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Mercato in tempesta, governi senza timone
L'eredità della crisi/2: lo spostamento degli equilibri verso est, il nuovo interventismo pubblico. Che però non ha risorse né strumenti
In quest'articolo, che costituisce la seconda parte di quello pubblicato su questo stesso sito ("Cosa è cambiato quando è cambiato tutto") ci soffermeremo sulle conseguenze politiche e sociali della crisi.
Conseguenze politiche
1) a livello della distribuzione delle carte del potere su scala mondiale, la crisi sembra aver accelerato una tendenza, peraltro già in atto precedentemente, a una dislocazione del centro dell’economia mondiale dall’Occidente verso l’Asia. In particolare, la principale vincitrice della crisi risulta apparentemente essere la Cina, che ha visto accresciuti in misura molto rilevante il suo peso e il suo prestigio, tanto che si parla ormai di un G-2 (Stati Uniti, Cina); comparativamente, si sono avvantaggiati meno delle difficoltà dell’economia mondiale l’India e il Brasile, che pure sembrano essere usciti abbastanza bene dai pasticci. L’Asia sta oggi guidando quel poco di ripresa mondiale che si può registrare. Con la crisi, si sta inoltre delineando un asse di sviluppo Sud-Sud (Asia- Africa- America Latina) che tende a fare a meno sostanzialmente e per la prima volta della presenza e degli apporti dei paesi sviluppati in termini di risorse finanziarie, tecnologie, mercati di sbocco.
Specularmente, la crisi ha fortemente danneggiato l’immagine e la credibilità statunitense, mentre ha confermato la perdita di potere e di status dell’Europa, area che, comunque, secondo molte previsioni, dovrebbe superare le difficoltà meno bene e più lentamente degli stessi Stati Uniti. Tra l’altro, a proposito degli Stati Uniti, da diversi mesi, sulla base anche delle sollecitazioni cinesi, si discute ormai apertamente delle prospettive del dollaro e indubbiamente la crisi sembra aver inferto un colpo molto forte al possibile perdurare nel lungo termine della moneta statunitense come valuta di riserva esclusiva a livello mondiale. La divisa statunitense sta perdendo valore almeno dal marzo di quest’anno, mentre, contemporaneamente, si è molto rafforzato l’euro, anche a ragione dei differenziali di tassi di interesse su tale moneta portato avanti dalla Banca Centrale Europea, danneggiando pericolosamente le esportazioni dei paesi del continente aderenti alla moneta comune.
Con le difficoltà, la situazione si è degradata per un grande numero di paesi poveri. La fame guadagna di nuovo terreno in territori che stavano registrando qualche importante successo su questo fronte; il mondo conta oggi, secondo la FAO, più di un miliardo di persone affamate, cento milioni in più dell’anno precedente. Questo in relazione, in particolare, alla diminuzione delle loro esportazioni e dei prezzi dei loro prodotti sui mercati internazionali, alla riduzione delle rimesse degli emigrati, a quella degli investimenti diretti privati e dei prestiti internazionali, oltre infine a quella degli aiuti. Diventa peraltro, intanto, un fatto politico significativo il rafforzarsi delle sacche di povertà presenti in molti paesi sviluppati.
2) mentre la crisi ha portato di nuovo alla ribalta gli stati nazionali, chiamati al soccorso dell’economia e della finanza, che apparivano traballanti in maniera minacciosa, essa ha contemporaneamente mostrato però come questo rinnovato intervento pubblico non si basi su di un qualche progetto autonomo e di lungo termine, ma come esso si svolga in maniera largamente subordinata alla volontà del mondo finanziario e di quello dell’economia. In altri termini, la crisi ha mostrato la grande debolezza dei governi di fronte alle esigenze dei banchieri e la permanenza di una situazione di status quo nei rapporti di potere tra i vari attori. Ma su questo punto si veda meglio più avanti;
3) la crisi avrebbe dovuto, almeno sulla carta, in particolare in Europa, favorire la crescita dei consensi verso i movimenti politici che si ispirano alla sinistra politica. Nella realtà, essa ha avuto semmai l’effetto opposto, indebolendo ulteriormente tali movimenti, che, del resto, avevano mostrato negli ultimi decenni segni evidenti di una crescente, convinta adesione alla deriva liberista; questo è avvenuto in particolare, anche se non solo, in un paese come l’Italia. Ora, di fronte alla crisi, le sinistre europee non sanno quasi articolare verbo; si veda, ad esempio, la grande povertà di elaborazione, su questo fronte, presente nel nostro paese nei programmi dei tre candidati alla segreteria del partito democratico;
4) sempre a proposito dell’Europa, con le difficoltà in atto si è anche confermata l’ottusità e persino la follia ideologica della Commissione Europea e dei funzionari di Bruxelles, che hanno avuto l’ardire, nell’attuale difficile situazione, di avviare, con burocratico automatismo, le procedure di infrazione, a causa dello sforamento dei parametri di Maastricht, nei confronti dei principali paesi europei! Per altro verso, l’episodio imporrebbe la necessità di rivedere in qualche misura le regole a suo tempo messe a punto sul fronte finanziario.
La dimensione sociale
A tale livello si impone una prima constatazione importante di carattere generale. Di fronte alle richieste di intervento che venivano in passato dagli strati sociali più deboli dei vari paesi, i governi hanno spesso ripetuto il ritornello che non c’erano soldi disponibili; trovare delle risorse per la ricerca, per la scuola, per l’occupazione, per la cassa integrazione, non era assolutamente possibile (Lordon, 2008). Così, ad esempio, a suo tempo G. W. Bush aveva bocciato anche con tale pretesto una legge, già approvata dal congresso statunitense, che stanziava 5 miliardi di dollari per i bambini poveri del paese. Ora invece, di fronte alle necessità delle banche e delle società di assicurazione, il solo governo statunitense ha preso in pochi mesi impegni finanziari a loro favore per circa 12,5 trilioni di dollari e, per di più, senza chiedere sostanzialmente nulla in cambio.
Va poi ricordato che, con la crisi dei mercati finanziari, si è trovato di fronte a grandi problemi anche il sistema pensionistico di diversi paesi, a cominciare da quello di Stati Uniti e Gran Bretagna, affidato per una larga parte al rendimento di azioni, obbligazioni, derivati e che presentava, qua e la, già prima del 2008, dei buchi abbastanza rilevanti. Si è così mostrata, in tutta la sua evidenza, la difficoltà di coniugare le necessità di protezione di lungo termine dei cittadini con la speculazione, problema che si pone, per fortuna in misura minore, anche da noi.
Nel frattempo sono andate avanti con la crisi e si sono, per alcuni versi, anche accentuate le tendenze all’aumento nelle diseguaglianze nei redditi tra i vari strati sociali all’interno dei singoli paesi, tendenze che erano anch’esse già presenti prima dell’avvio delle difficoltà.
Segnaliamo, infine, soltanto il fenomeno del diffondersi in Occidente della paura del declassamento sociale, che ha progredito in misura rilevante, con la crisi, in molti strati della popolazione, anche in relazione al fatto che ad esempio, rispetto a qualche decennio fa, le conseguenze per chi perde un impiego stabile si sono aggravate in molti paesi.
Cosa potrà accadere nel futuro
Come si può vedere, le conseguenze della crisi appaiono alla fine complessivamente di grande importanza e questo in varie direzioni. Ma forse la cosa più sorprendente che sta capitando è quella che, in termini generali e in relazione alla crisi, ci si aspettava da molte parti il ritorno di uno Stato forte ed attivo - c’erano molte premesse per questo e ci si trovava di fronte ad una possibilità reale -, mentre in realtà ci si confronta oggi con degli Stati che cercano soltanto di arrangiarsi in qualche modo e che rinunciano comunque ad avere un ruolo importante sulla scena economica e di riacquistare forza nei confronti del privato (Delhommais, 2009).
In specifico, per quanto riguarda il fronte degli affari finanziari, i politici hanno delegato il compito di decidere molte cose importanti alla Banche Centrali e al Consiglio di Stabilità Finanziaria, per quanto riguarda, in particolare, le nuove regole di determinazione dei bonus ai manager e ai trader bancari, la supervisione bancaria e finanziaria, il controllo del rischio sistemico, e così via.
D’altro canto, la forte crescita del debito pubblico quasi ovunque significa che i paesi sviluppati hanno sostanzialmente perduto qualsiasi margine di manovra budgetaria e questo per moltissimi anni in futuro. Gli Stati sono ormai impotenti (Delhommais, 2009). In realtà, paradossalmente, i governi sono alla mercé degli stessi mercati finanziari, con tutte le nuove emissioni di titoli che dovranno effettuare e rinnovare nei prossimi anni per miliardi e miliardi di dollari, euro, yen, ecc.
Gli organismi pubblici dovranno così mostrare il rispetto dell’ortodossia finanziaria e offrire rendimenti elevati per riuscire a mantenere il controllo dei conti e la benevolenza dei banchieri rapaci e senza scrupoli che abbiamo imparato a conoscere un po’ meglio con la crisi.
Un bel risultato.
A proposito di ripresa
Se si vuole avere un’idea della dinamica con la quale l’economia di un paese si può riprendere dopo la crisi, uno studio molto recente dell’IMF (IMF World Economic Outlook, ottobre 2009) mette in evidenza tra l’altro, sulla base dell’analisi storica, che il livello della produzione, una volta superate le difficoltà, rimane, nel medio termine, in media del 10% inferiore rispetto ai trend prevalenti prima della crisi, con delle differenze comunque anche rilevanti tra situazione e situazione. Lo studio mostra che, in generale, tale perdita di produzione è da collegare, tra l’altro, al più alto livello di disoccupazione strutturale, al più lento tasso di accumulazione di capitale ed al più basso livello di crescita della produttività che risultano in genere dopo le difficoltà.
Per quanto riguarda in specifico il nostro paese, il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel suo intervento del 29 ottobre scorso alla giornata mondiale del risparmio, ha ricordato che il livello del prodotto interno lordo italiano è caduto, in seguito alla crisi, al livello di dieci anni fa, mentre quello della produzione industriale è sceso addirittura a quello di venti anni fa. Se il paese dovesse poi tornare ai tassi di crescita prevalenti prima della crisi, ci metterebbe tra i cinque e i sette anni per recuperare il livello del pil pro-capite che esso aveva nel 2007-2008.
Testi citati nell’articolo
- Coy P., The lost generation, Business Week, 19 ottobre 2009
- Delhommais P.-A., La deuxième mort du socialisme, Le Monde, 12 ottobre 2009
- Elliott L., Unemployement among 16 to 24 age group leads above one million barrier, The Observer, 11 ottobre 2009
- Lordon F., Jusqu’à quand? Pour en finir avec les crises financières, Raisons d’agir ed., parigi, 2008
- Maurin E.,La peur du déclassement. Une sociologie des récessions, ed. du Seuil, Parigi, 2009
- Reinhart C. M., Rogoff K. S., This time is different. Eight centuries of financial folly, Princeton University Press, Princeton, 2009
- Seager A., Modern economics “a disaster and a disgrace”, says leading analyst, The Observer, 18 ottobre 2009
- The Economist, It wasn’t me, 10 ottobre 2009
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