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Il G20 chiude un'epoca. Ma non ne apre un'altra
Il summit di Londra sancisce la crisi del capitalismo della super-finanza. Ma molte delle misure prese sono più d'immagine che reali, e manca un coordinamento internazionale. Assente la riflessione su quello che può essere il volano della ripresa: tornare a collegare sistema economico, distribuzione del reddito e bisogni delle persone
Se si separa l’enfasi delle dichiarazioni conclusive del G20 dalla concretezza delle misure annunciate, la valenza principale del summit di Londra è nell’ammissione della dimensione epocale della crisi in atto che non è solo finanziaria, ma riguarda il meccanismo di crescita economico-sociale e gli equilibri economico-politici maturati a partire dai passati anni ’70, quando finì la cosiddetta “età dell’oro” iniziata nel secondo dopoguerra.
Nel trentennio post bellico il keynesismo, favorendo una migliore distribuzione del reddito e lo sviluppo del welfare, contribuì a conciliare il capitalismo con la democrazia, stimolando una grande crescita della ricchezza economica e una sua più estesa diffusione. Con la successiva progressiva affermazione del neoliberismo, la ricerca del profitto è diventata sempre più avulsa dalla stessa sfera reale dell’economia capitalistica e, ancor più, dalla dimensione sociale dei rapporti economici. L’enorme sviluppo della sfera finanziaria, il peggioramento distributivo e l’indebolimento delle scelte pubbliche hanno accentuato l’allontanamento dell’economia dai bisogni reali e dalla centralità del lavoro come strumento della produzione e della socialità dell’uomo. La crisi in corso esprime anche questo scollamento che si è manifestato nel maggior aumento della capacità e convenienza dell’offerta produttiva rispetto alle possibilità della domanda.
Naturalmente, nel G20 non si è svolto questo genere d’analisi; tuttavia, in diversa misura si è avvertito l’esaurirsi delle condizioni che negli ultimi tre decenni hanno sorretto – in modo sempre più instabile - l’equilibrio economico e politico internazionale. Le differenti valutazioni sulle misure da prendere inevitabilmente riflettono le diversità d’interessi.
Il fatto che gli Usa – rispetto all’asse franco-tedesco (l’Europa in quanto tale ha confermato la sua assenza) - abbiano sottolineato maggiormente la necessità di politiche comuni di stimolo alla ripresa economica, ponendo in secondo piano la revisione delle regole dei mercati esprime, da un lato: il tradizionale pragmatismo della politica economica americana; la consapevolezza di essere l’epicentro della crisi e di avere maggiore necessità di uscirne in fretta; il comprensibile timore che finanziare politiche di bilancio espansive senza che gli altri paesi facciano altrettanto comporta sostenerne i costi ma dividerne i benefici. D’altro lato, la revisione delle regolamentazioni dei mercati finanziari, oltre a sconvolgere maggiormente quelli americani (che nei passati decenni più si sono “liberati” dai controlli pubblici) evoca una più complessa riorganizzazione che riguarda anche l’assetto monetario internazionale e, dunque, il ruolo del dollaro.
L’impiego e l’accettazione del dollaro come la valuta che regola le relazioni economiche internazionali non solo ha reso possibile, ma anzi ha richiesto il crescente debito estero americano che ha contribuito a finanziare sia le spese statali connesse al ruolo Usa di unica potenza globale sia i consumi delle famiglie superiori ai loro redditi.
La maggior attenzione di alcuni paesi europei a rinforzare le regolamentazioni del sistema finanziario internazionale, oltre a sottolineare la responsabilità del sistema finanziario Usa nella crisi, richiama l’attenzione – a dieci anni dalla creazione dell’Euro - sull’opportunità di un riequilibrio del ruolo del dollaro come valuta internazionale.
A questo riguardo, è stata significativa – alla vigilia del G20 - la richiesta cinese (che finanzia larga parte del debito pubblico Usa), poi sostenuta anche dalla Russia, di pensare ad una nuova valuta internazionale.
In realtà, due tipi d’intervento discussi a Londra - il sostegno vigoroso e coordinato della politica fiscale alla ripresa e le riforme del settore finanziario e del sistema valutario internazionale – non sono alternativi, ma sarebbero entrambi utili per uscire dalla crisi; tuttavia, privilegiare l’uno, l’altro e le diverse modalità d’intervento non è affatto indifferente per gli equilibri di potere.
Se si analizzano i risultati dell’incontro di Londra, si nota che alcuni sono più appariscenti che concreti. Per esempio: i 5.000 miliardi di dollari di sostegno fiscale alla ripresa si riferiscono a misure già prese o per l’anno prossimo, ma decise comunque a livello nazionale, senza alcun coordinamento; dei 1.100 miliardi di dollari aggiuntivi affidati al Fondo Monetario Internazionale, solo 100 è sicuro che saranno finanziati dal Giappone e forse altri 140 verranno dall’Unione Europea e dalla Cina. E’ più significativo, invece, che il Fmi potrà creare nuovi Diritti Speciali di Prelievo (uno strumento monetario internazionale che finora ha avuto scarso rilievo quantitativo) per 250 miliardi di dollari. Molta enfasi è poi stata data alle nuove regole finanziarie, ma - nel frattempo - le autorità americane hanno concesso alle loro banche di non applicare più il metodo mark-to-market che avrebbe il “difetto” di evidenziare la vera entità delle loro perdite patrimoniali.
Come si è accennato all’inizio, ciò di cui il G20 non si è occupato affatto è come recuperare un più adeguato collegamento tra sistema economico, distribuzione del reddito e bisogni (privati e collettivi) delle persone. Questo collegamento non risponde “solo” ad esigenze sociali e di concreta realizzazione della democrazia, ma è rilevante anche ai fini della crescita della ricchezza (come dimostra il confronto tra le situazioni del primo e del secondo trentennio dopo la seconda guerra mondiale). Richiamare l’attenzione su questi aspetti sarebbe compito precipuo della sinistra; ma uno dei paradossi contemporanei è che, pur in presenza di circostanze storiche che richiedono e danno spazio alla sinistra, questa non riesce a darsi una rappresentanza adeguata.
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