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Dove ci porta il rigore europeo
L'Europa taglia 300 miliardi di euro di spesa sociale, prendendo così la strada sbagliata di una politica prociclica. Un secondo errore, dopo gli anni della crescita dopata
Due tesi stanno emergendo sulla crisi europea. La prima è che questa sia l’occasione per “riforme strutturali” che riducano il peso del settore pubblico e rendano ancor più flessibile il mercato del lavoro. E’ curioso come questa tesi sia emersa solo in seguito alla crisi greca, che peggio amministrata non si poteva, ma si sia rapidamente tradotta in una serie di misure generalizzate a livello europeo di riduzione della spesa pubblica, stimate da "Il Sole 24 Ore" in oltre 300 miliardi di euro. In precedenza accusata di aver fatto poca politica anti-ciclica, l’Europa si appresta dunque a condurre una politica pro-ciclica. L’obiettivo sarebbe di rassicurare i mercati finanziari della volontà europea di aggiustare i conti pubblici. Si può tuttavia sospettare che i mercati finanziari non si sentano affatto rassicurati da misure che potrebbero nuocere, per il loro effetto recessivo, sia sulle entrate fiscali che sulla solvibilità del settore privato. Si ritiene forse che l’effetto recessivo possa accelerare la deflazione di prezzi e salari che si dice necessaria ai paesi periferici per riacquistare competitività. Ma un processo di deflazione competitiva a livello europeo, devastante sul piano sociale, sarebbe comunque un gioco a somma zero – come nelle classiche svalutazioni competitive - che anche aggraverebbe il valore reale dei debiti, accentuando l’insolvibilità degli operatori. Inutili, ma anche vigliacche tali misure, utilizzate per inferire un altro colpo ai salari diretti e indiretti dei lavoratori europei.
Non sorprende comunque lo scetticismo che i mercati hanno mostrato nei riguardi del pacchetto di aiuti approntato dall’Ue il 9 maggio e anche delle misure fiscali prese in quanto esse non si misurano con l’origine degli squilibri europei.
A questi si riferisce la seconda tesi che, sebbene ben rappresentata accademicamente e sugli organi di stampa internazionali, non pare abbia fatto breccia politica, se non in sporadiche dichiarazioni francesi. Sinteticamente, l’Ume sarebbe vissuta sino allo scoppio della crisi finanziaria facendo perno sul paese centrale che conduceva politiche di rigore salariale, mentre le sue banche rassicurate dalla moneta unica elargivano prestiti a tassi convenienti ai paesi periferici, nella forma di mutui immobiliari in alcuni e di sostegno al debito pubblico clientelare in altri. Questi paesi hanno così vissuto di una crescita dopata, mentre il paese centrale da un lato guadagnava competitività e dall’altro si assicurava lo smercio per il proprio surplus commerciale. La politica del paese centrale è stata definita “mercantilismo monetario” da parte di un importante storico economico tedesco, ma viene anche in mente l’analisi di Michael Kalecki. Un modello di crescita siffatto non ha però vita eterna: l’indebitamento della periferia si trasforma alla lunga in insolvibilità, cioè inesigibilità dei crediti del paese centrale. Proprio per questo i mercati finanziari hanno dato poco credito al menzionato pacchetto di aiuti: che garanzie poteva assicurare il paese centrale i cui attivi finanziari consistono di crediti potenzialmente inesigibili? E' come se esso stesse garantendo se medesimo (non dimenticando che i proventi commerciali tedeschi si sono tradotti anche in incetta di mutui subprime americani). L’unica vera misura presa è stata in realtà l’intervento diretto della Bce nel sostegno della collocazione dei titoli pubblici dei paesi più a rischio. Su questo, non a caso, i tedeschi hanno cominciato a gridare allo scandalo come se un po’ più di moneta in circolazione potesse generare inflazione in una situazione di elevata inutilizzazione della capacità produttiva. Intervento dunque positivo per i sostenitori della seconda tesi che anche argomentano che solo politiche di sostegno della domanda da parte del paese centrale possono tirare fuori l’Europa da una prospettiva che, a giudicare dalle manovre di bilancio in corso, appare assai cupa. Grande soccorso non potrà infatti venire dalla debolezza dell’euro, di cui peraltro soprattutto si avvantaggiano le esportazioni dell’economia centrale: i partner globali non potranno accettare che l’Europa scarichi i propri problemi aggravando gli squilibri globali.
Alla luce di quanto argomentato emerge la pochezza del dibattito politico italiano e in particolare delle posizioni del Pd. Quest’ultimo non ha mai messo in discussione la necessità della manovra fiscale (che fosse stato per lui sarebbe stata fatta ben prima, pare di capire), ma solo i suoi contenuti. Non v’è dubbio che questi siano caratterizzati da iniquità, ma il punto non è questo. La questione è discutere l’intero assetto della politica economica europea che il Pd sembra invece accettare sperando che essa dia una sferzata competitiva al paese. Difficile che tale sferzata risulti da un facilmente prevedibile declino economico. La sferzata il Pd la dia lui, chiedendo a gran voce cosa il governo sta facendo per difendere gli interessi nazionali italiani in Europa abbandonando il triste rigorismo di catto-comunista e amendoliana memoria.
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