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Ripresa o rientro, questo è il problema

08/03/2010

Spingere ancora la ripresa o rientrare dai deficit? E' questo il dilemma dei governi nazionali. Mentre gli economisti litigano sul da farsi

“ …questa è una crisi dei bilanci pubblici di tutto il mondo occidentale…; …i titoli pubblici statunitensi sono oggi un rifugio sicuro allo stesso modo in cui Pearl Harbor era un rifugio sicuro nel 1941…”
N. Ferguson

“…il grande incremento nei deficit federali è appropriato alle circostanze…;… se i governi avessero deciso di mantenere i loro bilanci in equilibrio, adesso registreremmo una nuova grande depressione…;… (le argomentazioni del prof. Ferguson) sono isteria…”
M. Wolf

“..l’agenda dell’Unione Europea per quest’anno dovrebbe essere quella di sviluppo ed occupazione…”
G. Brown, in Moya, 2010

“…nessun paese sviluppato ha messo a punto un piano credibile a medio termine per quanto riguarda i conti pubblici…;…nessuno è in qualche modo sicuro di quale direzione stia prendendo la politica dei governi (a tale riguardo)…”
The Economist, a

Premessa
La crisi ha spinto i governi dei paesi ricchi a stanziare somme molto importanti per arginare il fenomeno. Inoltre, la stessa crisi ha comportato rilevanti riduzioni nelle entrate fiscali dei singoli stati e quindi si è già avuto un forte aumento nei saldi negativi dei bilanci pubblici annuali e nel livello di indebitamento complessivo rispetto al pil.
Ora che le difficoltà sembrano perlomeno attenuarsi, si è aperto un vivace dibattito sulle possibili politiche di abbattimento dei deficit, in particolare per quanto riguarda gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
In relazione al primo paese, alle argomentazioni di un grande storico neoliberista come N. Ferguson (Ferguson, 2010), che chiede un rapido rientro, pena la catastrofe, risponde M. Wolf (Wolf, 2010), che difende una politica più espansiva. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, è stato pubblicato un appello di 20 economisti che sostengono le argomentazioni del leader conservatore Cameron (Sunday Times, 2010), il quale afferma che, se andrà al governo, come sembra abbastanza probabile, taglierà la spesa pubblica. A tale appello rispondono in due lettere diverse 67 economisti, che sostengono invece la linea di G. Brown ( Lord Skidelsky e altri, 2010; Lord Layard e altri, 2010). Parallelamente, un libro uscito nel 2009 (Reinardt, Rogoff, 2009), che ha per argomento la storia delle crisi finanziarie, sostiene che un livello di indebitamento pubblico superiore al 90% del pil indica in generale grandi ostacoli ad una crescita rilevante dell’economia di un paese. Infine, uno studio pubblicato da poco (Cecchetti ed altri, 2010) mostra delle proiezioni abbastanza terrificanti, in assenza di interventi correttivi, per quanto riguarda il deficit annuo dei bilanci pubblici e soprattutto il livello di indebitamento dei principali paesi sviluppati da qui al 2040. Un caso a sé continua peraltro ad essere rappresentato, anche nel breve-medio termine, dal Giappone (Mesmer, 2010).

Le analisi e il dibattito
Ha aperto per primo il fuoco N. Ferguson, il cui intervento segna anche il ritorno sulla scena dei neoliberisti ad oltranza, indice questo anche di un mutamento rilevante del clima politico; si pensi che, da un recente sondaggio condotto negli Stati Uniti, appare che il 60% dei cittadini di quel paese dichiara che il taglio del deficit pubblico deve essere ora la più importante priorità del governo (The Economist, 2010, b).
Ferguson sostiene che nel caso greco, come in quello statunitense, è in atto una grave crisi dei bilanci pubblici; non c’è per lui nessun pasto gratuito di stampo keynesiano. L’allargamento dei cordoni della borsa per contrastare la crisi non è per Ferguson servito a nulla, al contrario invece dei risultati da lui giudicati benefici portati della politica monetaria – con tassi di interesse pari a zero e quantitative easing-. Il debito federale supererà il 100% del pil entro due anni mentre quest’anno, come in quello precedente, il deficit di bilancio toccherà il 10% del pil; gli Stati Uniti rischiano inoltre di non avere mai più un budget in equilibrio. I tassi di interesse sul debito raggiungeranno presto livelli molto più elevati di quelli attuali e peseranno sino al 10% ed anche al 20-25% delle entrate federali. Ci si può ora domandare, scrive Ferguson, soltanto quando la crisi, che è partita in Grecia, raggiungerà gli Stati Uniti dopo aver toccato la Gran Bretagna.
Allo storico inglese risponde M. Wolf. La sua linea di argomentazione principale è quella che i benefici di un livello di produzione più alto oggi eccedono i costi del servizio del debito domani. Per Wolf è il prof. Ferguson a credere che ci sia un pasto gratis di stampo conservatore. La politica monetaria ha ormai chiaramente raggiunto i suoi limiti e ai governi non resta che quella di bilancio. L’aumento dei deficit pubblici è lo specchio della crisi del settore privato. Tale aumento è stato sino ad ora appropriato alle circostanze ed ha impedito il crollo dell’economia. Certo, è vero che deficit di tali proporzioni non possono continuare all’infinito. Ma chi potrebbe sostenere la domanda in questo momento mentre i consumatori e le imprese stanno cercando di ridurre i loro livelli di indebitamento? Una stretta budgetaria oggi sarebbe un grave errore e pregiudicherebbe la ripresa; sarà possibile per l’autore attivarla solo quando assisteremo ad una crescita sicura dell’economia.
Spostandoci sul dibattito relativo alla Gran Bretagna, ci accorgiamo che i temi sono analoghi. Esso è stato acceso da una lettera di venti economisti, che sostengono che il governo deve accelerare l’azione di riduzione del deficit pubblico, attraverso soprattutto dei tagli di spesa, partendo già con il bilancio 2010-2011. La lettera appare chiaramente un’azione di sostegno alle idee del partito conservatore. Ma il cancelliere ombra, G. Osborne, non ha fatto in tempo a rallegrarsi pienamente del contenuto della missiva, come aveva cominciato a fare, che sono apparse ben due lettere di dissenso da quella precedente e questa volta firmate da ben 67 economisti di tutto il mondo, compresi diversi premi Nobel per l’economia. Essi, riconoscendo che il deficit pubblico deve essere tagliato nel medio-lungo termine, respingono l’ipotesi che l’operazione debba cominciare subito; essa dovrà per loro partire soltanto dopo che la ripresa avrà mostrato di possedere delle solide fondamenta.

Le proiezioni di lungo termine
Nessuno tra gli economisti nega dunque che si debba procedere nel lungo termine al taglio dei deficit pubblici. Tale convinzione è sostenuta anche da uno studio pubblicato di recente ad opera di alcuni economisti che fanno capo alla Bank for International Settlements (Cecchetti ed altri, 2010).
Gli autori partono dal presupposto che in seguito alla crisi c’è stata, come è noto, un’esplosione del debito pubblico in molti paesi avanzati; secondo l’OCSE tale debito dovrebbe raggiungere e superare per i paesi membri dell’organizzazione il 100% del pil nel 2010.
Tale livello, affermano Cecchetti e gli altri, dovrebbe continuare a crescere nei prossimi anni, in relazione agli effetti di trascinamento della crisi, anche se di quanto lo farà in concreto dipenderà da parecchie variabili, tra le quali i costi totali della crisi, calcolabili solo alla fine, i tassi di crescita dell’economia, il livello dei tassi di interesse, insieme alle decisioni di tipo politico in merito al livello delle spese e delle tasse. Bisogna comunque ricordare che, sulla base degli studi di Reinardt e Rogoff (Reinardt, Rogoff, 2009) e considerando i casi delle esperienze passate, tre anni dopo una tipica crisi bancaria il livello assoluto del debito pubblico cresce in media dell’86% in valori assoluti rispetto al periodo pre-crisi.
Ma per Cecchetti e gli altri, ai dati della crisi si deve aggiungere e si sta aggiungendo l’effetto dell’invecchiamento della popolazione, in termini di maggiori spese pensionistiche e per l’assistenza medica, effetto che inciderà in misura drammatica, secondo gli autori, nei prossimi decenni.
Sottolineiamo soltanto che gli autori, sulla base di studi già esistenti e ipotizzando che le entrate e la spesa primaria del settore pubblico, senza considerare i costi dell’invecchiamento della popolazione, restino una percentuale costante del pil ai livelli del 2011 come previsto dall’OCSE, mentre i tassi di interesse in termini reali siano pari a quelli medi del periodo 1998-2007, arrivano ad ipotizzare che nel 2040 in Giappone il rapporto debito pubblico-pil raggiunga il 600%, in Francia il 400%, più del 500% in Gran Bretagna, più del 400% negli Stati Uniti, più del 300% in Germania e poco più del 250% in Italia.

Il caso giapponese
Il paese asiatico mostra la strada. Secondo il Fondo Monetario, il debito pubblico del Giappone potrebbe raggiungere il 226,2% del pil già nel 2010 e il 239,2% nel 2014. Bisogna considerare, peraltro (Mesmer, 2010), che il paese dispone di importanti riserve di cambio, che coprono almeno una parte di tale debito ed anche che il debito è finanziato in gran parte con il rilevante risparmio interno, che ammonta attualmente a circa tre volte il pil.
Questo dato contrasta con la situazione di altri paesi che hanno i bilanci pubblici in difficoltà: così, nel caso spagnolo il debito pubblico detenuto dall’estero è pari al 43% del totale, in Italia al 50%, al 61% in Irlanda, al 72% in Portogallo, al 73% in Grecia (La Stampa, 2010).
Ma forse l’indebitamento, afferma Mesmer, sta raggiungendo i suoi limiti; il risparmio ormai stagna e il montante complessivo del debito dovrebbe raggiungere quello del risparmio entro 5-10 anni. Bisogna poi considerare che il governo consacra già il 20% del budget al semplice rimborso degli interessi e che comunque il risparmio dei giapponesi potrebbe presto prendere anche strade diverse. Un margine di manovra potenziale è, d’altro canto, costituito dal fatto che il livello della fiscalità nel paese asiatico rappresenta in totale oggi appena il 25% circa del reddito nazionale e consentirebbe quindi, almeno in teoria, come nel caso degli stessi Stati Uniti, rilevanti possibilità di intervento.

Conclusioni
A nostro parere, dai fatti e dalle opinioni sopra ricordate si possono trarre almeno tre conclusioni principali:

1) decidere quando, quanto e come attuare una politica di riduzione dei deficit pubblici è diventata una scelta ineludibile per i governi dei paesi ricchi. Il punto, come sintetizza ad esempio G. Davies (Davies, 2010), è quello che economisti di diverse scuole hanno tratto conclusioni radicalmente differenti degli accadimenti degli ultimi due anni. Il campo conservatore pensa che le azioni di emergenza dei governi per far ripartire l’economia siano stati soltanto dei palliativi temporanei e che nel lungo termine bisogna lasciare che il settore privato avvii la ripresa per conto suo. Il campo keynesiano, invece, vede la crisi come una grande fallimento del sistema di mercato; essa, tra l’altro, ha dimostrato che i mercati finanziari funzionano male, almeno senza una attiva regolamentazione pubblica. Secondo questo punto di vista, l’intervento pubblico è stata la sola ragione che spiega perché l’economia del mondo non ha registrato una depressione come quella degli anni trenta e inoltre per tale corrente di opinione il pericolo si ripresenterebbe se gli stimoli pubblici fossero ritirati troppo presto;

2) in ogni caso, cancellare o almeno ridurre gli stimoli di bilancio e quelli monetari è un lavoro che prenderà molti anni (The Economist, 2010, b). Tra l’altro, appare necessario arrivare ad una maggiore cooperazione tra potere politico e banche centrali, nonché ad un più forte coordinamento internazionale;

3) apparentemente, a seguire le indicazioni che vengono fuori dal dibattito, se non cambia qualcosa ci aspetta un futuro anche prossimo caratterizzato da un mix, variabile a piacimento, tra tagli della spesa sociale, aumenti delle tasse, elevati livelli di inflazione. Naturalmente, la destra approfitterà dell’occasione per ridimensionare quanto più possibile il peso dello stato e della spesa sociale. Si tratta, per altro verso, di un potenzialmente vasto e impegnativo cantiere di lavoro per una sinistra di progetto su un tema rispetto al quale le diverse scelte di tipo politico appaiono un elemento fondamentale delle decisioni.

In tale quadro, appare di un certo interesse, per il momento, che i primi ministri di Gran Bretagna, Grecia, Spagna, Norvegia, abbiano ribadito in un recente convegno londinese (Moya, 2010) che essi daranno prossimamente la priorità alle politiche di sviluppo piuttosto che al taglio dei deficit pubblici; non cadremo nella trappola di quelli che hanno provocato la crisi, ha affermato ad esempio Zapatero, taglieremo i deficit quando la ripresa sarà sostenuta, ma comunque non a spese della coesione sociale.
Una dichiarazione in qualche modo incoraggiante.

Appendice
Su alcuni aspetti della dimensione politica delle scelte di bilancio negli Stati Uniti si è pronunciato di recente P. Krugman (Krugman, 2010).
Più della metà del deficit pubblico del paese quest’anno è il risultato della crisi, afferma l’economista, ma anche quando essa sarà finita, lo stesso bilancio resterà largamente in rosso, a causa dei tagli delle tasse e dei costi delle guerre dell’epoca di Bush. E’ questa la tattica che il partito repubblicano cerca di perseguire da molti decenni, sponsorizzando storicamente grandi riduzioni fiscali con la deliberata intenzione di deteriorare la situazione dei conti pubblici, traguardo cui oggi siamo sicuramente giunti; a questo punto, i tagli alle spese possono essere venduti agli elettori come una necessità invece che come una scelta, come la sola via per eliminare i deficit di bilancio.
Ora i repubblicani, che urlano che bisogna tagliare il deficit, ci devono spiegare però dove vogliono tagliare. Perché essi sono invece così riluttanti a farlo? Dal momento che non vogliono aumentare le tasse, devono suggerire in effetti quali spese in specifico vogliono ridurre. Gli elettori possono anche dire di essere contrari al big government, ma i programmi che costituiscono il grosso della spesa federale –Medicare, Medicaid e quelli per la sicurezza sociale- sono molto popolari e quindi come si potrebbe persuadere l’opinione pubblica ad accettare grandi tagli alla spesa, afferma sempre Krugman?
I repubblicani insistono che il deficit deve essere eliminato, ma, oltre a non volere aumenti di tasse, essi si rifiutano di partecipare ad una commissione parlamentare bipartisan, proposta da Obama, per decidere quali spese tagliare. Il fatto è che essi non hanno alcun piano in merito; l’unico progetto che hanno in mente è quello di tornare al potere. Così, nella sostanza, la loro strategia è da sempre quella di opporsi a qualsiasi azione responsabile sul tema sino a che non si arriverà ad una catastrofe di bilancio, per poi gridare allo scandalo ed invocare misure drastiche.

Testi citati nell’articolo:
-Cecchetti S., Mohanty M. S., Zampolli F., The future of public debt: prospects and implications, Bank for International Settlements, febbraio 2010
-Davies G., The great economics rift reopens, www.guardian.co.uk, 19 febbraio 2010
-Ferguson N., A Greek crisis is coming to America, www.ft.com, 10 febbraio 2010
-Krugman P., The bankrupcy boys, www.nyt.com, 22 febbraio 2010
-La Stampa, Il debito all’estero, 21 febbraio 2010
-Lord Layard e altri, Sharp shock now would be dangerous, The Financial Times, 19 febbraio 2010
-Lord Skidelsky e altri, First priority must be to restore robust growth, The Financial Times, 19 febbraio 2010
-Mesmer Ph., Le niveau d’endettement public atteint ses limites, www.lemonde.fr, 15 febbraio 2010
-Moya E., Britain, Greece, Spain and Norway tell markets: growth, not cuts, www.guardian.co.uk, 19 febbraio 2010
-Reinardt C. M., Rogoff K. S., This time is different. Eight centuries of financial folly, Princeton University Press, Princeton, 2009
-The Economist, New dangers for the world economy, 13 febbraio 2010, a
-The Economist, Withdrawing the drugs, 13 febbraio 2010, b
-The Sunday Times, UK economy cries out for credible rescue plan, 14 febbraio 2010
-Wolf M., How to walk the fiscal tightrope that lies before us, www.ft.com, 16 febbraio 2010

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