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Caso Madoff, JPMorgan si salva, i clienti no
Finora si è sempre pensato che il colosso finanziario americano JPMorgan Chase fosse completamente estraneo allo scandalo finanziario del secolo, il cosiddetto "schema Ponzi" di Bernard Madoff. Ma non è così.
Come Nomura, Banco Bilbao e Bnp Paribas, anche J.P. Morgan (questa la denominazione dell'istituto in qualità di emittente), la più grande banca americana in termini di capitalizzazione, ha tuttora sul mercato strumenti derivati che portano in calce il suo nome indicizzati per contratto al rendimento di due dei cosiddetti feeder fund, i fondi che raccoglievano denaro in giro per il mondo e lo davano da gestire alla Bernard L. Madoff Investment Securities (Blmis). I fondi in questione sono il Sentry e il Sigma, che era la sua versione in euro, del gruppo Fairfield Greenwich, che nello scandalo risulta aver perso circa sette miliardi di dollari.
Eppure J.P. Morgan ha dichiarato di non avere praticamente alcuna esposizione - né diretta né indiretta - sui fondi legati a Madoff. Il motivo di questa apparente contraddizione è semplice: meno di tre mesi prima dell'arresto di Madoff, la banca newyorkese ha ritirato i propri capitali dai due fondi, mettendo al sicuro i soldi alla vigilia del crollo della gigantesca catena di Sant'Antonio messa in piedi dall'ex presidente del Nasdaq. La banca non ha mai informato gli investitori della sua mossa e alcuni di loro sono oggi infuriati per il fatto di essere stati lasciati con certificati che la banca dice essere privi di valore.
Kristin Lemkau, portavoce di JPMorgan Chase, ha confermato che la banca ha ritirato i propri capitali dai fondi legati a Madoff nell'autunno scorso, «dopo un'analisi della nostra esposizione nei fondi hedge» e sulla base di «preoccupazioni sulla mancanza di trasparenza».
A detta di Lemkau, gli investitori non sarebbero stati avvertiti della decisione perché non vi erano motivi sufficienti per una ristrutturazione dei certificati. «Non c'erano le condizioni che ci autorizzavano a render noti i nostri timori», dice Lemkau.
Ovviamente, gli investitori la vedono in modo diverso. «I primi a dover essere avvisati erano proprio gli investitori, che invece hanno continuato a pagare commissioni all'emittente e sono rimasti gli unici esposti al rischio che J.P. Morgan non voleva correre», dice il responsabile della gestione patrimoniale di una Sim italiana.
La saga è cominciata più di due anni fa, quando vennero creati i primi certificati. All'epoca sembrava un buon affare per tutti: l'investitore avrebbe investito in note indicizzate su Sentry il proprio capitale al quale J.P. Morgan avrebbe aggiunto una leva di due o tre volte superiore. Cinque anni dopo, alla loro scadenza, le note avrebbero replicato il rendimento del fondo Fairfield, ma grazie alla leva offerta da J.P. Morgan l'investitore avrebbe moltiplicato i profitti del capitale investito. A guadagnarci era però anche Fairfield perché, grazie alla leva, avrebbe venduto più quote del suo fondo. Per questo, Fairfield remunerava l'investitore con quello che in gergo è chiamato rebate, una sorta di retropagamento di 20-30 punti base (0,20 o 0,30%) sul valore totale delle note. J.P. Morgan, infine, avrebbe guadagnato la commissione di gestione, che di solito si aggirava attorno agli 80-90 punti base, e il costo di circa l'1% che l'investitore pagava sul prestito. I prestiti non avevano garanzie, ma alla banca bastava investire il denaro raccolto con la vendita delle note nell'acquisto di quote di Sentry per fare il cosiddetto hedging, cioè coprirsi dal rischio.
Dal febbraio 2006, quando J.P. Morgan emise le prime note, fino al settembre 2008, tutto filò liscio. Ma agli inizi di ottobre agli investitori arrivò la prima scossa. «Fairfield chiamò per informarmi che non avrei più ricevuto i retropagamenti - dice il gestore della Sim italiana - Mi dissero che J.P. Morgan era improvvisamente uscita da Sentry. Cosa che, ovviamente, li aveva scocciati molto».
Sulla questione, un portavoce di Fairfield Greenwich Group ha detto di non poter rompere il silenzio stampa che i suoi legali hanno chiesto.
Il gestore sostiene comunque che a Fairfield la banca giustificò la decisione dicendo che le condizioni generali del mercato l'avevano spinta a uscire da tutti i fondi hedge. E aggiunge: «La congiuntura del mercato era drammatica, Lehman era saltata e tutti erano alla disperata ricerca di liquidità. Se anche J.P. Morgan si fosse trovata con l'acqua alla gola, la decisione di uscire da tutti i fondi hedge poteva sicuramente starci».
Ma una fonte vicina a J.P. Morgan attribuisce l'uscita da Sentry a tutt'altro motivo: «Mi fu detto che la due diligence interna aveva troppi dubbi su Fairfield. E pensava che la continuità dei suoi rendimenti non fosse più credibile. In un momento in cui il mercato era al collasso, non aveva alcun senso che la loro performance non ne risentisse». E aggiunge: «Solo tre mesi prima ricordo che avrebbero voluto emettere altre note, ma che non avevano potuto farlo perché non c'erano quote di Sentry disponibili».
Il fatto che a spingere J.P. Morgan a uscire dai fondi Fairfield siano stati i dubbi su Madoff, agli occhi di alcuni investitori cambia tutto. «Da quando ho saputo dell'arresto di Madoff, ho cominciato a domandarmi se fosse stato solo un incredibile colpo di fortuna, o se piuttosto J.P. Morgan New York non fosse venuta a sapere qualcosa che ha poi spinto Londra a disinvestire di corsa. E adesso che vengo a sapere che era uscita per i suoi sospetti su Madoff, i dubbi mi aumentano», dice il responsabile della consulenza istituzionale della Sim italiana.
Una cosa è certa: nessuno degli altri emittenti di certificati indicizzati ai fondi di Madoff ha avuto la prontezza di uscire alla vigilia dell'arresto. E sono tutti rimasti incastrati. «Ma nessuna di quelle altre banche aveva legami con Madoff. JPMorgan Chase invece era la sua banca. E questo semplice fatto non può che alimentare sospetti sul motivo della decisione di uscire al penultimo minuto», commenta una fonte vicina a Fairfield.
In questa vicenda la banca newyorkese ha giocato simultaneamente in più ruoli. Da un lato dell'Atlantico, J.P. Morgan International Derivatives Ltd era l'emittente di prodotti strutturati legati a un fondo gestito da Madoff. Dall'altro lato dell'oceano, JPMorgan Chase forniva servizi bancari a Blmis, la società del sospetto truffatore. Due dei cinque conti bancari che la Security Exchange Commission, e cioè la Consob americana, ha congelato all'indomani dell'arresto erano proprio di JPMorgan Chase.
Lemkau ha fermamente negato che l'accesso a quei conti abbia motivato la decisione di uscire dai fondi. Ma in qualità di sua banca, Chase sarebbe stata certamente in grado di visionare dall'interno le attività finanziarie di Blmis.
«Se chiedi un mutuo, è normale che una banca vada a guardare i movimenti del tuo conto per capire come sei messo. È quindi possibile che siano andati a vedere lo stato dei conti di Madoff per meglio valutare i rischi del loro investimento nel fondo», dice Stuart L. Greenbaum, esperto di banche che fino a poco tempo fa era rettore della Olin Business School della Washington University, secondo il quale potrebbero esserci oggi i margini per una causa da parte degli investitori.
Uno degli aspetti chiave di un'eventuale azione legale è ovviamente il danno che la banca può aver causato agli investitori col proprio comportamento. «Si deve dimostrare che quello che la banca ha fatto, oppure ha mancato di fare, ha peggiorato la situazione – fa notare Charles Mooney Jr, professore di legge della University of Pennsylvania –. Se fossi l'avvocato della banca, porrei queste domande. E le risposte non sono affatto chiare».
Certo è che la reputazione di J.P. Morgan fu un elemento che spinse un altro gestore europeo, da noi sentito, a decidere d'investire una fetta dei capitali dei propri clienti nei certificati indicizzati su Sentry. «Quando ho visto che J.P. Morgan era disposta a mettere la propria faccia e i propri soldi su Sentry costruendoci sopra un prodotto strutturato, ho pensato che non ci fosse più motivo di essere ancora cauti. A quel punto ho raddoppiato il mio impegno su Sentry, comprando quei certificati», ci dice il gestore, che chiede di rimanere anonimo.
J.P. Morgan non ha mai inviato alcuna comunicazione della sua uscita dal sottostante. «Siamo andati a studiare il prospetto e abbiamo concluso che non c'erano obblighi di comunicazione. Ma sarebbe stato logico che ci fosse stata. Dopo una mossa così insolita, io me la sarei aspettata. Da quando opero nel settore, quindi quattro o cinque anni, non mi era mai capitato di sentire che un emittente uscisse dal sottostante di un suo strutturato», spiega il gestore della Sim.
Un'altra fonte ci ha inoltre detto che, dopo la sua uscita, la banca ha attribuito alle note un valore artificialmente basso sul mercato secondario. In altre parole, agli investitori che volevano a quel punto redimere i certificati offriva un valore decisamente più basso di quanto il rendimento di Sentry non giustificasse. «A ottobre, alcuni clienti mi chiesero di liquidare. Si trattava di note da 50mila euro e, includendo l'ammenda per l'uscita anticipata, mi aspettavo che attribuissero un valore di 51-52mila euro. Invece cominciarono a liquidarmi a 44mila – rivela quest'altra fonte - Quando me ne accorsi, fermai immediatamente l'ordine di remissione. Ovviamente, dopo l'arresto di Madoff mi sono mangiato le mani per averlo fatto».
Da quando è stato arrestato Madoff a oggi, gli investitori hanno ricevuto soltanto la notifica del cosiddetto lock-up, ossia il congelamento delle richieste di disinvestimento. La comunicazione, datata 31 dicembre 2008, è stata inviata ai sottoscrittori dei certificati indicizzati su Fairfield Sentry. L'avviso è firmato da Timothy R. Hailes, direttore generale e legale di JPMorgan Chase & Co di Londra.
«Da allora non abbiamo mai ricevuto nient'altro – dice il gestore europeo -. A oggi, non so ancora quale valore J.P. Morgan attribuisca a quelle note. Tutto quello che so è che se vado sulla pagina di Bloomberg non trovo più il prezzo riportato».
Secondo la banca, circa i due terzi dei certificati avevano una garanzia sul capitale, ma il rimanente terzo non aveva protezioni di sorta. «La nostra opinione è che le note non garantite oggi valgano zero. Gli investitori potrebbero però ottenere qualcosa dalla procedura di bancarotta – dice Lemkau -. In ogni caso, i rischi erano ben chiari nel prospetto d'acquisto». J.P. Morgan sostiene che il valore non protetto è di circa 30 milioni di dollari ma gli investitori dicono che potrebbe essere molto più alto.
Comunque vada a finire con gli investitori, la banca potrebbe trovarsi però a dover restituire i soldi. Negli Usa la legislazione sulla bancarotta autorizza il curatore fallimentare a recuperare denari distribuiti nell'ambito di una truffa. E non si può escludere che il liquidatore di Blmis adesso decida di chiedere la revocatoria dei fondi ritirati da Fairfield.
«Lo ritengo uno sviluppo probabile - conclude la fonte vicina a J.P. Morgan -. Soprattutto per remissioni così vicine nel tempo all'arresto di Madoff».