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Il dilemma della Francia bifronte

23/06/2009

Una crisi meno grave che altrove, diseguaglianze meno rilevanti, un modello economico che adesso diventa un riferimento. E un disagio sociale che esplode

“ …c’è un cancro che corrode la nostra società: la degradazione crescente del lavoro…”
Robert Castel
Premessa
Da quando è scoppiata la crisi, la Francia sembra essere presa da un destino singolare: mentre in tutto il mondo, uomini di stato, media, istituti di ricerca, da Obama all’Economist, all’Ocse, a G. Brown, sino ai cinesi, scoprono all’improvviso le grandi virtù del modello transalpino di sviluppo, prima largamente detestato in particolare nel mondo anglosassone, nello stesso paese, invece, la situazione appare negli ultimi mesi molto tesa sul fronte economico e sociale, tanto che qualche commentatore, ed anche l’ex-primo ministro D. de Villepin, hanno parlato addirittura dell’esistenza di una situazione prerivoluzionaria (Julliard, 2009). Come stanno allora effettivamente le cose?
Gli aspetti positivi del modello sociale francese
Qualche mese fa è apparso sul pur liberal New York Times un editoriale il cui titolo era grosso modo: “di Francia ne basta una”, con sottintesa l’idea che non era il caso di trasformare gli Stati Uniti in una seconda Francia. Ovviamente l’articolo faceva riferimento ad alcuni punti del programma di Obama – dal varo di un sistema sanitario con copertura universale, alle proposte di legge in materia sindacale, al forte interventismo della mano pubblica nell’economia- che possono far pensare proprio che fosse in atto, da parte degli Stati Uniti, un inseguimento del modello economico e sociale del grande paese europeo. Per non parlare, ovviamente, dei gruppi della destra americana e di alcuni media come, tra l’altro, il canale televisivo Fox –di proprietà di Murdoch- che tendono a sottolineare tutti i giorni un ipotetico scivolamento dell’America verso un “sistema socialista” all’europea o, ancora peggio, verso il modello dell’Urss.
Contemporaneamente, ricordiamo che un ente di ricerca economica come l’Ocse ha per molti anni denunciato i mali del modello francese, dall’eccessiva rigidità del mercato del lavoro, all’esistenza del salario minimo che avrebbe per l’ente effetti negativi sull’occupazione, all’insufficiente apertura del settore dei servizi alla concorrenza; nessun aspetto del modello veniva risparmiato da un’istituzione perfettamente allineata al modello neoliberista, come sottolineava di recente puntigliosamente il giornale Le Monde (Guélaud C., 2009, a). Gli attacchi dell’Ocse erano stati particolarmente virulenti in passato in coincidenza, guarda caso, con la presenza nel paese di un governo socialista. Ed ecco che con la crisi tutto cambia: il segretario dell’Ocse, A. Gurria, trova ora molte virtù negli stabilizzatori economici e negli ammortizzatori sociali del paese, “così importanti per l’Europa”, loda i suoi piani di rilancio, mentre non ha niente da dire sui deficit del bilancio pubblico.
L’Economist, anch’esso da sempre critico del modello dirigista del paese, in alcuni recenti servizi (The Economist, 2009, a, b, c ) tende ora a presentare un quadro meno negativo del sistema francese, pur senza dimenticare alcuni suoi difetti. Il giornale sottolinea come gli americani, gli inglesi ed anche lo stesso settimanale abbiano in passato accusato le economie dell’Europa continentale, con la Francia in prima linea, di essere sclerotiche, troppo regolate e troppo dominate dalla stato e che per prosperare esse avrebbero dovuto adottare il modello anglosassone di capitalismo. Come sottolinea il settimanale, il peso della spesa pubblica nel paese ammontava nel 2007 al 52% del pil, contro il 45% in Germania, il 44% in Gran Bretagna, il 37% negli Stati Uniti. Tale livello elevato della spesa, riconosce ora il giornale, sta riuscendo a mantenere a galla il paese durante la crisi. In effetti, nel mondo sviluppato, la Francia sembra quella che regge meglio le difficoltà; Il Fondo Monetario Internazionale prevede una riduzione del pil del paese del “solo” 3,0% per il 2009, contro stime molto più negative per gli altri stati europei, anche se il deficit pubblico dovrebbe raggiungere il 6,1% del pil nel 2009 e il 7,2% nel 2010 (www.lenouvelobs. com, 21 aprile 2009).
I consumi reggono abbastanza, le famiglie sono relativamente poco indebitate e mostrano un rilevante tasso di risparmio, le diseguaglianze sociali sono certamente più ridotte, in fabbrica ed altrove, che nella gran parte degli altri paesi occidentali, a parte quelli scandinavi. Questo mentre il modello anglosassone è in un momento di crisi molto profonda. Così un welfare state generoso, con i suoi stabilizzatori automatici, ha protetto gli strati sociali più deboli, quelli che altrimenti sono i primi a soffrire in un periodo di difficoltà. Più in generale, riconosce il settimanale, la Francia ha, tra l’altro, un settore pubblico efficiente, un sistema sanitario che è molto migliore di quello statunitense e che, tra l’altro, costa circa la metà dell’altro per persona assistita, nonché un alto livello di protezione sociale. Bisogna considerare che 5,2 milioni di persone sono occupate nel settore pubblico e che, più in generale, secondo una ricerca, circa il 50% di quelli che lavorano o sono pensionati appaiono soltanto moderatamente toccati dalla recessione. Vanno poi considerati i relativamente generosi sussidi di disoccupazione e quelli alle famiglie.
Ricordiamo infine un articolo apparso di recente sul Financial Times (Hollinger, 2009), nel quale viene riportato uno studio della KPMG, la società internazionale di revisione, che ha trovato che, se si prendono in considerazione fattori quali una forza lavoro qualificata, delle infrastrutture di qualità elevata, il buon livello dei servizi pubblici e di quelli finanziari, la Francia appare alla fine come la destinazione più competitiva che ci sia in Europa per un insediamento di tipo industriale.
I problemi in atto
Sin qui gli aspetti positivi che tendono ad essere sottolineati oggi nel mondo. Ci si potrebbe quindi aspettare che in Francia si vivano anni felici e comunque senza grandi preoccupazioni. Ma a leggere le cronache interne si ricava un quadro apparentemente molto diverso. Si ha quasi la sensazione di vivere in un altro paese rispetto a quello descritto sopra.
Le notizie di questi mesi parlano in effetti di occupazioni di fabbriche, di sequestro di dirigenti, di scioperi striscianti nei servizi pubblici, di agitazioni nelle università, di ripresa acuta dei problemi nelle banlieues. Alcuni conflitti nelle fabbriche sono, in particolare, diventati il simbolo stesso della collera delle classi popolari, l’indice di una grande disperazione sociale presente nel paese.
D. Olivenne (Olivenne, 2009), ci introduce in maniera quasi brutale a questa altra faccia della questione. L’autore ricorda come nel paese i conflitti tra ricchi e poveri siano stati regolati per un lungo periodo con la violenza. Poi il XX secolo sembrava aver portato ad una “civilizzazione” nei rapporti sociali: la crescita economica e il suo effetto positivo sui redditi, la migliore ripartizione della ricchezza, le politiche di protezione sociale, la democratizzazione della scuola, la politica della casa, il consumo di massa, avevano progressivamente contribuito ad integrare il proletariato nella società. Così la miseria dei lavoratori, che era stata a lungo la condizione strutturale di gran parte delle classi popolari, era stata nella sostanza ad un certo punto cancellata.
Questo sistema, afferma l’autore, si sta ora destrutturando sotto i nostri occhi. Il deterioramento delle grandi strutture pubbliche –la scuola, l’ospedale-, il degrado dei quartieri popolari, i problemi dello stato provvidenza, la crisi, con le sue conseguenze a livello di licenziamenti, hanno contribuito a cambiare la situazione. Mentre, invece, dall’altro lato regnano l’ostentazione della ricchezza e la crescita spettacolare delle diseguaglianze. Da un lato gli iloti, dall’altro i privilegiati: è questa la configurazione che si vede rinascere sotto i nostri occhi, afferma il giornalista. Da circa dieci anni si riparla nel paese di lavoratori poveri, mentre si era arrivati a credere che si trattasse di una configurazione del passato. In Francia ormai un po’ più del 13% della popolazione vive in effetti al disotto della soglia di povertà. Si va almeno in parte verso un’istituzionalizzazione del precariato, verso la degradazione crescente del lavoro (Armanet, Anquetil, 2009). Eppure la Francia fa parte dei paesi con le minori disuguaglianze tra le classi, certamente minori di quelle dei paesi dell’Europa del Sud, della Gran Bretagna, degli Stati Uniti.
Comunque va montando un grande rancore negli strati popolari e nelle classi medie nei confronti di quella che è vista come l’ideologia riformista-liberale delle élite del paese.
Un aspetto del problema riguarda le prospettive molto oscure dei giovani che arrivano sul mercato del lavoro. Si parla di una generazione precaria o sacrificata (Lancelin, 2009). In ogni caso, si prevede che nel corso del 2009 si perderanno, in generale, circa 600.000 posti di lavoro (Barroux, 2009). La società sembra così organizzarsi intorno a delle diseguaglianze rilevanti anche tra le generazioni.
Nello stesso tempo, i pubblici poteri, prima, negli anni scorsi, tentati con Sarkozy da una svolta neoliberista, ora senza una bussola ideologica chiara in relazione alla crisi, si trovano di fronte al fatto che il deficit generale del settore della sicurezza sociale per il 2009 tende a crescere in maniera importante ed ha raggiunto, secondo le ultime previsioni, i circa 20 miliardi di euro, in relazione in particolare all’aumento del livello della disoccupazione, che riduce i prelevamenti versati dal settore produttivo nelle casse statali (Guélaud, 2009, b). Il governo non sa come chiudere il cerchio, mentre il 13 giugno si è svolta la quinta giornata di mobilitazione generale promossa dai sindacati dall’inizio dell’anno nei confronti di un potere politico che non sembra avere sostanzialmente nulla da offrire.
Una situazione indubbiamente difficile.
Conclusioni
La Francia, il cui modello sociale è preso ormai come punto di riferimento ideale nel mondo, non manca peraltro di problemi anche gravi. Mentre i dati economici suggerirebbero che la crisi stia mordendo di meno che in tutti gli altri grandi paesi dell’occidente e mentre le disuguaglianze tra le classi sociali appaiono oggettivamente tra quelle meno rilevanti, essa si trova di fronte ad un disagio sociale molto evidente e dalle manifestazioni anche clamorose. Il punto sembra allora essere quello che la storia e la cultura del paese comportano che i cittadini tollerino molto di meno che altrove una degradazione della situazione sociale, certamente di per sé minore che ad esempio in un paese come l’Italia, dove i motivi del disagio sociale, economico, politico, sarebbero certamente, almeno in teoria, di maggiore peso. Quello che in Francia è intollerabile, da noi passa quasi inosservato. Quanto ancora a lungo?

Testi citati nell’articolo

- Armanet F., Anquetil G. (a cura di), Les inégalités se creusent-elles?, Le Nouvel Observateur, 28 maggio-3 giugno 2009
- Barroux R., 175.100 emplois détruits dans le secteur privé au premier trimestre, www.lemonde.fr, 10 giugno 2009
- Guélaud C., L’OCDE innove et tresse des couronnes à la France, www.lemonde.fr, 5 giugno 2009, a
- Guélaud C., L’inexorable alourdissement de la dette sociale, Le Monde, 23 maggio 2009, b
- Hollinger P., Dirigisme de rigueur, The Financial Times, 4 giugno 2009
- Julliard J., L’insurrection francaise. Le peuple contre les élites, Le Nouvel Observateur, 30 aprile-6 maggio 2009
- Lancelin E. ( a cura di), “Ce n’est pas la révolution”, Le Nouvel Observateur, 30 aprile-6 maggio 2009
- Olivenne D., Deux France, Le Nouvel Observateur, 30 aprile-6 maggio 2009
- The Economist, Back in the driving seat, 12 marzo 2009, a
- The Economist, A new pecking order, 7 maggio 2009, b
- The Economist, Vive la différence!, 7 maggio 2009, c
- www.lenouvelobs.com, 21 aprile 2009

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