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Perché abolire gli studi di settore
Gli Studi di Settore, introdotti nel 1998 dal Ministro Visco, sono ancora uno strumento utile? In primo luogo, sono utili a perseguire l’interesse generale come definito nella nostra Costituzione ("Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività")? Quali risultati hanno conseguito nel loro primo decennio di vita? Quale contributo hanno dato alla riduzione dell’area dell’evasione fiscale per la parte, certamente non esclusiva, realizzata dal lavoro autonomo, dalla piccola impresa e dai professionisti? Il lavoro di altissima qualità tecnica compiuto dalla Sose può consentire di superare i limiti "genetici" degli Studi? E, infine, come funzionano nello scenario post-Lehman Brothers, un contesto profondamente discontinuo rispetto alla fase pre-crisi, segnato da un abbassamento dei potenziali di crescita, da un estrema variabilità del terreno economico, anche all’interno di ciascun settore e tra imprese pur "strutturalmente" simili?
Le domande sono difficili e certamente hanno una notevole dimensione tecnica. Tante risposte, fondate su una eccellente ricostruzione teorica, una ricca messe di dati e, aspetto di rilievo, una serie di audizioni con i protagonisti dell’applicazione degli Sudi di Settore (i dirigenti dell’Agenzia delle Entrate, i consulenti fiscali dei contribuenti, le rappresentanze del lavoro autonomo e dei professionisti), sono contenute nella Relazione del Febbraio 2008 della "Commissione di studio sulle problematiche di tipo giuridico ed economico inerenti alla materia degli Studi di Settore", reperibile sul sito della Scuola Superiore di Economia e Finanza1.
Altre risposte vengono dalla lettura attenta delle scelte compiute dal Governo Berlusconi dal Giugno 2008 all’ultimo decreto "milleproroghe" e, soprattutto, dall’analisi dell’impatto della transizione economica in corso sul tessuto produttivo e la performance di ciascuna micro-impresa, lavoratore autonomo, professionista.
Le modifiche legislative ed amministrative apportate agli Studi di Settore hanno stravolto lo strumento. Al di là di legittime differenze nelle valutazioni sull'opportunità o finanche la necessità degli stravolgimenti, è difficile negare che, attraverso una serie di passaggi legislativi (in particolare, il DL 112/08 art 33, DL 185/08 artt 8, 16, 27), si è compiuta una riscrittura del patto fiscale, asse del più generale patto di cittadinanza, tra la collettività, lo Stato, ed il mondo del lavoro autonomo, della micro e piccola impresa, dei professionisti. Per tali categorie di contribuenti, di fatto, è stato superato l'articolo 53 della Costituzione e si è introdotto o, meglio, si è data formale traduzione legislativa al principio in parte già seguito, ma non codificato, dell'autodeterminazione del quantum di imposte dovute e dei tempi dei versamenti.
L'abbattimento delle sanzioni per le adesioni agli eventuali ed improbabili inviti al contraddittorio e la marginalizzazione degli Studi di Settore nelle attività di accertamento da parte dell'Agenzia delle Entrate rendono non solo pienamente legittimo, ma come correttamente argomentato a caldo dagli esperti de "Il Sole 24-ore", banalmente razionale il non adeguamento in dichiarazione, non solo per chi non raggiunge i ricavi previsti da Gerico, comportamento corretto (come ribadito da una circolare dell’Agenzia delle Entrate nel Gennaio 2008 e da una recente sentenza della Corte di Cassazione), ma anche per quanti hanno ricavi o compensi pari o superiori al livello di congruità. La caduta dell'adeguamento viene evitata soltanto dalla incessante e generalizzata riduzione dei livelli di congruità. Una riduzione arbitraria ed iniqua, fatta sulla base di indicazioni soggettive ed interessate, in assenza di dati sugli effetti puntuali della crisi. Una riduzione che, ai fini di un corretto utilizzo degli Studi, non aveva ragion d'essere e rappresenta, pertanto, un'involuzione verso una minimum tax facoltativa (peculiare ossimoro del fisco italico).
La riscrittura del patto fiscale realizzata con le modifiche agli Studi di Settore è stata giustificata dalla pesante crisi in corso. In realtà, è una scusa, dato che è incominciata a Giugno 2008, quando il Governo presentava al Parlamento previsioni macroeconomiche radicalmente diverse da quelle poi verificatesi e in atto. Evidente che la riscrittura determinerà un crollo del gettito dagli Studi. Non vi sono dati disponibili, ma qualche indizio sull’andamento del gettito da Studi di Settore arriva dal Corriere della Sera del 2 Gennaio scorso. Al Corriere, l’Agenzia delle Entrate, sempre meno attenta alla sua mission istituzionale, ha consegnato, senza riportarli sul suo sito, i risultati di sintesi del gettito Irpef 2008. Tale gettito è aumentato del 3% rispetto al 2007. Un trionfo di efficienza e determinazione anti-evasione secondo l’autorevole quotidiano ed il dott. Befera, direttore dell"Agenzia e Presidente di Equitalia. In realtà, un risultato molto preoccupante dato che poggia su un aumento dell’8,1% delle ritenute sul lavoro dipendente (aumento in larga misura dovuto a tanti rinnovi contrattuali) fonte di circa ¾ del irpef riscossa ogni anno. Un incremento dell’Irpef totale limitato al 3% implica che il gettito Irpef derivante dalle tipologie di reddito da lavoro diverse dal lavoro dipendente è crollato, nonostante una crescita del Pil nominale dell’1,8%.
Infine, per rispondere alle domande iniziali sull’utilità degli Studi di Settore è fondamentale fare i conti anche con l’impatto della transizione economica sul tessuto produttivo e la performance di ciascuna impresa, lavoratore autonomo, professionista. Per costruzione, gli Studi sono fondati su relazioni stimate tra costi e ricavi e sull’ipotesi che fra un periodo di stima e l’altro non vi siano cambiamenti tali da modificare i coefficienti stimati. Si assume, in estrema sintesi, un’attività economica "normale". Il punto è che nella lunga fase di turbolenza economica nella quale siamo entrati la normalità non esiste più ed il passato seppur recente non può essere usato per normalizzare il futuro pur prossimo. Insomma, viene meno il presupposto economico della costruzione degli Studi. Per recuperarlo, non si può ricorrere alle informazioni fornite in tempo reale dalle associazioni di categoria, inverificabili data l’assenza di fonti statistiche indipendenti (l’Istat pubblica stime del Pil per settori e per provincia con un lag di almeno due anni). Insomma, per salvare gli Studi non si può continuare ad abbassare, attraverso la trattativa politica presentata come discussione tecnica, il livello della minimum tax facoltativa.
Siamo, quindi, di fronte a crescenti iniquità generate dalle mutazioni legislative ed amministrative degli Studi e dal contesto economico nel quale vengono applicati. Iniquità nei confronti di tipologie di reddito da lavoro diverse da quelle sottoposte agli Studi. Iniquità anche nell'universo di contribuenti soggetti agli Studi: le micro e piccole imprese pagano per le imprese "medie" e per le "grandi" . Ed è evidente che una comunità non può sostenere a lungo sul piano politico ed economico la presenza di due patti di cittadinanza, due costituzioni materiali parallele, regolate da principi così iniqui.
Tuttavia, è altrettanto evidente che la riscrittura del patto fiscale affronta in modo sbagliato un problema vero e sempre più acuto: l'insostenibile carico fiscale, contributivo e di adempimenti per una parte consistente della platea di lavoratori autonomi, micro imprese e (giovani) professionisti. Per affrontare tale problema vi è, però, un'altra strada, equa ed efficiente, un gioco a somma positiva. La strada è la seguente: 1) abolire gli Studi di Settore; 2) potenziare il forfettone introdotto in via sperimentale nel 2008, una soluzione apprezzata dai contribuenti "minimi" (come dimostrano le 400.000 adesioni) in quanto, oltre allo Studio, elimina l'Iva, l'Irap e l'Irpef ed introduce un'imposta sostitutiva sul reddito di cassa. Ad esempio, portare la soglia di fatturato da 30.000 a 70.000 euro all'anno (consentita dalla Commissione Europea) ed innalzare il limite di patrimonio utilizzato per l’attività produttiva implica coinvolgere una platea di 2 milioni di contribuenti; 3) potenziare le garanzie nel contraddittorio con l'Agenzia delle Entrate; 4) rafforzare i processi di riqualificazione delle articolazioni territoriali della Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza e rivedere i meccanismi di premialità retributiva per i risultati raggiunti, al fine di promuovere lo svolgimento di controlli senza esisti precostituiti e sempre più personalizzati ed aperti alle posizioni dei contribuenti.
La soluzione proposta avrà anche importanti benefici indiretti. Da un lato, permetterà all'Agenzia delle Entrate di concentrare risorse sulle fasce di soggetti a maggior rischio e maggior importo di evasione. Dall'altro, libererà elevate professionalità del settore privato dall'assistenza fiscale e consentirà loro di concentrarsi su servizi di consulenza aziendale (strategica, finanziaria, organizzativa, di mercato, ecc) estremamente più utili alla crescita delle imprese e del Paese.
1. http://www.ssef.it/sites/ssef/files/Documenti/Rivista%20Tributi/Sogei%20supp_4.pdf