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Le banche e il gene della vergogna

27/08/2009

Business as usual. Negli Usa nove banche, che hanno ricevuto 125 miliardi di dollari di aiuti pubblici, hanno versato 33 miliardi di dollari di premi nel 2008

“…rinasce il mondo di prima della crisi, come se non fosse successo niente, come se l’economia non fosse in ginocchio, come se le dozzine di milioni di disoccupati registrabili in più nel mondo stessero per sparire dalla scena…” (J.-P. Fitoussi)

“…prima che fosse formalizzato l’acquisto dell’istituto da parte della Bank of America, J. Thain, presidente della Merryll Lynch, decise a suo tempo che lui e le sue truppe avevano ben meritato un ultimo piccolo bonus di 4 miliardi di dollari, proprio mentre la stessa Merrill portava in dote al suo matrimonio con la BofA 28 miliardi di dollari di perdite…” (F. Lordon)

“…il gene della vergogna è scomparso dal sistema finanziario…; anche le banche centrali ne sono prive…” (J. Plender)

Premessa

Se c’è qualcosa che esce fuori in maniera netta dalla crisi in atto essa è certamente l’arroganza e insieme il grande potere dei banchieri, che stanno riprendendo con tranquillità le loro vecchie pratiche e dettando nella sostanza il da farsi in materia di finanza ai politici della gran parte dei paesi del mondo, tra l’altro preparando così, indisturbati, la prossima crisi.

Per altro verso, le banche sapevano benissimo già prima della crisi che esse erano troppo grandi per essere fatte fallire; gli avvenimenti accaduti dopo l’agosto del 2007 hanno accresciuto il livello della concentrazione d’impresa nel settore e gli istituti immaginano, probabilmente correttamente, che in caso di una nuova crisi essi non saranno soggetti ad alcun rischio di chiusura in relazione alla crescita ulteriore degli effetti sistemici di un loro potenziale fallimento (Fitoussi, 2009).

L’arroganza del sistema si può registrare in particolare per quanto riguarda la questione della remunerazione dei dirigenti e, all’interno di tale tema, in particolare da quella dei bonus.

Un po’ di storia recente

Le somme crescenti pagate ai manager e ai trader delle istituzioni finanziarie sotto forma di bonus, secondo una formula che collega questi ultimi, almeno teoricamente, ai risultati di breve termine ottenuti, hanno certamente avuto un ruolo importante nella crisi recente. Questo tipo di incentivo ha in effetti portato, tra l’altro, alla presa eccessiva di rischi, ciò che, alla fine, ha avuto in molti casi come conseguenza delle perdite così grandi che sono dovuti intervenire i governi per tamponare la situazione, mentre molti clienti vedevano sparire i loro soldi e i conflitti di interesse dominavano la scena.

Ma, per altro verso, i media e i politici sembrano avere scoperto soltanto con la crisi il problema dello scandalo relativo alle remunerazioni pagate annualmente ai grandi manager e non solo a quelli bancari. In realtà la questione è ampiamente nota da qualche decennio in molti dei suoi risvolti, come testimoniano molte ricerche e scritti sull’argomento. Ma nessuno naturalmente ci faceva caso.

Così, già una ventina di anni fa era vivo il dibattito negli Stati Uniti sul livello delle retribuzioni aziendali – ad esempio, già allora si sottolineava come il top manager di un’impresa giapponese guadagnasse circa 16 volte quanto la media del salario degli operai di produzione, quello tedesco 21 volte, quello inglese circa 35 volte e quello statunitense ben 160 volte (Crystal, 1991). E’ noto poi che tali differenze sono anche molto cresciute nel tempo, soprattutto nei paesi anglosassoni, sino a toccare negli Stati Uniti anche le 500 volte. Una parte molto consistente di tali remunerazioni prendeva comunque la forma dei bonus e delle stock-options.

In tale quadro, una tendenza molto importante che si manifesta a partire dagli anni ottanta e che tende ad accelerare dalla metà degli anni novanta sino al 2006 appare la crescita specifica delle remunerazioni dei dirigenti bancari: in quest’ultimo periodo esse sono raddoppiate rispetto a quelle degli altri settori (Philippon, 2009).

Era inoltre già venti anni fa chiaro che gli incentivi economici messi in campo avevano di frequente poco a che fare con i risultati ottenuti, o che essi erano comunque orientati soltanto ai risultati di breve termine.

Così, uno studio relativo alle retribuzioni di 2500 dirigenti statunitensi di 1400 società quotate in borsa (Jensen, Murphy, 1990) e che copriva il periodo dal 1974 al 1988 mostrava che i cambiamenti annui nella retribuzione dei dirigenti non corrispondevano, o corrispondevano in maniera molto tenue, ai cambiamenti nei risultati dell’azienda. In conclusione, si constatava nello studio, il sistema degli incentivi in atto nella maggior parte delle imprese non spingeva in generale i dirigenti a massimizzare il valore delle società loro affidate.

Forse il massimo esperto statunitense dei sistemi di incentivazione ai manager di quel periodo, G. S. Crystal, disgustato ad un certo punto delle cose che aveva visto accadere nelle imprese, abbandona il mestiere della consulenza e in un testo di quell’epoca (Crystal, 1991) rivela i sistemi con i quali il management delle grandi imprese riesce a gonfiare le proprie retribuzioni e anche a staccarle dai risultati effettivamente ottenuti.

 

Il quadro attuale negli Stati Uniti

Un rapporto del procuratore generale di New York, pubblicato il 30 luglio 2009, mostra che nove banche, che hanno ricevuto 125 miliardi di dollari di aiuti pubblici da parte dello stato federale, hanno versato 33 miliardi di dollari di premi nel corso del 2008, cifra senza alcun rapporto con i risultati di bilancio, mentre per quanto riguarda la sola Goldman Sachs essa ha distribuito 4,8 miliardi di dollari, più del doppio dell’utile conseguito nell’anno.

La stessa Goldman Sachs, dopo una crescita degli utili nel secondo trimestre del 2009 a 3,4 miliardi di dollari, ha annunciato di avere accantonato 11,4 miliardi di dollari per la remunerazione dei suoi dirigenti, mentre la concorrente Morgan Stanley ha annunciato l’accantonamento a tale proposito di 3,9 miliardi di dollari malgrado tre trimestri consecutivi di perdite (Ané, 2009).

Uno studio del National Bureau of Economic Research degli Stati Uniti mostra che il livello delle retribuzioni nel settore finanziario è oggi più alto in media del 50% rispetto a quello prevalente in altri settori privati (Treanor, 2009, a).

Infine, una ricerca che prova ad analizzare come le politiche retributive siano cambiate nel corso del 2008 in 200 grandi imprese statunitensi ( Morgenson, 2009) ha trovato che esse lo hanno fatto in peggio: invece di puntare di più sui risultati di lungo termine, sorprendentemente ne esce fuori che gli incentivi sono più legati di prima ai risultati di breve termine; inoltre, la parte della retribuzione non legata in alcun modo ai risultati è anch’essa aumentata.

Il dibattito in corso in Occidente

La Financial Service Authority (FSA), l’organismo di sorveglianza sulla City di Londra, aveva pubblicato nel marzo di quest’anno un progetto di normativa per mettere sotto controllo il fenomeno delle retribuzioni dei dirigenti finanziari nel paese. I principi messi a punto dalla FSA prevedevano, tra l’altro, che non si potevano pagare bonus se l’impresa era in perdita, che le remunerazioni dovevano essere legate ai risultati complessivi dell’impresa, non a quelli di qualche settore particolare, che comunque i due terzi dei bonus dovevano essere pagati in maniera differita. Questi principi sono ora diventati, nella nuova stesura delle regole fatta in agosto (Treanor, 2009), delle semplici linee guida, senza potere cogente. Inoltre, comunque, le regole ora previste potranno essere cancellate se i regolatori degli altri principali paesi non vareranno norme analoghe. Infine esse si applicheranno comunque ormai soltanto a 26 banche, contro le 47 originariamente previste a marzo (Treanor, 2009, b).

La ritirata, nonostante che il governo avesse promesso un intervento energico sul settore, è il risultato delle pressioni del mondo finanziario, che tende a sottolineare come l’introduzione di norme severe porterebbe ad una perdita di competitività della piazza londinese rispetto a quelle del resto del mondo. E’ lo stesso argomento usato contro nuove possibili regole stringenti anche in altre aree delle attività finanziarie. Inoltre, ovviamente, la City cerca in tutti i modi di difendere i suoi privilegi.

Intanto negli Stati Uniti il ministro del Tesoro, T. Geithner, annunciava che il governo rinunciava a limitare gli emolumenti dei dirigenti di impresa, mentre esso varava un progetto di legge che permetterebbe agli azionisti di dire la loro su tali remunerazioni; egli ha comunque incaricato un avvocato, K. Feinberg, di controllare gli stipendi ricevuti dai più alti dirigenti delle sette società, bancarie e non bancarie, che hanno ricevuto i più elevati aiuti straordinari dallo stato. La procedura dovrebbe essere conclusa entro la metà di ottobre di quest’anno.

La Commissione Europea, dal canto suo, ha proposto nel mese di giugno dei principi guida deboli e generici, secondo i quali, tra l’altro, le banche dovrebbero avere delle pratiche di remunerazione “sane”, che non incoraggino la presa di rischi eccessivi, mentre viene reclamato un equilibrio tra la parte fissa del salario e il livello dei bonus; la Commissione dovrebbe sorvegliare, secondo almeno le intenzioni dichiarate, l’applicazione di tali principi (Ané, 2009).

Intanto, i politici inglesi e francesi fanno finta di agitarsi sul tema, minacciando provvedimenti che secondo noi non verranno peraltro mai. La Francia ed altri paesi chiedono in particolare che il prossimo G-20 si pronunci sulla questione, dopo che già nella riunione di aprile le dichiarazioni di principio inserite nel documento finale si sono rivelate come delle semplici parole al vento. I membri del G-20 avevano raccomandato alle banche che i bonus fossero “ragionevoli” e che essi non avessero un carattere automatico.

Ma, come scrive S. Malaude (Malaude, 2009), come si può pensare che paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che hanno costruito gran parte della loro prosperità passata sulla finanziarizzazione delle loro economie, possano rinunciare a quella che è la fonte primaria della loro prosperità? L’attesa di una soluzione internazionale è quindi, a nostro parere, nient’altro che un inganno, per i bonus come per altre questioni.

Una parziale eccezione alla debolezza dei discorsi politici e delle autorità di vigilanza è rappresentata dal caso della Germania. Già nel 2008, nel mettere a punto le norme per venire incontro alle difficoltà del settore finanziario, Berlino aveva obbligato le banche che avevano bisogno dell’aiuto pubblico a rinunciare al sistema dei bonus e a limitare i compensi ai dirigenti ad un massimo di 500.000 euro all’anno.

Il regolatore del sistema bancario tedesco ha messo a punto di recente una serie di regole che mettono un argine di qualche rilievo al sistema dei bonus bancari (Bryant, Wilson, 2009). Dal primo gennaio del 2010 le banche del paese saranno obbligate a ristrutturare il sistema di remunerazione dei dirigenti bancari, che non dovrà più permettere che siano pagati dei bonus legati agli obiettivi di breve termine. Inoltre i banchieri del paese potranno essere obbligati a restituire gli stessi bonus se ad un certo punto risultasse che essi hanno preso rischi ingiustificati nelle loro decisioni. Il sistema di compensi dovrà essere comunque progettato tenendo conto dei risultati di lungo termine dell’intero istituto e non di suoi settori particolari.

Conclusioni

Bisogna partire dalla considerazione che le questioni legate allo status, alla remunerazione e al potere dei dirigenti all’interno di un’impresa –finanziaria o meno- riguardano la società nel suo insieme (Pérez, 2009), per i molti riflessi che esse hanno sulla vita di tutti.

L’ultima crisi ha, in particolare, mostrato da una parte la necessità di ridurre in maniera rilevante le differenze di remunerazione tra i dipendenti meglio e peggio pagati da una parte, riducendo i livelli di disuguaglianza presenti nella società, dall’altra quella di evitare la presa di rischi eccessivi da parte delle istituzioni finanziarie, che possono indurre dei rischi sistemici e penalizzare in specifico categorie deboli che vanno tutelate.

Il modo migliore per raggiungere questi due obiettivi appare, alla fine, quello di fissare un tetto massimo alle remunerazioni dei dirigenti, legato comunque in un rapporto preciso con i salari più bassi e comunque, all’interno di tale livello, portare la parte eventualmente variabile del salario ad una percentuale molto ridotta di quello totale.

Testi citati nell’articolo

 

- Ané C., Rémunerations des patrons et bonus: ce qui se fait, ce que les pays prévoient, www.lemonde.fr, 6 agosto 2009

- Bryant C., Wilson J., Germany tells bankers to follow rules or repay bonus, The Financial Times, 15-16 agosto 2009

- Crystal G. S,, In search of excess, the overcompensation of american executives, Norton, New York, 1991

- Fitoussi J:-P., Des profits et des pertes: “l’affaire des bonus”, Le Monde, 14 agosto 2009

- Jensen M. C., Murphy K. J., CEO incentives: it’s not how much you pay, but how, Harvard Business Review, 1990

- Lordon F., La crise de trop, Fayard, Parigi, 2009

- Madaule S., Halte aux excés de la finance internationale!, Le Monde, 18 agosto 2009

- Morgenson G., The quick buck just got quicker, The New York Times, 16 agosto 2009

- Pérez R., La gouvernance d’entreprise: évolution et débat récents, in Le capitalisme: mutations et diversité, La documentation francaise, cahier n. 349, Parigi, 2009

- Philippon T., Taxons les activités bancarie les plus risquées pour le secteur financier, Le Monde, 23-24 agosto 2009

- Plender J., Shame gene has disappeared from financial system, The Financial Times, 17 agosto 2009

- Treanor J., Kick galacticos bonus strategy out of the City, say academics, The Observer, 16 agosto 2009, a

- Treanor J., City minister promises new crack down on bonus culture, www.guardian.co.uk, 12 agosto 2009, b

 



































































































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