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Perché preoccuparci della disuguaglianza?
Per decine di buoni motivi, estranei all'economia. E per un buon motivo da economisti: la disuguaglianza riduce l'efficienza. Va garantita la parità alla partenza
Non è facile rispondere alla domanda di cosa gli economisti intendano per “disuguaglianza”, se essa debba essere studiata dall’economista ed eventualmente con quali strumenti. Il CRISS (Centro Ricerche Interuniversitario sullo Stato Sociale, www.welfarecriss.org) e il gruppo di ricerca europeo Ineq sono impegnat niel dare una risposta ampia e scientificamente valida alla domanda e questa breve nota ne illustra sinteticamente motivi e ragioni.
Gli economisti misurano tradizionalmente la disuguaglianza attraverso le differenze di reddito tra cittadini, definito in vari modi (al lordo o al netto della tassazione e dei trasferimenti monetari e non). Il reddito è l’elemento misurabile che riassume le caratteristiche di un individuo e il contributo che questi riceve dalla e fornisce alla collettività. Ma la disuguaglianza all’interno dei paesi è quasi ovunque in crescita o in fase stabile. Ed è comunque un fatto preoccupante. O no? La risposta ruota intorno ad una domanda antica e sempre attuale: perché dobbiamo preoccuparci della disuguaglianza? Si possono citare decine di buoni motivi, da quelli filosofici a quelli morali e religiosi. Tutti ovviamente validi. Ma noi stiamo parlando di economia e in questo spazio culturale dobbiamo muoverci. Iniziamo con il definire cosa intendiamo per “disuguaglianza”. John Rawls, nel suo “Theory of Justice” scrisse che l’economista deve pensare ed agire “ dietro il velo di ignoranza”. Che cosa si intende? Che ad ogni individuo deve essere data la stessa opportunità di esprimere liberamente tutta la sua potenzialità. Dobbiamo ignorare le differenze tra individui ed agire come se queste non ci fossero; il “velo di ignoranza” deve coprire le differenze iniziali tra individui, ignorandole e mettendoli sullo stesso piano. Il pensiero economico dominante ha sempre seguito l’idea secondo la quale il libero mercato consente a tutti di esprimere le proprie potenzialità, indipendentemente dalla “dotazione iniziale”. Il mercato non ha un connotato né etico né morale: è semplicemente un “meccanismo allocativo efficiente”. Cioè mette gli individui giusti al posto giusto e ne remunera i talenti di conseguenza. E’ semplicemente meritocratico. Differenze di reddito tra individui rispecchiano solo oggettive differenze di merito. E questo non ci obbliga a tirar dentro alcun elemento filosofico o etico.
In questo contesto uguaglianza non vuol dire azzerare le differenze di reddito tra individui; queste sono solo il riflesso oggettivo di differenti “abilità”, cioè del diverso contributo che ciascuno fornisce alla società. Allora perché preoccuparsi della disuguaglianza? Basta organizzare la collettività secondo i dettami del libero mercato e lasciare che la “mano invisibile” renda giustizia a tutti. Questo è a somme linee ciò che il pensiero economico dominante ha seguito in passato e che ancora è fortemente vivo. Ma il mercato non è quel deus ex machina che si crede. Per due ordini di motivi: il primo è che non esistono mercati per tutte le attività umane e il secondo è che i mercati sono complessi e “falliscono” nel loro compito primario, cioè nell’allocazione efficiente. In altri termini i mercati sono “incompleti” ed “imperfetti”. E non c’è regolamentazione che tenga. Il mercato ha in se i germi stessi del suo mal funzionamento semplicemente perché è un’attività umana e come tale estremamente complessa. E allora se il mercato non garantisce che i talenti individuali siano adeguatamente remunerati, indipendentemente dalla condizione iniziale (il velo di ignoranza), si apre un problema non da poco. Quale è il costo di questo “fallimento del mercato”? Se il mercato alloca in maniera inefficiente gli individui, quale danno, se esiste, arrechiamo alla collettività? Banalmente possiamo chiederci cosa succederebbe se mettessimo un potenziale chirurgo al posto di un potenziale ingegnere nucleare e viceversa. L’Economia funzionerebbe nello stesso modo? Oppure ci dobbiamo aspettare una riduzione di efficienza del sistema, che in termini meno asettici significa minore prodotto interno lordo? Non abbiamo bisogno di grandi astrazioni intellettuali per capire che il danno della mancata allocazione esiste, colpisce tutti ed è non trascurabile. Ma allora se ne conclude che la disuguaglianza tra individui generata da un cattivo funzionamento dell’economia riduce l’efficienza di tutto il sistema! E senza dover appellarci ad aspetti filosofici ed etici ma basandoci su un approccio “ragionieristico” all’economia.
Si può argomentare questo esercizio di logica spicciola con venti anni di contributi scientifici di alto livello. Ma esigenze di spazio non consentono una trattazione organica. Si può però riassumere il punto focale con un esempio intuitivo. La letteratura sulle determinanti della crescita economica ha posto molta enfasi sul processo di produzione e accumulazione di conoscenze e competenze in un’economia. Tanto da identificare nel “capitale umano” il motore privilegiato della crescita economica. La conoscenza si “accumula” con l’istruzione. Il grado scolastico raggiunto da un individuo diventa quindi una variabile osservata che approssima il “talento”, non osservabile, dell’individuo stesso. Il mercato, se perfetto, remunera di conseguenza l’individuo, stabilendo un nesso diretto tra il grado di istruzione raggiunto e il salario (reddito) percepito. Torniamo quindi alla visione dominante: il mercato è meritocratico e premia i buoni cavalli. Ma il problema non è risolto. Perché quel cavallo è “buono”? perché effettivamente dotato di talento e capacità o perché ha potuto usufruire di condizioni particolari che lo hanno favorito? Fuor di metafora, il grado di istruzione raggiunto è effettivamente un segnale affidabile delle qualità individuali? Senza scomodare gli scienziati sociali è evidente che la risposta non è positiva. Un bambino nato e cresciuto in un ambiente familiare e sociale di cultura e reddito elevato gode di “esternalità” positive (buone scuole, lezioni private, ambiente culturale più dinamico etc.) di cui non gode il bambino nato in condizioni disagiate. In altri termini l’assioma di base dell’economia ortodossa, cioè le pari opportunità iniziali, viene violata e l’esito finale non può che essere distorto. Il mercato è una sorta di meccanismo input-output che funziona sempre con le stesse regole e non corregge gli errori. Se l’input è distorto, sarà distorto anche l’output. Se un potenziale chirurgo non raggiunge la laurea perché non può affrontare i costi dell’istruzione terziaria, il mercato, basandosi sulla sua logica, lo allocherà ad una mansione più semplice e avremo perso un “talento” importante per l’intera collettività.
Ciò che il nostro gruppo di lavoro Criss si prefigge è proprio quello di dare ulteriore voce al fatto che la disuguaglianza crea una riduzione di efficienza; una economia che vuole crescere e svilupparsi deve farlo garantendo a tutti l’espressione delle proprie potenzialità, cioè l’uguaglianza alla partenza. E questo non per motivi etici e filosofici, che pure sono fondamentali, ma per un semplice e brutale ragionamento economico.
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