Home / Dossier / La crisi finanziaria / La Cina e l'India, divise alla crisi

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Dossier

Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito

La Cina e l'India, divise alla crisi

01/05/2009

L'economia indiana ha resistito finora meglio di quella cinese. Ma un tasso di crescita "solo" del 5% avrebbe comunque un impatto sociale molto negativo

“… quando io ero giovane ci dicevano di frequente che i cinesi erano migliori socialisti di noi (indiani) e adesso ci dicono che essi sono migliori capitalisti…”
Pranab Bardhan
“…(in India) lo strapotere dei grandi gruppi industriali è una forma di feudalesimo geneticamente modificato…”; ”…(nel paese) la secessione più riuscita è stata quella dei ceti medi ed alti, che si sono allontanati dal resto del paese…”
Arundhati Roy
Premessa
Un libro di qualche tempo fa (Luce, 2006), descriveva il XXI secolo come un palcoscenico con tre soli protagonisti, Stati Uniti, Cina ed India. Quello indicato non sarebbe forse il miglior assetto auspicabile per il mondo, ma per lo meno esso vedrebbe venir meno il ruolo egemonico di una sola superpotenza. Più improbabile appare invece un’altra previsione, fatta da P. K. Varma, che prevede che il XXI sarà il secolo dell’India (Varma, 2004). In ogni caso, queste e moltissime altre valutazioni sono concordi nell’assegnare al paese un posto di primissimo piano a livello globale in un futuro non troppo distante.
Ma, dopo avere negli ultimi anni acquistato una grande visibilità, da quando è scoppiata la crisi l’India appare come appannata, mentre dominano sulla scena gli altri due paesi sopra citati, gli Stati Uniti e sempre di più la Cina. Il paese, come del resto anche l’altra grande realtà asiatica, il Giappone, sembrano schiacciati, in particolare, da un nuovo protagonismo cinese e dalle notizie sulla stessa crisi. Eppure, mentre la cattiva congiuntura sta dando serissimi colpi all’economia giapponese, l’India sta resistendo invece abbastanza dignitosamente, come vedremo meglio più avanti.
Le lunghissime elezioni in corso, dall’esito molto incerto, hanno comunque riportato alla ribalta in qualche modo, nelle ultime settimane, il subcontinente e i giornali sono in qualche modo obbligati a dare delle informazioni su di esso.
L’evoluzione dell’economia e il confronto con la Cina
Come è noto, la svolta nello sviluppo del paese si verifica a partire dal 1991, attraverso, in particolare, un processo di progressiva, anche se cauta e prudente, apertura che inserirà l’India nell’alveo della crescita mondiale – appare peraltro necessario non sottovalutare le conquiste del periodo precedente. I tassi di aumento del pil, dal momento dell’indipendenza sino al 1990, erano stati in media del 3,5% all’anno, contro uno sviluppo della popolazione che si avvicinava nello stesso periodo al 3%; dal 1991 in poi essi salgono invece in media al 6% all’anno, contro un aumento della popolazione che era ormai passato a meno del 2% (Luce, 2006). Negli ultimi quattro anni, sino al 2007/2008 –il ciclo del budget parte ad aprile e si chiude alla fine di marzo dell’anno successivo- si verifica un’ulteriore accelerazione, con una crescita media che raggiunge il 9% circa, avvicinandosi ai livelli cinesi.
I due paesi vengono spesso collegati nell’immaginario collettivo come gli esempi più rappresentativi di una tendenza in atto al forte sviluppo dei paesi emergenti; qualcuno ha anche a tale proposito bizzarramente parlato di “Cindia”; ma essi presentano in realtà delle opzioni economiche, sociali, politiche, molto differenti.
Intanto l’India è un paese con una grande varietà di lingue, culture, religioni, caste, con forti differenziazioni anche a livello geografico e con la collegata presenza di moltissimi movimenti e partiti politici. La Cina è invece molto più compatta. Tale compattezza è basata alla radice su due elementi (Gernet, 2003): da una parte essa è il paese degli han, con una presenza relativamente limitata di minoranze –la civiltà di quel paese ha sempre ricercato l’unità, l’assimilazione e l’uniformità piuttosto che coltivare le differenze-, dall’altra, lo stato ha il suo fondamento, come è mostrato nel corso di tutta la sua storia, in un’unica lingua-scrittura, quella mandarina.
Anche le strategie di sviluppo dei due paesi sono molto diverse. La crescita cinese appare come molto extravertita, basata su di un forte aumento, oltre che degli investimenti, del commercio internazionale, anche se negli ultimi anni si stanno sviluppando notevolmente anche i consumi interni. Nel caso dell’India il processo è invece, ancora oggi, sostanzialmente centrato sulla domanda interna. In ambedue i casi ci troviamo peraltro di fronte ad un persistente forte intervento dello stato nell’economia, anche se il suo livello è diminuito negli ultimi decenni per ambedue i protagonisti. Un’altra caratteristica che accumuna i due stati è la grande autonomia che hanno le varie entità regionali, autonomia che, mentre permette un positivo decentramento dei poteri, è però anche fonte di grandi problemi.
Guardiamo al peso dei vari settori nella composizione del pil: nel caso dell’India, secondo una delle stime disponibili, l’agricoltura pesava nel 2005 per il 24% del totale, l’industria per il 28%, mentre i servizi entravano in gioco per il 48%; nel caso della Cina, invece, siamo nello stesso anno rispettivamente al 13%, al 46%, al 41% (si vedano in proposito Luce, 2006 e Bardhan, 2005). Come si può così rilevare, l’asse strategico dello sviluppo è stato nel caso indiano sino a ieri rappresentato dai servizi, in quello cinese soprattutto dall’industria. In ogni caso, il pil pro-capite indiano si aggira oggi, grosso modo, intorno alla metà di quello cinese e forse meno.
Un male endemico e grave per l’India riguarda la grande inefficienza ed apatia da una parte, il rilevante livello di corruzione dall’altra, della macchina pubblica. Diversi anni fa Rajiv Ghandi stimava che circa l’85% delle risorse stanziate per i programmi di sviluppo finivano invece nelle tasche dei burocrati e da allora la situazione risulta forse cambiata soltanto di poco. Così i sussidi pubblici non raggiungono in India i poveri, nella maggior parte delle scuole non si insegna loro nulla, le cliniche rurali non riescono a curarli.
Collegato anche al primo problema appare il secondo, che riguarda le gravi carenze delle infrastrutture. Ad esempio, mentre in Cina vengono spesi ogni anno 24 dollari per abitante nel settore degli investimenti stradali, in India la corrispondente cifra è di 2 dollari. Oltre alle strade, mancano porti, aeroporti, ferrovie, strutture di comunicazione, centrali elettriche. Il governo sta cercando di provvedere, ma i mezzi sono scarsi e la crisi non sta certo agevolando il decollo dei piani. Così, era stato identificato un programma da 500 miliardi di dollari di spesa nel settore per il periodo 2007-2012. Ma le carenze di liquidità del sistema bancario, il prosciugarsi degli investimenti esteri, la mancanza di adeguate risorse pubbliche, hanno posto di recente seri dubbi sulla fattibilità concreta di tali piani; mancherebbero all’appello in questo momento almeno 190 miliardi (Lamont, 2009).
Un grande ulteriore punto debole dell’economia riguarda l’agricoltura. Un ettaro di risiera produce in India la metà che in Cina (Kroeber, 2006). Circa il 30% degli agricoltori sfruttano degli appezzamenti la cui superficie non supera 0,8 ettari. Eppure il paese ha una quantità di terre arabili seconda soltanto a quella degli Stati Uniti e molto superiore a quella cinese. I guadagni di produttività, in mancanza di investimenti nei macchinari e nell’irrigazione, sono molto deboli. La metà dei villaggi non ha alcuna strada, il 75% delle famiglie rurali non ha l’acqua corrente, il 45% non è collegato alla rete elettrica (Bouissou, 2009).
L’economia indiana è molto debole nei settori ad alta intensità di lavoro, che sono quelli che hanno invece trasformato il paesaggio cinese, a partire dall’industria rurale e di distretto. Nessun paese asiatico è uscito dalla povertà senza una forte crescita del settore manifatturiero. Qualcuno ha in effetti parlato per l’India di un processo di “sviluppo senza occupazione”. Da sottolineare anche che all’incirca il 95% dell’economia indiana appartiene al settore “informale”.
Dal lato invece dei punti di forza del paese, si può ricordare che le imprese indiane sono molto presenti nel settore dell’information technology ed, inoltre, in quelli farmaceutico, delle biotecnologie, delle parti per autoveicoli. L’India rispetto alla Cina ha più imprese competitive a livello internazionale, presenta un sistema finanziario relativamente più efficiente –su tutti e due i fronti peraltro la Cina sta rapidamente colmando il ritardo-, ma manca peraltro crudelmente di capitali. Su di un livello più generale, essa ha un sistema giudiziario di qualità e, a livello politico, un sistema democratico, “la più grande democrazia del mondo”, come dicono gli stessi indiani.
Alcuni aspetti sociali dello sviluppo
Per quanto riguarda gli aspetti sociali dello sviluppo, bisogna intanto ricordare che, a fronte di una forte crescita del pil, si è verificata nell’ultimo periodo soltanto una debole riduzione della povertà; secondo le stime della Banca Mondiale, la parte della popolazione che vive sotto la soglia della povertà estrema è scesa in Cina, nel periodo che va dal 1990 al 2005, dal 60,2% al 15,9%, mentre in India le cifre corrispondenti sono del 51,3% e del 41,6% (The Economist, 2009). Si registrano contemporaneamente forti differenziazioni nello sviluppo a livello geografico e tra città e campagna, come del resto in Cina. La grande crescita economica del paese è sceso poco a livello delle campagne e delle caste meno privilegiate.
Un simbolo della situazione attuale è rappresentato dal fatto che, a causa della povertà e dei debiti, decine di migliaia di contadini si sono suicidati nel paese negli ultimi anni –circa 112.000 secondo le peraltro prudenti cifre ufficiali, soltanto tra il 1994 e il 2003. D’altra parte, in circa un terzo del territorio dello stato si è sviluppata la rivolta naxalita, che si appoggia, oltre che sui contadini poveri, anche su alcune minoranze etniche tagliate fuori da ogni processo di avanzamento.
Il paese presenta la concentrazione più alta al mondo di persone malnutrite: lo sono il 43% dei bambini di età inferiore ai cinque anni, contro il 10% in Cina. La mortalità infantile è del 65 per mille contro il 30 per mille nell’altro paese. Il governo spende solo lo 0,95% del budget per il settore sanitario. Il 35% dei bambini non sa né leggere né scrivere, mentre solo il 53% dei ragazzi studia per più di cinque anni, contro circa il 98% in Cina. La scuola indiana manca di quasi tutto. Si registrano poi crudeli differenze tra uomo e donna; così, ad esempio, la mortalità infantile delle bambine di età tra uno e cinque anni è del 50% superiore a quella dei maschi della stessa età (The Economist, 2006).
Il miglioramento relativo recente della situazione nelle campagne
Nella campagne, gli ultimi cinque anni di governo del partito del Congresso sono state un periodo, tutto sommato, almeno relativamente positivo, in una situazione che permane peraltro molto disagevole; certo i miglioramenti non possono essere interamente attribuiti allo stesso governo (Kazmin, 2009). Le piogge favorevoli hanno permesso raccolti abbastanza abbondanti; inoltre, i prezzi mondiali dei prodotti agricoli si sono mantenuti a livelli elevati, mentre hanno comunque contribuito al miglioramento della situazione anche alcune politiche governative. I poteri pubblici, in vista in particolare delle nuove elezioni, hanno in effetti spinto le banche di stato ad aumentare i prestiti al settore agricolo, hanno cancellato una parte dei debiti degli stessi contadini, hanno varato una legge che da il diritto, almeno in teoria, ad un adulto di ogni famiglia di svolgere 100 giorni di lavoro retribuito all’anno.
Tutti questi sviluppi hanno permesso alle unità produttive con sufficiente terra di generare un surplus rilevante, mentre milioni di contadini senza terra hanno invece continuato ad essere intrappolati nella peggiore miseria (Kazmin, 2009). Comunque, nell’ultimo periodo le campagne stanno, tutto sommato, giocando un ruolo di ammortizzatori della crisi, di fronte alla caduta della domanda di beni e servizi nelle zone urbane (Bouissou, 2009).
L’impatto della crisi
E veniamo ora più in generale all’impatto della crisi mondiale. I tassi di crescita dell’economia sono diminuiti nell’ultimo periodo in maniera consistente, ma, tutto sommato, il solo relativo collegamento economico e commerciale del paese con il resto del mondo ha attutito la caduta.
Non sono certo mancati gli stimoli all’economia da parte delle istituzioni. Questo sia attraverso un aumento rilevante della spesa pubblica, che ha portato ad un deficit di bilancio in forte crescita- esso dovrebbe aver raggiunto nell’anno fiscale appena concluso l’11,4% del pil- e ad un forte aumento del livello di indebitamento, sia attraverso un deciso taglio dei tassi di interesse da parte della Banca Centrale. Intanto, il livello dell’inflazione, che nell’agosto del 2008 aveva raggiunto il 13%, si sta ora avvicinando allo zero.
Il tasso di aumento del pil, che superava il 9% nel 2007 e che si collocava ancora al 7,6% su base annua nel terzo trimestre del 2008, è sceso al 5,3% nell’ultimo trimestre. Le previsioni più attendibili stimano la crescita per l’intero anno fiscale 2008-2009 tra il 6% e il 6,5-6,7%, risultato comunque ancora interessante.
Le previsioni per il 2009-2010 sono molto incerte: alcune fonti prevedono un aumento del pil del 2,6%, mentre il Fondo Monetario parla di un 5,3% e la Banca Centrale di un 6%. Il governo, ma anche molti ambienti privati, sfoggiano comunque un rilevante ottimismo sulla capacità del paese a far fronte alle difficoltà.
Certamente l’economia indiana ha resistito alla crisi, almeno per alcuni momenti, anche forse meglio di quella della stessa Cina, ma una crescita che si fermasse soltanto al 5% sarebbe, per un paese che deve far fronte all’arrivo sul mercato del lavoro ogni anno di alcune decine di milioni di giovani, molti di più che nella stessa Cina, largamente insufficiente.
Testi citati nell’articolo
- Bardhan P., Awakening giants, feet of clay, University of California at Berkeley, 2005, mimeo
- Bouissou J., L’Inde compte sur ses campagnes pour enrayer le rallentissement de son économie, Le Monde, 7 aprile 2009
- Gernet J., Le monde chinoise, A. Colin, Parigi, 2003
- Lamont J., Infrastructure deficit chokes India, www.ft.com, 17 marzo 2009
- Luce E., In spite of the gods. The strange rise of modern India, Little, Brown, Londra, 2006
- Kazmin A., New prosperity and the curse of incumbency, The Financial Times, 23 aprile 2009
- Kroeber A., China versus India, www.ft.com, 22 maggio 2006
- The Economist, Poverty, 3 aprile 2009
- The Economist, 12 agosto 2006
- Varma P. K., Being indian: why the 21th century will be India’s, Penguin Books, India, 2004

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti