New Left britannica, in opposizione al governo laburista eletto nel 1964. Ralph – che potete salutare al cimitero di Highgate a Londra, proprio accanto alla tomba di Marx – non avrebbe votato per nessuno dei due figli; la madre, Marion Kozak, avrebbe confessato a Ed che nel primo ballottaggio la sua preferenza sarebbe andata a Diane Abbott, la rappresentante dell’estrema sinistra del partito.

Vale la pena perdere un po’ di tempo su questa saga familiare, che se non fosse vera parrebbe uscita da un romanzo (poi parliamo di politica). La casa a nord di Londra dove i Miliband si trasferirono nel 1965 – l’anno della nascita di David – era un sorta di open-house per l’intellighenzia della sinistra mondiale: David ci vive ancora, e con suo fratello Ed poteva ascoltare e partecipare alle discussioni che si svolgevano in quella casa. Robin Blackburn, un altro ex direttore della New Left Review, ricorda che Ed era capace di mettere a posto un cubo di Rubik in un minuto e venti secondi: chissà Tony Blair e Gordon Brown che tempi avevano. E Blackburn pensa che il padre, oggi, sarebbe stato al tempo stesso orgoglioso, divertito e inorridito nel vedere questo Labour (per chi avesse voglia di guardarlo, la BBC ha prodotto un documentario sul rapporto tra Ralph Miliband e i suoi figli). La mamma dice che i suoi figli sono “due socialdemocratici”: e non sembra volerlo intendere come complimento. Altri tempi quelli di Marion Kozak e Ralph Miliband (da poco è stata ripubblicata una nuova edizione del suo celebre The State in Capitalist Society, con prefazione di Leo Panitch).

2. Sulla fine della terza via non avevamo dubbi – qui linkiamo per l’ennesima volta la nostra recensione al testo di Giuseppe Berta “L’eclisse della socialdemocrazia” (dove si spiega perfettamente il perché della crisi del’ideologia della terza via), mentre il post precedente a questo parla di quanto sta avvenendo, in parallelo, nell’SPD tedesca – e adesso è arrivata la definitiva sanzione politica della fine di quella stagione: tant’è che ha vinto un candidato poco conosciuto – Ed – contro uno che aveva già un profilo politico/culturale dal quale non poteva prescindere. Un profilo che gli è stato fatale, nonostante David sia assai meno blairiano di quello che la vulgata racconta. Third way is over.

Il Labour volta pagina in un momento drammatico, come fu quello del 1980, dopo la vittoria della Thatcher. La notizia è che ne sono capaci, e che decidono di farlo virando a sinistra. Cosa questo significhi, probabilmente non lo avrà chiaro nemmeno Ed: sappiamo che per cultura è un sostenitore delle organizzazioni grassroots, immagina cioè un partito più aperto e dinamico nell’affiancare le richieste di rinnovamento che provengono dalla società (pare che su questo abbia preso dalla madre). Qualunque sia il profilo nuovo del Labour, la grande differenza con l’Italia è che il dibattito rimane, comunque, dentro i binari della tradizione laburista, per il semplice fatto che la crisi del post ’89 – un fatto anche tra i partiti socialdemocratici – non è stato lo tsunami che ha colpito il nostro paese.

E’ un bene? E’ un male? Dipende: se sono radici che permettono un’espansione e un rinnovamento della propria cultura e base sociale sì; altrimenti sono una terribile zavorra, oppure strumenti buoni per vincere un Congresso e poco più (specialmente quando il dato è un crisi strutturale del pensiero socialdemocratico europeo). Però garantiscono una solidità, che si è mostrata in un dibattito congressuale interessante; una solidità che aiuta nei momenti di crisi. Per cui Ed può dire queste cose: “Il New Labour, sfortunatamente, è diventato il partito dei banchieri”, oppure “Siamo passati dalla pace col capitalismo a dire che non possiamo criticare il capitalismo. Io sono socialista perché critico le ingiustizie che il capitalismo crea”. Lo dice e non appare troppo bizzarro.

3. Il sindacato si è fatto avanti nel trovare un suo candidato proprio pensando agli anni della Thatcher (un terzo dei membri del Congresso del Labour sono delegati di espressione sindacale, il principale azionista del partito): sebbene si tratti di un sindacato che conta appena la metà degli iscritti di 30 anni fa – 7 milioni contro 13 del 1980 – è pur sempre una delle forze sociali più rilevanti del paese. Come sottolinea l’Economist della scorsa settimana, sono solo 4 milioni gli inglesi che vanno in chiesa regolarmente: si crede di più nel sindacato che nella Chiesa anglicana.

Il punto è chiaro: il sindacato inglese – che ha tanti difetti quanto i nostri, purtroppo – non può permettersi un’altra stagione di sconfitte, come avvenne negli anni ’80. Pena la sua estinzione. Il terreno del conflitto è il settore pubblico, dove si concentra ormai il grosso degli iscritti: la politica di austerità promessa dal governo – se ne conosceranno i contenuti il 20 ottobre, quando Cameron mostrerà i suoi piani – è una minaccia reale. Dai lavoratori dei trasporti a quelli della scuola, il messaggio è chiaro: non pagheremo noi la crisi finanziaria, non venite da noi a cercare i soldi per aggiustare il deficit provocato dalla crisi (generata dalla City). Il governo Lib-con intende approvare tagli imponenti della spesa che penalizzeranno inevitabilmente i lavoratori del settore pubblico (si parla della riduzione del 25% della spesa per ogni ministero, altro che Tremonti).

I sindacati dicono “alzate le tasse ai ricchi” (e varie altre cose più complesse, che riguardano il ritorno dell’utilizzo della leva dell’investimento pubblico come volano della crescita economica). Ed Miliband ha sposato questa causa, sapendo che il governo Cameron è molto più debole di quello Thatcher del 1979: è anch’esso vittima della grande disaffezione verso la politica e le istituzioni che attraversa il mondo occidentale; è un governo di coalizione; parte consistente dell’elettorato inglese potrebbe essere spaventato dall’idea di perdere – o pagare di più – l’accesso ai servizi pubblici.

4. Le sfide sono ciclopiche, e lo sono per tutta la socialdemocrazia europea. Comunque la mettiate, fino a oggi i partiti e i sindacati sono state forze che continuano a implodere su se stesse, le loro culture politiche anche. E’ un dato che arriva persino dalla Svezia, dove i socialdemocratici hanno ottenuto il peggior risultato elettorale dal 1914. “C’è una malattia che erode la sinistra come il centro-sinistra, perché non sembra risparmiare né le incarnazioni moderate e volte a rincorrere il voto dell’elettore di centro né quelle più inclini a conservare l’anima sociale e le aspirazioni all’eguaglianza della tradizione socialista. Ovunque si registra un’emorragia di consensi che mette in discussione il ruolo e la capacità d’azione di partiti costretti a oscillare fra il tentativo di rinverdire le loro radici e quello di sbiadire la loro identità storica, fino ad annullarsi in un appello alla modernizzazione in cui si cancella ogni discrimine di classe” (Giuseppe Berta sul Sole24Ore).

Questi partiti non sanno bene ancora come reagire – in modo originale – a fenomeni che hanno ormai più di venti anni: la globalizzazione; il declino politico dell’Europa; l’aumento massiccio dell’immigrazione e la reazione razzista dei ceti popolari e delle classi medie; la debolezza della politica di fronte al potere finanziario ed economico; l’evaporazione pubblica della frattura capitale/lavoro, a lungo elemento fondante dell’identità politica di quei partiti. E’ chiaro che la vittoria di Ed e dei sindacati porterà di nuovo in auge – per la prima volta dopo molti anni – il conflitto sociale e una parvenza di scontro culturale (guardate qui come l’ha presa male l’Economist: Ed proprio non gli piace). Ma perché il Labour abbia un futuro, dobbiamo sperare che abbia ragione un principe delle tenebre blairiano come Lord Mandelson che – riporta Fabio Cavalera sul Corriere della Sera – non lo ha votato ma ne dà un giudizio lusinghiero: «Un ragazzo di straordinaria intelligenza. Rappresenta il nuovo, non più blairiano, non più browniano. Dirigente pragmatico che coniuga il presente con il nobile passato del progressismo». Non importa che via sia, la prima, la seconda, la terza… semplicemente la nuova generazione, con il suo vissuto e la sua epoca come esperienza.