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Rileggere la crisi. Un dossier di Nuvole

28/09/2009

Ormai è ufficiale; questa è la peggiore recessione dopo quella degli anni ‘30. E con la recessione degli anni ‘30 ha molti elementi comuni. Oggi sarebbe importante far tesoro delle lezioni offerte dalla storia. Perché negli scorsi anni la lezione del passato è stata completamente dimenticata. Nonostante le crisi finanziarie ricorrenti, il Fondo monetario, gli Stati Uniti e in genere le istituzioni dei principali paesi industrializzati non hanno mai messo in dubbio le capacità di tenuta del sistema finanziario americano, né hanno considerato l’instabilità intrinseca del sistema capitalistico.

Non è crollato solo un meccanismo finanziario, è andato in crisi il motore dell’economia degli ultimi decenni, cogliendo di sorpresa politici ed economisti mainstream, i quali non nutrivano dubbi sulla tenuta di un sistema che da tempo mostrava evidenti segni di sofferenza. I campanelli d’allarme che dagli anni ‘90 hanno preceduto la crisi attuale sono stati sottovalutati: la crisi giapponese (1990-2000), quella dei paesi asiatici (1997-98), la bolla internet (2000-2002), etc. Anziché considerarli sintomi di un malessere più generale si è ritenuto che il loro superamento fosse indice della stabilità del sistema, segno della capacità di un meccanismo sano di reagire a crisi passeggere. Oggi molti si levano a dire che la crisi sta volgendo al termine, che ci sono segnali di ripresa. Si tratta di un ottimismo irresponsabile: la disoccupazione continua a crescere e la storia ci insegna che, se mai verrà riassorbita, dovrà trascorrere molto tempo; per gran parte della popolazione la fase acuta della crisi deve ancora cominciare. Non solo, i segnali della ripresa che si intravedono in alcuni paesi (ma non in Italia) sono molto fragili. La caduta dei salari reali e il ristagno della domanda comportano il pericolo di deflazione e, come ci insegna l’esperienza della grande depressione e della crisi nipponica degli anni 90, la strada dell’uscita dalla deflazione è sempre molto erta. Si profila il rischio di enormi deficit pubblici, il cui rientro può avere pesanti effetti recessivi. Il sistema bancario appare ancora poco solido, il numero dei disoccupati è in crescita e la povertà in aumento.

 

Ci vorranno anni prima di tornare al livello di produzione antecedente la crisi, anche nel caso improbabile di una ripresa in tempi rapidi, e quando questo verrà raggiunto, la disoccupazione sarà ancora molto elevata. I processi di ristrutturazione che avvengono nei periodi di crisi, infatti, comportano l’introduzione di processi produttivi a risparmio di lavoro.

 

Sono molti a scommettere che le cose si aggiusteranno con alcuni interventi di stampo pseudo-keynesiano in politica economica, qualche salvataggio bancario, un po’ di aiuti alle imprese e magari qualche misura di tipo assistenziale. Ma le politiche attuate finora e anche molte delle proposte che arrivano dagli economisti sono frutto di letture unilaterali degli eventi che stiamo attraversando. Una lettura povera della crisi conduce a politiche povere, a risposte inadeguate e incerte che al massimo possono risolvere momentaneamente alcuni problemi, ma mancano di lungimiranza. È quanto sta accadendo oggi. Politiche volte a contenere i problemi finanziari, l’aspetto più eclatante della crisi economica, sono state prontamente messe in atto; si tratta di misure importanti per evitare di scivolare in una nuova grande depressione. Ma poco si è fatto e si fa per l’economia reale, per arginare la crescente disoccupazione, per incentivare selettivamente gli investimenti e la ricerca, per mirare a uno sviluppo sostenibile a livello ambientale, per riequilibrare i rapporti commerciali a livello internazionale che, come si vedrà in seguito, sono fortemente sbilanciati. Mancano politiche lungimiranti, dal momento che governi e istituzioni non si muovono sulla base di una valutazione dell’impatto che le politiche attuate oggi avranno nel lungo periodo. Il rischio che corriamo è che, superata questa fase di recessione, si riproponga a breve una nuova crisi di dimensioni più ampie di quella ancora in atto.

 

Le ragioni di questa come delle altre crisi che l’hanno preceduta, sono complesse e non riconducibili a un solo aspetto dell’economia. Il racconto della crisi non è lineare: è un intreccio complesso di debolezza dell’economia reale e instabilità finanziaria, di disuguaglianze distributive e squilibri internazionali, e su tutto ciò incombe una profonda crisi della politica. In questo breve excursus prendiamo in esame alcune delle possibili letture.

1. Una crisi finanziaria

 

La crisi dei mutui subprime e l’esplosione della bolla finanziaria sono generalmente indicati come gli eventi che hanno dato origine alla recessione dell’autunno 2008. Questi eventi hanno messo in evidenza la fragilità di un sistema finanziario che a partire dagli anni ‘80 ha assunto un peso crescente, è diventato sempre più sofisticato e ha conosciuto un’espansione senza precedenti. La liberalizzazione del sistema bancario e i nuovi strumenti finanziari hanno mutato il ruolo delle banche. Anziché concedere prestiti sulla base dei depositi, si è imposta la logica della cartolarizzazione, ovvero la trasformazione dei crediti in titoli negoziabili. In tal modo la finanza internazionale è stata sempre più dominata dalla logica del trasferimento del rischio. Si è così determinata la sovraesposizione delle banche. Il massiccio trasferimento dei rischi ha condotto a una loro sistematica sottovalutazione, finché non si è creato un clima di sfiducia, che ha comportato un deprezzamento netto delle attività detenute dal sistema bancario. In particolare, fra il 2004 e il 2006 l’attività finanziaria più dinamica è stata quella legata a crediti immobiliari destinati a una clientela dai redditi medio-bassi e instabili, quindi ad alto rischio di insolvenza. Ma le banche e gli altri istituti di credito ipotecario non se ne curavano, data la possibilità di trasferire i rischi. Nel frattempo i prezzi sul mercato immobiliare crescevano e ciò permetteva la rinegoziazione dei prestiti. Fino allo scoppio della bolla, che ha trascinato anche le banche europee, anch’esse ampiamente coinvolte nel meccanismo finanziario partito dagli Usa.

 

Questo meccanismo delle bolle finanziarie non è una novità; è intrinseco al sistema capitalistico, anche se negli ultimi anni è stato potenziato dallo sviluppo di nuovi strumenti finanziari. Nella fase ascendente del ciclo l’espansione del credito comporta l’aumento dei prezzi delle attività (azioni, immobili, etc.). Dal momento che le attività vengono valutate al loro prezzo di mercato, scende il rapporto fra il debito e l’attivo, il che comporta un’ulteriore espansione del credito, tanto più che diminuisce la percezione del rischio. Lo scoppio della bolla speculativa apre la fase discendente, con la contrazione del credito e un aumento del rapporto fra debito e attività. Cresce allora la percezione del rischio e la crisi si trasmette all’economia reale con il crollo degli investimenti, il rallentamento dell’attività produttiva e l’aumento della disoccupazione.

 

Ma è lo sviluppo deregolamentato della finanza che ha trascinato l’economia reale, a cui era indissolubilmente legato attraverso il credito facile? Questa è l’opinione prevalente fra gli economisti mainstream e di conseguenza quella diffusa dai media. Oppure, come controbattono altri, la crisi è in prima battuta una crisi dell’economia reale che ha tardato a palesarsi, perché è stata procrastinata tramite un uso spregiudicato della finanza affiancata da una politica monetaria americana ultraespansiva? O ancora, finanza ed economia reale sono così strettamente intrecciate che non è possibile districare la matassa e una lettura esaustiva della crisi non può prescindere né dall’una, né dall’altra?

 

 

2. Disuguaglianze e lavoro: l’intreccio fra finanza ed economia reale

 

In ogni caso, la crisi attuale affonda, almeno in parte, le sue radici anche nell’economia reale. Ne ha parlato Francesco Scacciati nel numero 40 di Nuvole, ne parlano gli articoli presenti in questo numero.

 

L’aumento delle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi e l’impoverimento relativo delle fasce medio-basse all’interno dei paesi industrializzati, in particolare degli Usa, è uno dei fattori che determinano la crisi di indebitamento. Ricordiamo che dagli anni ‘70 le famiglie americane appartenenti al 20% più povero della popolazione hanno visto scendere i loro redditi in termini assoluti, mentre il 20% più ricco della popolazione ha quadruplicato il proprio reddito. Il peggioramento della posizione relativa dei lavoratori meno qualificati trova origine in una serie di fattori che in questa sede richiamiamo sinteticamente: a) il cambiamento strutturale dell’economia caratterizzato dal declino dell’industria manifatturiera rispetto al terziario, b) l’indebolimento dei sindacati, in larga misura legato a tale declino, c) la crescita della produttività legata alle nuove tecnologie che utilizzano lavoro specializzato, d) l’affacciarsi sui mercati mondiali di una serie di paesi emergenti che hanno rafforzato il loro vantaggio nella produzione di beni ad alta intensità di lavoro poco qualificato e) la delocalizzazione di attività produttive in paesi a basso costo del lavoro, f) l’affermazione del sistema anglosassone di public company (imprese quotate in borsa con azionariato diffuso e al contempo risparmiatori con portafogli azionari iper-diversificati) teso a puntare sul valore azionario in una prospettiva di breve periodo, che ha conferito superpoteri ai manager, spesso privi di scrupoli, e ha spinto a una crescente compressione dei costi, in primis quello del lavoro.

 

Questi fattori hanno determinato una crescente pressione sul lavoro. È mutata la distribuzione del rischio all’interno della società, specie nei paesi in cui il sistema di welfare è più debole. Le imprese hanno scaricato sul lavoro i rischi legati all’incertezza dell’attività imprenditoriale e i lavoratori ne hanno pagato le spese con un crescente aumento della precarietà, l’intensificarsi dei ritmi lavorativi e la compressione dei salari reali; gli stessi sistemi pensionistici sono sempre più ancorati all’andamento della borsa. È diminuita la quota di reddito che va al lavoro dipendente e quasi ovunque nel mondo industrializzato sono aumentate le disuguaglianze. Non a caso dunque è cresciuto l’indebitamento delle classi medio-basse che, per mantenere il loro standard di vita, hanno dovuto ricorrere ai prestiti. Come già era successo con la crisi del ’29, la crescita delle disuguaglianze è un elemento chiave per spiegare la crisi finanziaria.

 

Ma i meccanismi che hanno portato a tale situazione sono solo quelli sopra enunciati - in altri termini sono solo di tipo economico - oppure, per capire la crisi, è necessario spaziare anche in ambiti che stanno al di fuori dell’economia, in particolare nei rapporti sociali e nella politica? Più avanti tenteremo di individuare alcuni elementi legati alla crisi della politica.

 

 

3. Gli squilibri internazionali

 

Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da crescenti squilibri finanziari a livello internazionale. I paesi emergenti e, in misura minore Germania e Giappone, hanno presentato elevati attivi commerciali. Simmetricamente alcuni paesi ricchi, in primo luogo gli Stati Uniti, ma anche, seppure in misura più contenuta, l’Italia, la Spagna e il Regno Unito, hanno conosciuto deficit crescenti. Si è creata così una situazione che per certi versi può sembrare paradossale: i paesi emergenti hanno consumato meno di quanto hanno prodotto e hanno finanziato così, attraverso le loro eccedenze commerciali (ovvero attraverso il loro eccesso di risparmio), la domanda degli Stati Uniti, che è stata costantemente più elevata della produzione. Il sistema finanziario USA ha drenato un’enorme quantità di risparmio dai paesi emergenti, ancora incapaci di creare istituzioni finanziarie in grado di assorbirlo e di impiegarlo per creare uno stato sociale. Tali flussi finanziari hanno alimentato la domanda di importazioni americane. L’economia mondiale è stata trainata da due motori, i paesi emergenti come produttori/creditori e gli Stati Uniti come consumatori/debitori.

 

All’interno degli squilibri internazionali che hanno dato origine alla crisi un ruolo rilevante è stato anche giocato dalla deflazione in Giappone, il cui effetto è stato un eccesso di risparmio da parte delle famiglie; sono scesi i rendimenti sui depositi e il tasso di interesse si è avvicinato allo zero. Ciò ha condotto a un’offerta di capitali sui mercati mondiali provenienti dal Giappone alla ricerca di rendimenti più elevati; anche questo è un elemento che ha provocato l’aumento di prezzo delle attività finanziarie nei paesi industrializzati che, a sua volta, ha determinato un effetto ricchezza delle famiglie americane, portandole a diminuire i risparmi e a sovrastimare il valore dei patrimoni e dei fondi pensione.

 

Non è interesse né dei paesi debitori, né di quelli creditori sanare in questa fase tale situazione; i debitori perché questo significherebbe ridurre il loro standard di vita, i creditori perché crollerebbero le loro esportazioni e quindi il loro reddito. Ma, se questo è vero, una domanda è d’obbligo. Quanto può perdurare questo stato di cose? Se i paesi indebitati non cercano una soluzione duratura, ridimensionando la domanda e mettendo in discussione un modello di sviluppo basato sull’indebitamento estero, c’è il pericolo che una crisi ancor più grave si ripeta a breve. Un aumento della domanda interna e un calo del risparmio nei paesi emergenti, in particolare in Cina, rischiano di spezzare questo fragile equilibrio internazionale e di innescare una nuova crisi.

 

 

4. Una crisi politica

 

Lo sviluppo parossistico dei mercati finanziari, l’aumento delle disuguaglianze, la compressione dei salari non sono il prodotto di fattori solo economici, sono il frutto della pressione politica esercitata dalle élites che da tale situazione hanno tratto vantaggio. Si è molto parlato di ondata di deregolamentazione neoliberista a cominciare dagli anni ottanta. Meglio sarebbe parlare di ri-regolazione dal momento che nell’era del neoliberismo l’intervento pubblico è stato sempre presente. La politica ha favorito l’espansione dei mercati finanziari, ha deregolamentato il mercato del lavoro, ha promosso l’inclusione dei lavoratori nel sistema finanziario attraverso i fondi pensione, i mutui, il credito al consumo. Ha così mediato nella relazione fra finanza e lavoro, coinvolgendo anche il lavoro nella logica del trasferimento del rischio. Si tratta di processi che hanno investito tutto il mondo industrializzato, in primo luogo gli Stati Uniti, in cui l’indebitamento delle classi medie è stato spinto dalla stagnazione dei salari reali non in grado di far fronte all’incremento delle spese per l’assicurazione sanitaria, per le abitazioni, per l’istruzione. Ma anche gli altri paesi hanno seguito la via indicata dagli Stati Uniti, con la flessibilità/precarietà del mercato del lavoro, che ha contribuito a comprimere i salari, a destrutturare il lavoro, e contemporaneamente con l’inclusione del lavoro nella finanza attraverso l’istituzione di fondi pensione, la diffusione dei mutui e il credito al consumo. Da un lato dunque precarietà e trasferimento del rischio al lavoro sono stati il frutto di una politica volta a enfatizzare le meraviglie del libero mercato. Dall’altro il contenimento della capacità di spesa dei lavoratori ha creato un potenziale deficit di domanda che è stato colmato attraverso il coinvolgimento delle classi medie nel mondo della finanza, sganciandone la spesa dal reddito.

 

In tal modo il contesto politico ha influenzato l’allocazione delle risorse all’interno dell’impresa e nella società, ponendo le premesse alla crisi. Sempre la politica economica è stata ampiamente presente con massicci interventi monetari che negli Stati Uniti hanno favorito l’espansione della finanza.

 

Gli obbiettivi della politica si sono progressivamente spostati da un’idea di interesse generale a un progetto di mantenimento del primato della finanza. Nel corso degli ultimi trent’anni non è che la politica sia venuta meno, solo ha cambiato veste.

 

La crisi degli anni ‘70 era stata ben più contenuta della crisi attuale grazie al maggior equilibrio distributivo dovuto al keynesismo che aveva caratterizzato i decenni precedenti. Tuttavia lo scoppio di tale crisi ha provocato un rallentamento della crescita e ha messo in discussione l’approccio keynesiano e il compromesso sociale. La risposta, come è noto, è stata l’offensiva neoliberista, offensiva che, avviatasi nel dibattito teorico, si è estesa con modalità diverse sul piano delle politiche economiche. Dal punto di vista teorico si riformulava il pensiero liberista con nuovi e sofisticati modelli basati sull’ipotesi di aspettative razionali e sulla capacità dei mercati di raggiungere istantaneamente l’equilibrio di piena occupazione. Sul piano delle politiche si utilizzavano formule quali “la mano invisibile del mercato” e “il primato dell’economia” per cambiare le regole a scapito delle classi deboli.

 

Oggi è in corso un dibattito sulla responsabilità degli economisti, sulla loro incapacità di prevedere la crisi. Tuttavia una premessa è d’obbligo: molti studiosi di matrice keynesiana e marxista sono sempre stati convinti dell’ineluttabilità delle crisi capitalistiche, ma la maggior parte degli economisti mainstream, i consiglieri del principe, sostenevano l’approccio neoliberista non per affossare l’intervento statale, ma per utilizzarlo a beneficio delle élites economiche e finanziarie. Se la politica si sia arresa al pensiero neoliberista e all’idea del primato dell’economia, o se invece sia stata la politica (a partire dal tatcherismo e dal reaganismo) a dare voce e spazio al neoliberismo è questione complessa. Certamente il pensiero keynesiano, dominante fino agli anni ’70, ha subito un duro colpo con la crisi del ’72-’73. D’altra parte la risposta degli economisti di stampo liberista, seppure formalmente elegante, era del tutto irrealistica. Ciò nondimeno ha conquistato un ruolo di primo piano e permane il dubbio che il ruolo egemone del pensiero liberista in economia trovi le sue origini proprio nella politica.

 

 

 

5. La situazione attuale e le prospettive per i prossimi anni

 

Lo scoppio della crisi sancisce il fallimento di quella politica (e del pensiero economico mainstream) nella gestione dell’economia, della convinzione ormai molto diffusa del “primato dell’economia”, della “fine delle ideologie”. Tutto ciò comporterà cambiamenti nel modo di fare e di concepire la politica? C’è da dubitarne, certamente in Italia, ma anche nel resto d’Europa. Le soluzioni proposte sono per lo più solo palliativi che non puntano al cuore del problema. Si è cercato di evitare i fallimenti bancari; si è trattato di una misura opportuna per scongiurare una crisi di fiducia e una recessione ancor più profonda, e tuttavia certamente insufficiente. Ma oggi si punta anche a sanare le perdite e a ripristinare gli alti profitti di banche e intermediari finanziari che hanno avuto pesanti responsabilità dell’attuale disastro economico utilizzando risorse che potrebbero e dovrebbero essere destinate al rafforzamento del welfare e al rilancio di uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale. In Europa l’incapacità dei governi di analizzare le cause profonde di questa crisi, di agire con lungimiranza e determinazione per arginarne le conseguenze, di abbandonare l’ottica e le modalità con cui fino ad oggi hanno gestito l’economia potrebbe comportare un ulteriore indebolimento della politica. Una nuova ventata populista e xenofoba aleggia in Europa; il rischio di derive autoritarie è quanto mai presente.

 

In Italia la situazione appare particolarmente grave: non ci sono veri segnali di ripresa come in altri paesi europei; il debito pubblico, già elevatissimo prima della crisi, è in crescita; le disuguaglianze continuano ad aumentare. Il governo in questa situazione dà l'impressione di confidare nello 'stellone italico', mentre larga parte dell'opposizione spera nel 'tanto peggio tanto meglio' senza avere alcuna idea, e soprattutto nessuna intenzione, di eliminare le ingiustizie distributive derivanti dall'evasione fiscale e le conseguenze perverse che essa comporta.

 

Come già era successo con la crisi del ’29, negli Stati Uniti sembra configurarsi una tendenza opposta a quella europea, viene messo in discussione con maggiore determinazione il pensiero economico dominante e, seppure fra mille ostacoli, sembra configurarsi una maggiore attenzione al sociale e al benessere collettivo. Si pensi a questo proposito al tentativo di varare la riforma sanitaria e alla crescente attenzione ai temi ambientali. Ma anche negli Stati Uniti, l’uscita dalla crisi è ancora lontana. Ricordiamo che nel 1938 l’economia americana ancora non era uscita completamente dalla depressione e che solo con la guerra si è avuta un’autentica ripresa e il ritorno alla ‘piena’ occupazione. Esiste una via alternativa alla guerra? Se è vero che la crescita del debito privato non può essere il motore della ripresa, l’unica strada oggi praticabile sembra essere quella del debito pubblico che può essere utilizzato per indirizzare il sistema produttivo verso una riconversione ecologica dell’economia.

 

È presto per dare una risposta, ma in un orizzonte di più lungo periodo ci sembra lecito sollevare anche un’ultima e non meno cruciale domanda: come è accaduto in passato, la crisi aprirà la strada a un nuovo modello di sviluppo? darà inizio a una nuova fase del capitalismo?

Tratto da www.nuvole.it