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Giovanni Arrighi, una vita capolavoro
È morto il 18 giugno Giovanni Arrighi, uno straordinario scienziato sociale che insegnava alla università Johns Hopkins di Baltimora.
Proveniva da una famiglia della borghesia industriale milanese, si era laureato in Bocconi e aveva cominciato a lavorare in una delle imprese del nonno. Una vita che non faceva per lui. Nel 1963 era andato a insegnare in Rodesia, da cui venne espulso dopo tre anni perché attivo nel movimento di liberazione. Dopo la Rodesia, la Tanzania, altri tre anni. Poi il rientro in Italia, negli anni 70: Trento, Milano e Cosenza, e anche in Italia non solo insegnamento, ma intensa partecipazione all'attività della nuova sinistra, allora in grande fermento. Poi gli Stati Uniti, prima a Binghamton con Wallerstein, infine a Baltimora. I suoi libri principali - «La geometria dell'imperialismo», «Il lungo ventesimo secolo», «Adam Smith a Pechino», di recente pubblicato da Feltrinelli- sono tradotti in italiano.
È stato uno dei pochi, del suo calibro intellettuale, a impegnarsi seriamente in una critica alle tesi di Toni Negri e Michael Hardt. Ma sulla sua eredità politica e culturale, sulle sue tesi sui grandi cicli storici dell'imperialismo, sul recente e provocatorio lavoro sulla Cina, torneremo con calma, passata l'emozione per la sua scomparsa.
Noi conoscemmo Nanni a metà degli anni '60, in Inghilterra, dove stavamo studiando, durante una sosta del suo periodo africano: ce lo presentò Giovanni Pirelli, amico nostro dai tempi dei «Quaderni Rossi» e amico suo nella rete internazionale dei movimenti anticoloniali. Allora stava preparando un saggio sulla Rodesia, che venne poi pubblicato dalla «New Left Review» nel 1966: una vera gemma di political economy. Sapendo della gravità del male che l'aveva colpito, gli amici della «New Left Review» mandarono David Harvey a intervistarlo a Baltimora nel dicembre scorso: ne è uscita una intervista-capolavoro - una straordinaria biografia personale, politica e intellettuale - perché la vita di Nanni è stata un capolavoro (n. 56, marzo-aprile 2009).
Anche oggi molti giovani italiani vanno in giro per il mondo e insegnano in università straniere, alcuni proprio la «political economy» che usa adesso, quella che si insegna nell'università dalla quale Nanni proveniva. Non è la political economy di Nanni, ma le cose possono cambiare e la crisi in cui viviamo può contribuire a cambiarle.
Bianca Beccalli, Michele Salvati