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I militari separano Usa e Cina
La Cina si sta già preparando a pieno regime e l’America senza dubbio sta facendo altrettanto. Infatti nell’agenda politica globale non c’è appuntamento da qui alla fine di novembre più importante.
In quel periodo il presidente cinese Hu Jintao comincerà la sua visita in Usa che dovrebbe dare nuovo impulso alle relazioni bilaterali tra le due maggiori potenze attuali America e Cina, comunque si voglia chiamare questo rapporto, G2 o «AmeriCina». Eppure, da qui a novembre, perché la visita sia davvero un successo, i due Paesi dovranno sormontare una serie di problemi complessi. Oggi il rapporto è ostaggio di contorte questioni strategico militari.
Il dialogo bilaterale è bloccato perché Washington vorrebbe parlare senza cambiare nulla; Pechino invece vuole che prima l’America risolva la questione della vendita delle armi a Taiwan e le missioni Usa di sorveglianza/spionaggio intorno alla Cina. Le armi a Taiwan sono una spina nel fianco attuale per Pechino. I rapporti tra Pechino e Taipei sono migliorati nettamente negli ultimi anni. Le due parti hanno stabilito per la prima volta canali di comunicazioni e trasporti diretti e non più attraverso Hong Kong, e all’inizio di luglio hanno firmato un accordo di libero scambio che integra di fatto l’economia dell’isola con quella del continente. La riunificazione quindi è una questione ora solo politica che però nessuna delle parti intende affrettare. Su questo percorso l’unico motivo che potrebbe spingere una marcia indietro è una teorica forza militare di Taiwan in grado di respingere un eventuale attacco dal continente. È una questione molto teorica, ma con effetti tanto pratici: se Taiwan ha un esercito in grado di difendersi a pieno potrà sempre non solo resistere ai canti di sirena del continente, ma anche decidere improvvisamente di dichiarare l’indipendenza formale.
Se Taiwan, abitata da gente di etnia Han, come la maggioranza della Cina, diventa formalmente indipendente, perché dovrebbero rimanere cinesi il Xinjiang o il Tibet, abitati da etnie non Han? Ma se Xinjiang e Tibet diventano indipendenti, Pechino perde metà del suo territorio nazionale. In altre parole, la vendita di armi americane a Taiwan gioca all’interno della politica cinese e taiwanese a favore di forze che vogliono allontanare le parti. D’altro canto l’America è obbligata alla vendita per una legge del congresso. E comunque, se smettesse di vendere armi ciò potrebbe essere visto dall’opinione pubblica Usa come se una timida America consegnasse l’agnello taiwanese al lupo cinese. In passato la vicenda era secondaria, ora è diventata più urgente perché Pechino sta registrando molti passi avanti bilaterali e quindi vorrebbe e assicurare i suoi successi chiudendo il problema delle armi. Inoltre ci sono le missioni di sorveglianza americane sulla Cina. Navi e aerei Usa ne compiono circa un migliaio con vari scopi: rilevazioni di fondali o accertamento delle capacità militar tecnologiche cinesi.
In queste occasioni ci sono stati degli incidenti, nel 2001 o l’anno scorso, cose che potrebbero sempre accendere conflitti più importanti. Gli Usa vorrebbero stabilire quindi un codice di condotta per le missioni. La Cina si oppone perché un codice di condotta stabilirebbe un rapporto con gli Usa di avversario, da guerra fredda. Poi ciò varrebbe solo per gli Usa, Pechino non è in grado di compiere simili azioni intorno al territorio americano. Infine c’è il problema della vendita di tecnologia duale americana alla Cina, cosa che servirebbe spesso, come col nucleare, anche a ridurre le crescenti emissioni di carbone di Pechino. Qui Washington ha fatto delle concessioni, ma sono minime secondo la Cina che vorrebbe molto di più.
L’America diede e fece dare molte tecnologie a Pechino fino al 1989, ma dopo i fatti di Tiananmen impose un embargo che dura fino ad oggi. Ci vorrebbe un grande patto politico bilaterale per togliere l’embargo, ma a oggi tale patto è complicato anche dal fatto che molti vicini, dal Giappone all’India, si sentono schiacciati dalla crescita cinese. Essi temono che uno spostamento americano verso Pechino possa cambiare definitivamente equilibri politici ed economici in Asia e quindi nel mondo. Questi tre livelli di problemi poi si intrecciano tra loro e si mischiano ad altri dossier: quello della cessione delle tecnologie tocca per esempio tutta la delicata questione ambientale, dello sviluppo delle future alte tecnologie, o anche della crescita economica futura. Una massiccia cessione di tecnologie americane alla Cina farebbe ripartire l’industria Usa e farebbe uscire il mondo dalla crisi. Ma a quale costo politico e strategico, si chiedono i generali americani? Sono vicende che è impossibile pensare di risolverle in pochi mesi. La novità è che per la prima volta le due parti sembrano mettere tutto sul tavolo e questo è certamente un progresso importante, perché solo dalla chiarezza su cosa veramente pensa e sente l’altra parte si fanno passi avanti.
Vista poi la crescente importanza delle due nazioni, un maggiore chiarimento tra Washington e Pechino è di beneficio per tutti in quanto a sicurezza e sviluppo globale. La nuova «AmeriCina» mette però in un cono d’ombra l’Europa. Ciò tanto più che l’Usa-Cina deve comprendere i nuovi equilibri dell’Asia Pacifico. Così, anche sul nostro benessere grava un punto di domanda: visto che la visione militare in questo caso viene prima di quella industriale, anche l’economia dell’Europa potrebbe subirne conseguenze. Ciò probabilmente non domani, ma già il dopodomani è in forse.