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La miccia corta del debito estero
Tassazione creativa e crisi economica fanno esplodere il debito pubblico. Con la metà dei titoli in mano straniera, lo stato italiano balla sull'orlo del burrone. E non sarà lo scudo fiscale a salvarci
Mentre negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei si iniziano ad intravedere i primi spiragli di superamento della crisi, reale e finanziaria (è di meta giugno la notizia che le principali banche americane hanno rimborsato al Tesoro oltre 50 mld di dollari), la crisi tende a peggiorare in Italia.
Nel primo trimestre dell’anno il Pil è calato del 6 per cento rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente; le previsioni di consenso parlano di una riduzione dell’ordine del 5 per cento nell’intero anno; nel 2010 viene preventivata una stabilizzazione dell’economia piuttosto che una ripresa. Il deficit pubblico è visto in aumento con l’azzeramento dell’avanzo primario (pari al saldo della spesa pubblica al netto della spesa per interessi). In ogni caso, nel prossimo biennio, la disoccupazione aumenterà sensibilmente.
Inoltre, per il nostro Paese si susseguono i comunicati di una revisione al ribasso delle stime economiche e di finanza pubblica da parte degli organismi internazionali (Ocse, Fmi,…), e dai centri ricerca (Banca d’Italia, Confindustria, …). La progressiva revisione al ribasso delle previsioni costituisce un ulteriore grave motivo di preoccupazione, sebbene la crisi finanziaria mondiale abbia messo in evidenza che le previsioni degli economisti non siano attendibili.
La diversa reazione dell’economia italiana rispetto a quella di altri paesi europei e statunitense dipende da una molteplicità di ragioni, alcune legate alle politiche economiche del governo, altre alla situazione strutturale del Paese.
Mentre gli altri governi mondiali hanno velocemente attivato politiche di sostegno al settore finanziario e avviato ingenti investimenti pubblici, il governo italiano si è limitato a misure di annuncio che al più si sono concretizzate in rigiri contabili (alcune decisioni di spesa come quelle relative alla ricostruzione dell’Abruzzo, sono state finanziate mediante prelievi da altri capitoli del bilancio pubblico). In definitiva da parte del governo italiano non è stata avviata alcuna iniziativa moltiplicativa di reddito per fronteggiare la crisi.
E’ vero che la situazione del bilancio pubblico italiano non consente politiche di spesa in disavanzo, ma vi sono ampi spazi per una riqualificazione della spesa in termini di miglioramento della qualità dei servizi ai cittadini e alle imprese, per spostare spese improduttive verso investimenti moltiplicativi di reddito. La politica di annunci non seguita da fatti può funzionare nel breve periodo, ma con una crisi delle dimensioni attuali rischia di inaridire anche la parte sana dell’apparato produttivo nazionale.
L’equilibrio dei conti pubblici non è garantito dall’assenza di politiche di spesa in disavanzo. La crisi incide, di per sé, sulle fonti di entrata e su quelle di spesa.
Per quanto riguarda le entrate, la diminuzione dei consumi e degli investimenti riduce il gettito delle imposte indirette, in una misura che ad una prima analisi si può ipotizzare di tipo proporzionale; l’intenso calo degli scambi immobiliari si ripercuote sull’imposta di registro; il crollo della redditività delle imprese tende a restringere l’introito delle imposte sul reddito; nel medio periodo anche la diminuzione dell’occupazione tenderà a restringere il gettito dell’Irpef, oltre che dei contributi sociali.
Per contrastare tale tendenza, il ministro dell’economia, dopo la finanza creativa, si è inventato la tassazione creativa: ad esempio nell’ultima legge finanziaria alle grandi banche ha concesso una consistente riduzione della pressione fiscale in cambio del versamento anticipato di imposte future; analogamente gli incentivi alla ricostruzione in Abruzzo si sono tramutati in benefici fiscali futuri. In altre parole per “raccattare” qualche fondo o qualche benevolenza il ministro ha già impegnato i bilanci futuri dello stato.
Per quanto riguarda le uscite, le manovre di riduzione della spesa attuate dal governo (ad esempio accorciamento dell’orario di insegnamento nelle scuole dell’obbligo per tagliare il costo degli insegnanti, diminuzione della quantità di carburante utilizzabile dalle volanti della polizia o dei carabinieri) appaiono misure sostanzialmente liquidatorie dell’attività piuttosto che misure di riqualificazione dei servizi della pubblica amministrazione.
L’inefficacia dell’azione di governo si sta tramutando in una esplosione del debito pubblico, arrivato alla cifra di 1.750 mld di euro alla fine di aprile, ben 88 mld in più rispetto all’inizio dell’anno, quasi il 6% del prodotto (nel corrispondente quadrimestre dell’anno precedente l’aumento era stato di 64 mld). Qualora la tendenza fosse confermata nei prossimi mesi dell’anno, molto difficilmente non potrà non esserlo, la situazione di finanza pubblica è destinata a diventare totalmente fuori controllo nel giro di qualche trimestre.
Nell’ipotesi, al momento ottimistica, che quest’anno il deficit pubblico sia dell’ordine del 5 per cento del Pil (l’obiettivo più recente del governo è il 4,6 per cento), e il calo del PIL si fermi al 5 per cento, alla fine di dicembre il rapporto debito/Pil sarà ampiamente superiore al 115 per cento; inoltre, particolare di non poco conto, le spese calcolate al netto di quelle per interessi sul debito pregresso, saranno superiori alle entrate; il prossimo anno il rapporto debito/Pil si avvicinerà al 125 per cento.
La crescita del debito pubblico è fenomeno comune alla maggior parte dei paesi occidentali; tuttavia mentre negli altri paesi l’aumento del debito si accompagna alla crescita delle attività finanziarie destinate in un futuro più o meno lontano ad essere liquidate, in Italia invece tale fenomeno è del tutto marginale (riguarda soltanto i cd tremonti bond o la ricapitalizzazione di società); inoltre nel nostro Paese sono rilevanti i debiti dello stato che non hanno natura finanziaria (ad esempio i citati crediti d’imposta e i debiti commerciali). In definitiva non è solo l’ammontare del debito che differenzia l’Italia, ma anche la qualità, peggiore rispetto a quello degli altri paesi.
Il livello di indebitamento che sarà presto raggiunto nel nostro Paese sarà superiore a 4 volte la pressione fiscale annuale, un livello mai raggiunto in precedenza. Utilizzando un’analogia con la finanza aziendale, operazione del tutto impropria ma tanto in voga, è come se un’azienda avesse un debito superiore a 4 volte il fatturato con margine operativo negativo: è evidente che si tratta di una situazione di insolvenza conclamata.
Non essendo lo stato un’azienda, il default del debito pubblico segue altre logiche. Ad esempio il debito pubblico giapponese è molto superiore, anche in percentuale del prodotto interno lordo, a quello italiano, ma nessuno pensa che sia ipotizzabile l’insolvenza di quello stato; per converso il default dello stato argentino si è verificato quando il rapporto con il debito pubblico era assai inferiore a quello italiano. La differenza più importante tra le due situazioni è la posizione patrimoniale sull’estero dei due stati, fortemente positiva nel caso giapponese, deficitaria in quello sudamericano: mentre il debito pubblico giapponese può essere facilmente assorbito da residenti domestici, quello argentino doveva essere assorbito in misura significativa da investitori esteri.
Secondo l’ultima relazione annuale della Banca d’Italia, la posizione patrimoniale sull’estero del nostro Paese era negativa per quasi 200 mld di euro alla fine del 2009; a tale ammontare contribuivano il sistema bancario per quasi 260 mld di euro e gli operatori residenti non bancari per oltre 70 mld; le riserve nette attive della banca centrale erano appena superiori a 130 mld. Nel corso del 2008 la posizione è peggiorata di 115 mld di euro, per quasi la metà imputabile al disavanzo della parte corrente della bilancia dei pagamenti, la restante parte alle variazioni nei prezzi; il peggioramento è interamente riferibile agli operatori non bancari che sono passati da una posizione sull’estero attiva netta di 90 mld a una negativa di oltre 70 mld; per le banche italiane la crisi ha reso più difficile la raccolta di fondi sull’estero e la posizione netta è diventata meno negativa di circa 45 mld.
Con la crisi finanziaria, le banche italiane sono state chiamate a rimborsare ai creditori esteri parte dei fondi ricevuti; nel 2008 i flussi della specie sonno assommati a circa 36 mld; tale rimborso è stato facilitato dalla politica monetaria eccezionalmente espansiva del sistema europeo di banche centrali; inoltre per far fronte alle esigenze di liquidità gli intermediari hanno invogliato la clientela a disinvestire dalle gestioni patrimoniali individuali e in monte (i riscatti dei fondi comuni di matrice bancaria sono stati eccezionali nel 2008) per riversare tali somme nei depositi bancari.
L’ampia dotazione di infrastrutture di mercato consente ampi flussi di risorse finanziarie tra il nostro Paese e quelli esteri; in situazioni di normalità ciò consente il riequilibrio di situazioni di deficit patrimoniali nei confronti dell’estero. Nella crisi di fine 2008, senza l’intervento dell’eurosistema le principali banche italiane non sarebbero state in grado di far fronte agli improvvisi richiami di liquidità dall’estero, cadendo in situazione di insolvenza. Ovviamente ciò sarebbe successo indipendentemente dal livello di dotazione patrimoniale o dalla qualità degli attivi creditizi o finanziari.
Anche l’ampiezza degli scambi finanziari con l’estero rende più facilmente gestibili situazioni di squilibrio nei conti con l’estero; alla fine dello scorso anno le passività finanziarie italiane detenute da soggetti esteri ammontano a oltre 2.000 mld di euro, oltre un terzo in più del Pil. Sebbene non siano disponibili statistiche al riguardo, si può ragionevolmente stimare che circa la metà del debito dello stato italiano sia in mano straniera.
Il perdurare dello squilibrio della parte corrente della bilancia dei pagamenti tende ad accrescere il deficit della posizione netta sull’estero del nostro paese; il crescere dello squilibrio accentua i rischi di liquidità per gli operatori italiani; fra di essi lo stato italiano è il soggetto maggiormente a rischio. Nell’ipotesi, al momento più che realistica, che nei prossimi anni gli operatori, bancari e non bancari, diversi dallo stato non siano in grado di raccogliere grandi quantità di fondi all’estero, lo stato italiano dovrà rifinanziare all’estero la parte di debito in scadenza già lì detenuto e classare fuori dai confini nazionali titoli pari al deficit delle partire correnti.
Si tratta di una sfida immane. Per contrastarla il governo ha avviato alcune misure tampone che al più posticipano il problema della sostenibilità del debito pubblico italiano: da un lato cerca di vendere ad investitori esteri la parte più interessante dell’apparato produttivo nazionale e in tal senso sta tentando di portare avanti i contatti con la Libia che già possiede una quota non marginale di Unicredit e si sarebbe dichiarata disponibile ad acquisire quote significative di Eni, Enel, Telecom, Impregilo, dall’altro intende riproporre lo “scudo fiscale” per incentivare il rientro dei capitali da parte degli evasori fiscali.
Si tratta in definitiva di azioni di scarso impatto sulla situazione di disequilibrio dei conti nazionali che se non affrontati per tempo potrebbero portare ad una crisi di fiducia degli investitori esteri con conseguenze enormi sul nostro Paese.
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