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I debiti e il falò

30/09/2008

La Camera dei Rappresentanti Usa ha respinto lunedì 29 settembre per 228 voti a 205 il piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari. Entrambi i partiti si sono divisi tra spinte contrastanti: da una parte il patriottismo in un momento critico del paese e dall’altro la rappresentanza dei veri interessi degli elettori. Giovedì, controprova con un piano modificato. Mentre la crisi si allarga nel mondo

Dal punto di vista apparentemente “tecnico”, sono individuabili, alla base dell’attuale crisi finanziaria, almeno quattro aspetti critici: il fortissimo sviluppo delle attività finanziarie e il loro peso crescente rispetto a quelle “reali”, il cattivo apprezzamento del rischio da parte dei mercati e delle istituzioni finanziarie, gli scarsi controlli sul sistema da parte delle autorità di vigilanza - una scelta in realtà ideologica prima che tecnica-, infine un troppo elevato livello di indebitamento degli operatori del settore.

Concentriamoci su questo ultimo elemento.

 

In termini generali, un grande livello di debiti, insieme ad altri fattori contingenti, è alla base di tutte le crisi finanziarie dell’epoca moderna e contemporanea. Certamente anche il crack del 1929 poggiava sulla precedente costruzione di un’economia del debito, negli Stati Uniti come in Europa. E se c’era un solo sintomo che avrebbe dovuto far percepire la tempesta in arrivo lo scorso anno era proprio questo.

 

L’economia americana, nei primi decenni del dopoguerra, era caratterizzata dal fatto che il sistema delle imprese presentava un basso livello di debiti. La necessità di mantenere una situazione di questo genere appariva un dogma indiscutibile nel mondo delle imprese come negli ambienti economici e finanziari del paese.

 

Ma si sono verificati nel tempo vari sviluppi che, a livello teorico ed empirico, hanno portato a rilevanti cambiamenti della situazione e che mostrano, tra l’altro, come molte delle pretese “leggi” della finanza dipendano in realtà dal dispiegarsi sul campo dei vari rapporti di forza in gioco.

 

A livello di teoria, vanno ricordati prima i teoremi di Modigliani e Miller, premi Nobel per l’economia, che, già a partire dalla fine degli anni cinquanta, hanno teso a sottolineare la sostanziale irrilevanza, per un’impresa, del suo livello di esposizione debitoria, o, anche, la positività di un alto indebitamento; successivamente, la teoria dell’agenzia, che, a metà degli anni settanta, ha sottolineato l’influenza benefica che un grande livello di debiti poteva avere nel riuscire a migliorare i rapporti tra azionisti e manager in un’impresa; infine, nei primi anni novanta, la cosiddetta scuola di creazione del valore, in particolare con Bennett Stewart III, che ha cominciato a tessere le lodi del debito come nuovo modo di gestire con successo un’azienda.

 

Ma questi mutamenti di paradigma vanno correlati anche ai mutamenti nella situazione sul campo. In effetti, a partire soprattutto dalla fine degli anni settanta, si espandeva fortemente, per poi consolidarsi, il fenomeno dell’acquisizione della gran parte delle azioni delle imprese quotate in borsa, negli Stati Uniti come in Europa, da parte degli investitori istituzionali, registrando l’avvento di quello che Minsky ha definito come money manager capitalism. Nella fase precedente, in assenza di azionisti con quote rilevanti del capitale in moltissime delle grandi imprese, il potere era interamente nelle mani del management, che tendeva, per i suoi stessi interessi di casta, a mantenere nelle imprese un alto livello di capitali propri e quindi un basso livello di debiti; ora, invece, gli investitori istituzionali, più propensi al rischio che non il management, tendono a spingere i dirigenti ad aumentare fortemente i rendimenti economici delle imprese, industriali e bancarie. Peggio ancora, seguendo in questo anche i dettami della teoria dell’agenzia, gli stipendi dei manager vengono ancorati in misura sostanziale ai risultati ottenuti.

 

E’ questo un meccanismo di base che, da una parte, produce l’alterazione dei conti e dei bilanci per far risultare utili che nella realtà non ci sono o sono inferiori – vedi il caso di Enron e Worldcom di qualche anno fa – dall’altra spinge le imprese anche finanziarie a cercare di incrementare i rendimenti aumentando i rischi e lanciandosi in operazioni avventate da una parte, sviluppando i meccanismi di moral hazard dall’altra.

 

Di più, si sono accresciuti i rischi mentre si aumentava il livello di indebitamento, quando una delle poche cose certe della teoria finanziaria è proprio quella che più alti sono i rischi, più alto dovrebbe essere il livello dei mezzi propri. Come si dice nell’ambiente, “non si può giocare al casinò con i soldi degli altri”. Per di più, una parte consistente dei debiti delle istituzioni finanziarie, che oggi raggiungono una somma astronomica, in particolare negli Stati Uniti, sono a breve termine.

 

Eppure, le autorità di vigilanza hanno lasciato fare, mentre anche lo stesso approccio internazionale alle regole relative alla struttura finanziaria delle banche, il cosiddetto sistema di Basilea, non riusciva, neanche nella sua versione più evoluta di Basilea2, a lanciare per lo meno dei campanelli d’allarme.

 

Quando, nell’ultimo anno, sono arrivate le perdite invece degli utili la situazione si è fatta esplosiva.

 

E siamo così alla situazione di oggi.

 

Di fronte all’ampiezza della crisi in atto, una delle parole d’ordine è quindi oggi quella di deleveraging, della necessità cioè di riduzione del livello dei debiti rispetto ai mezzi propri. Impresa, come però vedremo, molto complicata.

Una diminuzione nel livello di indebitamento si può in genere ottenere soltanto per due vie, aumentando il capitale proprio e/o riducendo il livello dei debiti, dilemma che oggi appare drammatico. Ricordiamo che una riduzione di debiti si può poi in genere ottenere, in ambito bancario, in diversi modi, ma soprattutto diminuendo il livello dei prestiti alla clientela.

 

Cosa sta effettivamente succedendo in questi mesi?

 

Si poteva intanto dire, sino a non molto tempo fa che, anche sorprendentemente, la crisi finanziaria aveva infettato molto poco l’economia reale. Ma ora la situazione sta cambiando.

 

Secondo le cifre più plausibili e riportate ad esempio da l’Economist (www.economist.com, 15 settembre 2008), sino a poche settimane prima della stesura dell’articolo citato le perdite rilevate nel mondo bancario a partire dall’avvio della crisi, ormai più di un anno fa, si sono aggirate a livello mondiale intorno ai 500 miliardi di dollari, mentre gli aumenti di capitale registrati nello stesso periodo sono stati di circa 350 miliardi di dollari – qualcuno cita una cifra anche molto inferiore – con una differenza quindi negativa di 150 miliardi. Considerando che la struttura finanziaria media del settore è fatta di circa 14,5 dollari di debito per ogni dollaro di capitale, questo dovrebbe significare potenzialmente una stretta creditizia di circa due mila miliardi di dollari, con minori prestiti conseguenti alle imprese e ai privati. La stima è molto grossolana perché bisognerebbe prendere in considerazione anche altri fattori, tra i quali anche le nuove perdite dichiarate nelle ultime settimane, ma nondimeno essa dà un’idea abbastanza indicativa dei valori in gioco.

 

Ora, c’è da dire che in Europa questa stretta non si è molto sentita, almeno sino ad ora, anche per le molto minori difficoltà finanziarie delle banche locali, ma negli Stati Uniti essa comincia ad incidere fortemente sul mondo produttivo. Certo, le imprese e i privati hanno cercato di difendersi razionalizzando l’esistente, ridimensionando certi programmi, o attingendo, quando potevano, a fonti alternative.

 

La stretta creditizia nel paese si dovrebbe sentire progressivamente man mano che i fidi vengono a scadenza e, comunque, con un certo lasso di tempo rispetto alle difficoltà della finanza, come succede normalmente in questi casi. I prestatori di tutti i tipi hanno già cominciato a rendere più rigidi i criteri per concedere il danaro, concentrandosi sui clienti migliori. Questa tendenza si va accelerando nelle ultime settimane. E’ notizia di pochi giorni fa che l’American Express sta riducendo il limite massimo di fido per circa la metà dei suoi molti milioni di clienti di carte di credito.

 

Ma un risanamento del sistema finanziario che non abbia effetti devastanti sul sistema economico complessivo richiede capitali freschi; data la situazione, dovrebbero essere necessari, secondo il ministro del tesoro Usa, per lo meno 700 miliardi di dollari di aumenti di capitale o di misure equivalenti. Paradossalmente, Wall Street, che controllava il denaro del mondo – ricordiamo, come ha fatto qualcuno, che venti anni fa Tom Wolfe scriveva che le banche di investimento Usa erano le padrone dell’universo-, è rimasta del tutto senza soldi e non può quindi contribuire se non marginalmente al suo proprio risanamento. (Wolfe è l’autore di “Il falò delle vanità”, Mondadori 2008. Un suo articolo, “A Wall Street l’ultimo falò delle vanità”, pubblicato da la Repubblica il 30 settembre rieccheggia quel famoso titolo).

 

Le somme necessarie per questa gigantesca ristrutturazione dei bilanci possono venire in questo momento e in teoria solo da due fonti: Cina, Giappone, paesi arabi, da una parte – cosa volete che possa essere per i cinesi buttare eventualmente nel calderone tre o quattrocento miliardi di dollari se ne valesse la pena? – dal governo americano dall’altra. Ma la prima alternativa appare impraticabile per ragioni politiche, almeno nella sua forma diretta; non resta dunque – al di là di qualche occasionale intervento sempre possibile da parte dei fondi sovrani e delle banche dei paesi citati- che l’intervento dello stato.

Così il governo Usa, fatto di liberisti fanaticamente convinti – il loro slogan più frequentamente citato era “affamare la bestia”, bestia nel senso di Stato – sta in queste settimane, dopo silenzi e tentennamenti che hanno contribuito grandemente ad aggravare la situazione, portando avanti il più vasto programma di intervento pubblico nell’economia che si sia mai visto a partire dall’epoca del New Deal. La bestia ingrasserà certamente a dismisura. Lo stato, come al solito e per altro verso, si accolla nella sostanza le stravaganze e le follie delle stesse banche, comprese le ricche liquidazioni dei suoi manager.

 

Ma dove prenderanno i soldi Bush e Paulson? Nessuno crederà che l’operazione del salvataggio finanziario finisca davvero in pareggio. Così, per una parte stamperanno moneta, sperando che qualcuno accetti un’altra valanga di carta e che il livello dell’inflazione non salga troppo, per il resto dovranno sempre rivolgersi, oltre che ai fedeli giapponesi, ai cinesi – che a suo tempo, tra l’altro, avevano acquistato una parte consistente delle obbligazioni emesse da Freddie Mac e Fannie Mae – perchè essi accettino di sottoscrivere qualche altra tonnellata di buoni del tesoro Usa; ma chissà se e che cosa quelli chiederanno in cambio. Probabilmente non lo sapremo mai.

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