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Minacce di ripresa: come prima, più di prima?
Segnali minimi e non univoci diffondono infondate speranze su una ripresa vecchio stile che - se pure arrivasse - non sarebbe finanziariamente sostenibile
Non si registrano che sostanzialmente due tesi sulle ragioni della crisi economica in atto e sulle possibili vie per uscirne (Dockès, Lorenzi, 2009).
La prima, che potremmo qualificare come liberista, vede in questa, come del resto in altre difficoltà passate, semplicemente un momento classico del ciclo economico; si tratterebbe, in altri termini, di una crisi ordinaria, anche se severa. Essa sarebbe da collegare ad un momentaneo cattivo funzionamento della sfera monetario- finanziaria, originato dagli eccessi di liquidità. La stessa crisi rivestirebbe, da questo punto di vista, un ruolo regolatore: essa ripulirebbe il mercato dalle scorie che vi sarebbero presenti e permetterebbe alla fine una nuova partenza della macchina. Noi quindi, secondo questa tesi, vivremmo in un periodo temporaneo di difficoltà, nel quale il ruolo dello stato dovrebbe essere quello di far fronte alle temporanee lacune del mercato, aiutando in particolare il settore finanziario a ripartire. Lo stesso potere pubblico dovrebbe poi essere pronto a ritirarsi appena si manifestassero i segni della ripresa. Per altro verso, come sottolinea ad esempio M. Sorrell (Sorrell, 2009), il crack era in un certo senso inevitabile, ma il pendolo dell’economia ora oscillerà nell’altra direzione.
Per la seconda tesi, molto più radicale, invece, il principale fattore della crisi è costituito dall’esaurimento del modello consumistico che aveva funzionato negli ultimi decenni. La crisi dovrebbe, per questa seconda interpretazione, essere posta in relazione ai problemi di ineguale distribuzione del reddito e della ricchezza e alla conseguente spinta al sovraindebitamento delle classi produttive per far fronte alla mancata crescita dei loro redditi. Tali problemi sarebbero stati resi possibili ed anche ampliati dagli squilibri in atto tra i vari paesi del mondo a livello commerciale, economico e finanziario, con l’affermarsi a suo tempo di una situazione in cui alcuni stati “dissipatori”, e segnatamente Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, si sono contrapposti ad altri stati “virtuosi”, e in particolare a Cina, Germania, Giappone; inoltre, si sarebbe contemporaneamente ed in parallelo registrata la tendenza della finanza ad assecondare ed anzi ad allargare in maniera perversa tali squilibri, trovandone anche un tornaconto rilevante.
Dal momento che secondo questa tesi saremmo di fronte ad una crisi sistemica la soluzione alle difficoltà non potrebbe quindi che essere strutturale e globale.
Per questa seconda ipotesi, come abbiamo ricordato in una nota apparsa su questo stesso sito di recente (si veda il pdf lì allegato), una ripresa economica equilibrata potrebbe essere innescata soltanto varando dei programmi credibili su almeno quattro fronti: 1) ristrutturando il settore finanziario, 2) innescando sul mercato un nuovo tipo di domanda, 3) avviando un adeguato processo di cooperazione internazionale, 4) sviluppando politiche di sostegno specifiche per i paesi più deboli.
Confusi segnali di ripresa produttiva
Apparentemente in contraddizione con gli assunti della tesi appena esposta –non si profilano all’orizzonte, almeno per il momento, provvedimenti adeguati sui quattro punti appena indicati-, nelle ultime settimane si moltiplicano le notizie e le previsioni che fanno sperare a molti in una prossima uscita, per quanto debole, dalle difficoltà.
Così, tra le tante, riportiamo alcune informazioni in merito riprese dal quotidiano Le Monde (Faujas, Malingre, 2009; Rodier, Tricornot, 2009).
Intanto si sottolinea come la ripresa cinese sembri acquistare una dimensione più rilevante nel mese di marzo. La produzione industriale del paese cresce dell’8,3% nel mese, il pil del 6,1%, gli investimenti addirittura di quasi il 30%. Il sistema finanziario pompa denaro all’economia, gli indicatori relativi agli acquisti migliorano, si manifesta in particolare una ripresa degli acquisti di materie prime, che stanno anche facendo aumentare i prezzi, ma anche quelli dei beni industriali. Così le bilance commerciali di Australia, Corea del Sud, Taiwan migliorano; anche quelle di Germania e Giappone sembrano almeno in parte mostrare qualche segno di vita in relazione agli acquisti di impianti e macchine utensili in atto da parte del gigante asiatico.
A parte la possibile ripresa cinese, qualche movimento positivo si manifesta in India, mentre anche la situazione statunitense mostra qualche leggero segno di vita –Obama ha parlato a questo proposito di barlumi di speranza-, mentre la Gran Bretagna registra un aumento nei livelli di credito; l’automobile si riprende, almeno in parte, in Brasile ed in Europa. La rassegna mensile relativa al commercio estero della Francia mostra che le imprese del paese mostrano per la prima volta un certo ottimismo nel mese di marzo. Lo stesso sembra si possa dire per quelle tedesche e belghe. Anche il bollettino economico della Banca d’Italia parla di “un allentamento della forza recessiva” e la presidente dell’associazione industriali parla dell’arrivo di un punto di svolta già a luglio.
Questi ed altri dati indicherebbero, almeno per alcuni, che l’inizio della fine della crisi potrebbe stare avvicinandosi. Ma questi indici, a parte il caso cinese e quello di qualche altro paese asiatico, si devono peraltro confrontare con dei dati molto negativi che continuano a manifestarsi su altri versanti.
Il caso delle banche statunitensi
Forse un modo importante per cercare di capire quello che sta veramente succedendo può essere quello di analizzare la situazione e le prospettive attuali delle banche statunitensi.
Partiamo dalla considerazione che alcuni grandi istituti stanno apparentemente annunciando risultati molto positivi per il primo trimestre del 2009, ciò che sta contribuendo a dinamizzare anche la borsa.
Così la Goldman Sachs nei primi tre mesi del 2009 ha ottenuto utili per circa 2 miliardi di dollari. Ma un’analisi più attenta mostra che la società, che ha a suo tempo ricevuto 10 miliardi di dollari dallo stato attraverso il programma TARP, ha registrato la gran parte dei profitti facendo scommesse molto rischiose sui tassi di interesse e su altre possibili fluttuazioni dei valori dei mercati finanziari e tutto questo con i soldi ricevuti dal governo. Questo mentre lo stesso istituto così come altre banche stanno riducendo il livello del credito alle imprese (Gandel, 2009).
Come nota N. Roubini (Roubini, 2009), le banche stanno approfittando, più in generale, della possibilità di approvvigionarsi di denaro a costo zero presso la Fed, di un massiccio utilizzo di risorse provenienti da una dozzina di differenti programmi governativi, mentre esse non stanno mettendo da parte adeguate riserve a fronte di massicce perdite future che si vanno delineando sul loro portafoglio prestiti, non stanno inoltre svalutando adeguatamente in bilancio neanche i prestiti già in fase di insolvenza, stanno usando i recenti cambiamenti nei criteri di valutazione dei titoli per inflazionare i valori di molte attività, stanno infine utilizzando una serie di trucchi contabili per ridurre le perdite e aumentare i profitti.
A riprova di quanto affermato da Roubini, si può a questo punto ricordare come la Citigroup, forse la grande banca statunitense con i maggiori problemi, ha anch’essa sorprendentemente annunciato risultati positivi per il primo trimestre per 1,6 miliardi di dollari. Ma se guardiamo da vicino, in realtà tale cifra è stata ottenuta applicando diversi tipi di maquillage contabili per un totale di almeno 3,3 miliardi di dollari, approfittando inoltre di alcuni importi straordinari e sottovalutando gli stanziamenti a riserva a fronte dei rischi attualmente incorsi sui prestiti alla clientela (Guerrera, 2009). In realtà, quindi, il risultato reale dovrebbe essere in negativo per diversi miliardi di dollari. Anche i dati positivi della Bank of America sono interamente dovuti a delle partite straordinarie.
Intanto W. Buiter (Buiter, 2009) rincara la dose delle osservazioni critiche su quanto sta succedendo. Il governo sta, per lo studioso, facendo di tutto per nascondere la reale situazione delle banche; tra l’altro esso usa l’annunciato stress test per le banche come un meccanismo per guadagnare tempo. Il declino reale dell’economia è superiore a quanto ipotizzato nello stress test; lo stesso test concentra poi la sua attenzione sul valore dei titoli in portafoglio, voce che costituisce soltanto il 40% dell’importo totale dei bilanci delle banche, mentre trascura il 60% che consiste nel valore dei prestiti. Ma una parte consistente di tali crediti andranno persi nei prossimi mesi a ragione della forte caduta dell’economia del paese e i bilanci delle banche non ne sono ancora toccati in maniera adeguata. D’altro canto, gran parte delle informazioni fornite dalle banche al governo per lo stesso stress test non sono verificabili; troppi istituti hanno mentito in passato troppe volte perché l’opinione pubblica possa oggi poter essere tranquilla sulla qualità dei dati ora forniti. Prima della fine dell’anno, comunque, afferma Buiter, tutti i problemi usciranno allo scoperto, anche se l’amministrazione Obama dovesse dichiarare nei prossimi giorni che tutte le banche hanno superato il test.
Ci sarebbe una sola strada, afferma lo studioso, per fare sì che la politica del governo Usa verso le banche funzioni ed è quella che il Congresso voti un altro pacchetto per 1,5 trilioni di dollari di fondi per le banche -1 trilione per togliere le attività tossiche dai loro bilanci e 0,5 trilioni come ulteriore capitale. Ma la probabilità che il Congresso approvi un incremento anche solo di un centesimo a favore delle banche è in questo momento, afferma Buiter, pari a zero. Non resterebbe quindi, alla fine, che la strada della good bank.
C’è da dire, comunque, che alcuni segmenti del business finanziario mostrano un certo risveglio e che almeno le banche che non hanno grandissimi titoli tossici e crediti dubbi in portafoglio possono in questo momento prendere a prestito soldi a tasso di interesse pari a zero ed investirlo con rendimenti elevati, come sta facendo ad esempio la Wells Fargo, che ha ottenuto anch’essa buoni risultati nel primo trimestre del 2009.
Da sottolineare comunque che le stesse banche si mostrano estremamente prudenti e almeno relativamente pessimiste sul futuro prossimo. “Noi non vediamo la luce in fondo al tunnel”, come si esprime ad esempio il direttore finanziario della Citigroup, riferendosi alle prospettive dell’economia del paese. E le valutazioni della Citigroup appaiono in linea con quelle di altri istituti. Anche alla Bank of America dichiarano che “le condizioni del credito sono destinate a deteriorarsi”.
Intanto viene annunciato dalle autorità che nel primo trimestre hanno dichiarato fallimento 25 banche, contro un eguale numero per tutto il 2008, che pure non era stato un anno facile. Come dichiara lo stesso Obama, in ogni caso il credito continua a non fluire; anzi continua la spirale perversa verso il basso tra banche ed imprese: i problemi del settore finanziario scavano nella situazione delle imprese, mentre i problemi delle imprese si riflettono a loro volta negativamente sulla situazione delle banche.
Che cosa si può dire alla fine
Ma a parte la Cina, per la quale si può plausibilmente fare l’ipotesi, ma solo l’ipotesi, di una ripresa rilevante a relativamente breve periodo, si tratta per il resto del mondo di primi segni di una ripresa o soltanto di un rimbalzo tecnico, legato in particolare, anche se non solo, al ciclo delle scorte? Si può parlare, per altro verso, di possibile futura ripresa, sia pure a passo di lumaca, o più semplicemente di un rallentamento nei ritmi della caduta dell’economia?
Responsabili politici, OCSE, FMI, banchieri centrali, prevedono comunque la fine della recessione per il 2010. L’ipotesi sottostante sembra essere quella che la ristrutturazione della situazione bancaria degli Stati Uniti e i vasti programmi di rilancio dell’economia daranno una base ad una ripresa della fiducia: il credito bancario ripartirebbe e, con esso, gli scambi e i consumi, in particolare, i consumi negli Stati Uniti.
Ma su quale base i consumatori americani sovra indebitati poterebbero aver voglia di ricominciare a indebitarsi?
In ogni caso, rilanciare la macchina economica attraverso una semplice riconduzione del modello consumeristico che è all’origine della crisi, per di più attraverso anche spregiudicate manovre finanziarie, non potrebbe che aggravare ancora la situazione a termine (Stiegler, 2009).
In realtà, mentre sarebbe opportuno innescare un altro modello di crescita basato sulla riduzione delle disuguaglianze e sullo sviluppo della domanda pubblica, c’è comunque qualche possibilità che il mondo possa star invece andando verso una ripresa vecchio stile, non sostenibile finanziariamente (Wolf, 2009) e, certamente, comunque molto modesta. Se questo dovesse per avventura accadere, la prossima crisi sarà presto scatenata da quella che i mercati finanziari valuteranno come un livello eccessivo di debito da parte dei paesi che hanno dei deficit eccessivi e strutturali delle partite correnti e in particolare gli Stati Uniti. Il paese non può, in altri termini, continuare a perseguire un modello basato su degli alti livelli di consumo e su dei bassissimi livelli di risparmio.
Testi citati nell’articolo
- Buiter W., Ruminations on bankinripresa prog, www.ft.com, 15 aprile 2009
- Dockès P., Lorenzi J.-H. (a cura di), Fin de monde ou sortie de crise?, Le cercle des économistes, Perrin, Parigi, 2009
- Faujas A., Malingre V., Des signes de reprise pointent dans plusieurs pays, Le Monde, 10 aprile 2009
- Gandel S., Goldman’s profits: gambling with taxpayer money?, www.time.com, 14 aprile 2009
- Guerrera F., Citigroup pays price for return to profits, www.ft.com, 18aprile 2009
- Mamou Y., Quel moteur pour la future croissance mondiale? Le Monde, 6 aprile 2009
- Roubini N., Banks in the spotlight, www.rgemonitor.com, 15 aprile 2009
- Rodier A., Tricornot A. de, C’est quand la reprise?, Le Monde, 7 aprile 2009
- Sorrell M., The pendulum will swing back, The Financial Times, 9 aprile 2009
- Stiegler B., Pour une nouvelle critique de l’économie politique, Galilée, Parigi, 2009
- Wolf M., What the G2 must discuss now that the G20 is over, www.ft.com, 7 aprile 2009
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