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Una perdita di tempo assai costosa
Dal contribuente a Wall Street: tutti i difetti e i rischi del piano Geithner. Una versione particolare e ridotta dello schema della "bad bank"
“…nessuno può aver fiducia che gli Stati Uniti abbiano trovato una soluzione che funzioni per il disastro finanziario…Al contrario, gli Stati Uniti sono in un’impasse…”
M. Wolf, 2009
“… in futuro i cittadini non ringrazieranno il Tesoro per questa operazione…”
W. Buiter, 2009, b
“…il piano consiste in una rapina fatta al popolo americano…”
J. Stiglitz, 2009
Premessa
A quasi due settimane dalla sua pubblicazione, si può guardare con un occhio un po’ più meditato all’ultimo (ma solo in ordine di tempo; probabilmente ne dovranno seguire degli altri) piano statunitense per il salvataggio delle banche del paese, denominato PPIP (Public/Private Investment Programme). Sul piano Geithner questo sito ha già ospitato, nell’ultimo numero, un intervento di Marco Valente; vista l’importanza del tema, ci sembra opportuno continuare a discuterne.
Bad bank, good bank
Prima di affrontare direttamente il piano Geithner, bisogna anche inquadrare correttamente le due alternative di base disponibili in generale per affrontare una profonda crisi del sistema bancario. Nella descrizione contenuta nel paragrafo facciamo in particolare riferimento a Buiter, 2009,a, che distingue chiaramente tali alternative, titolabili l’una come soluzione della bad bank, l’altra della good bank.
Secondo il primo schema, il settore pubblico acquista i titoli tossici dalle banche o li assicura. Esso crea parallelamente un’entità legale che gestisce tali titoli, la cosiddetta bad bank. Essa, a sua volta, vende i titoli tossici quando emerge un mercato per essi o li tiene in portafoglio sino alla loro scadenza. Un presupposto di base dello schema è quello che lo stato paga i titoli ad un prezzo maggiore di quello registrabile in quel momento sul mercato. Nella sostanza, alla fine, l’operazione è una specie di sussidio alle banche, cioè ai suoi azionisti, al management, ai creditori non garantiti. Questi benefici possono essere estesi anche di molto attraverso iniezioni di capitale nelle banche in difficoltà, garanzie per nuovi prestiti o nuovi investimenti delle stesse banche, ecc..
Invece, secondo lo schema alternativo, lo stato crea una nuova banca, appunto la good bank, che acquista dagli istituti in difficoltà i loro depositi e i loro titoli puliti, titoli cioè, buoni e meno buoni, il cui valore può essere in ogni caso determinato con accuratezza. La banca in difficoltà ottiene un compenso pari alla differenza tra il valore degli asset e quello dei depositi ceduti. Lo stato può versare risorse addizionali di capitale nella good bank e far entrare i privati nella compagine azionaria. La vecchia banca perde invece la possibilità di svolgere nuove attività e dovrà soltanto gestire gli asset tossici, mentre non riceverà nessun ulteriore apporto pubblico. Così gli azionisti e i creditori non garantiti perderanno molto denaro e il vecchio management sarà spazzato via. Le attività bancarie del paese si concentreranno sulle nuove banche.
La soluzione della good bank favorisce i contribuenti, facendo loro risparmiare molti soldi, mentre la bad bank favorisce i vecchi creditori, gli azionisti e i manager; quella della bad bank incoraggia anche lo sviluppo di atteggiamenti di moral hazard, dal momento che essa premia i comportamenti irresponsabili passati. E’, inoltre, inefficiente, perché deve fornire nuovi fondi alla bad bank per permetterle di alimentare con nuovi crediti l’economia.
Il programma di Geithner è, nella sostanza, una versione particolare e ridotta dello schema della bad bank.
Problemi rilevanti
Accanto ad alcune prese di posizione a favore del programma e ovviamente insieme al sostegno di Wall Street, motivato essenzialmente dal fatto che lo schema potrebbe far guadagnare ai banchieri molti soldi, in realtà le idee di Geithner hanno incontrato una sostanziale ostilità da parte di molti esperti e studiosi del settore.
Per questi ultimi, pensare intanto di liberarsi della questione mettendo a disposizione soltanto 100 miliardi di dollari fa riferimento ad un mondo di pura immaginazione. Che Dio ci aiuti, afferma a questo proposito ad esempio Buiter (2009, b). Il buco delle banche può essere stimato in almeno 3-4 trilioni di dollari e la situazione potrebbe anche aggravarsi ulteriormente. Paradossalmente, nel momento in cui le imprese e i privati stanno cercando in tutti i modi di ridurre i loro livelli di indebitamento, il governo vede nel leverage la strada migliore per scongelare il mercato finanziario (The Economist, 2009, a). Inoltre, la Fdic, che non ha risorse proprie a disposizione, è inserita nel piano per ragioni soltanto di facciata, per nascondere in qualche modo la mano del Tesoro. Anche la Fed, alla fine, è compresa nel quadro perché lo schema non può essere portato avanti soltanto con i soldi del Tesoro; ma, in questo caso, lo stesso organismo fa in sostanza le veci delle famigerate siv, copiando di nuovo i perversi comportamenti del mercato finanziario durante il periodo del boom. Alla fine, i contribuenti potrebbero essere obbligati a pagare pesantemente per l’affare ed anche una rilevante crescita dei livelli di inflazione potrebbe essere una conseguenza logica dell’operazione.
Il programma, d’altro canto, si traduce in un enorme trasferimento di ricchezza dalle tasche dei contribuenti ai finanzieri di Wall Street, in particolare agli hedge fund e al settore del private equity, che bisognava semmai trovare il modo di punire, non di premiare in questo modo. P. Krugman (Krugman, 2009, b) parla, a questo proposito, di scambio di denaro contante contro spazzatura. Anzi il programma alla fine appare, per molti versi, un gigantesco hedge fund in cui i rischi stanno peraltro da una parte sola. In effetti, Il programma offre asset al settore privato per un prezzo veramente modico. Le istituzioni di Wall Street coinvolte dovrebbero contribuire con un 3-5 % delle risorse totali necessarie; inoltre, i privati possono ottenere prestiti a bassi tassi di interesse che non dovranno restituire se le cose andassero male (Pomerleano, 2009). Lo schema di Geithner offre al mercato una scommessa a senso unico: se il valore delle attività va su, ci guadagnano allo stesso modo gli investitori e il governo- ma i primi vi avranno investito al massimo 5 e il governo almeno 95-, mentre se tale valore va giù ci perdono praticamente soltanto i contribuenti.
Molto duro anche il giudizio di J. Sachs (Sachs, 2009): il programma si presenta come una transazione di mercato, ma si tratta di una foglia di fico; ci perderanno i contribuenti, anche se essi, per il momento, sembrano gioire per la ripresa della borsa.
Peraltro, in maniera contraddittoria, dall’altra parte il governo sta mettendo a punto dei piani per stringere i controlli sugli stessi hedge fund che vorrebbe coinvolgere nello schema (Andrews, Story, 2009).
Il programma sembra riprendere, con qualche variante, lo schema già messo a punto a suo tempo da Paulson. “Questo mi da un senso di disperazione” (Krugman, 2009, a). Il piano in sostanza parte dall’ipotesi che le banche siano fondamentalmente sane e che esse sappiano quello che stanno facendo. Una volta che gli investitori si calmassero, il business della finanza riprenderebbe a funzionare come prima. La realtà è che siamo, invece, in presenza del fallimento di un intero modello di fare banca.
Si ha la sensazione, nella sostanza, che la squadra del presidente sia eccessivamente legata a Wall Street. La gestione della politica economica e finanziaria del governo Obama è in gran parte nelle mani del trio Geithner-Summers-Rubin. Ora, almeno gli ultimi due sono stati, a partire dalla metà degli anni novanta del secolo scorso, sotto la presidenza Clinton e insieme a Greenspan, i principali fautori di una deregolamentazione selvaggia del settore finanziario che ha portato ai guasti che oggi sono sotto gli occhi di tutti, mentre Geithner appare un loro supporter entusiasta. Ed ora ci si dovrebbe fidare delle stesse persone, anche se esse si dichiarano pentite? Più in generale, come sottolinea P. Krugman, b, molti alti funzionari dell’amministrazione Obama sono presi dalla mistica del mercato e dalle prodezze dei supposti maghi che vi operano, dagli hedge fund alle investment bank.
Va anche segnalato, a questo punto, il diverso atteggiamento mostrato in questi giorni dall’amministrazione Obama al settore bancario e invece a quello dell’auto (Ward, 2009). Mentre i banchieri di Wall Street sono stati ricevuti con molti riguardi alla Casa Bianca, lo stesso non è successo ai dirigenti del settore dell’auto; anzi, è stata brutalmente chiesta la testa del boss della General Motors, cosa che non è stata assolutamente fatta con nessuno dei banchieri. Eppure le colpe di questi ultimi non sono state certo minori.
Qualche commentatore britannico trova delle analogie tra il PPIP e i piani di salvataggio britannici delle banche (Roberts, 2009); i governanti di questo paese hanno in particolare avviato un programma di assicurazione pubblica degli attivi tossici per quanto riguarda almeno la RBS e la Loyds Bank. Anche tale piano parte dal presupposto che le banche si riprenderanno e trascineranno l’economia con loro, se soltanto esse saranno protette dagli errori passati. Ma il problema è quello che non siamo in presenza soltanto di una crisi di liquidità, ma di fronte, anche se non soprattutto, ad una crisi di solvibilità, che il piano non affronta. “Pressoché nessuno –certamente non il Tesoro- crede che questo schema risolverà la cronica sottocapitalizzazione della finanza Usa” (Wolf, 2009). Con quali soldi, in effetti, si aumenterà poi il capitale delle banche? E ce ne vorranno tanti. Pensiamo, tra l’altro, che, sulla base anche dell’esperienza acquisita in questi mesi drammatici, i coefficienti di capitalizzazione del sistema devono essere aumentati in misura rilevante rispetto a quelli indicati prima della crisi.
D’altro canto mentre, viste le favorevoli condizioni e i generosi sussidi, i compratori potrebbero non mancare, bisogna invece vedere se le banche vorranno vendere. In particolare, molte di esse continuano a mantenere in bilancio attività a valori troppo irrealistici, dal momento che se li valutassero al giusto prezzo, esse diventerebbero insolventi (The Economist, 2009, b) e, anche se i prezzi loro offerti fossero più alti di quelli reali, non necessariamente per esse il valore sarà abbastanza alto per spingerle a vendere. Incidentalmente, la Citigroup e la Bank of America hanno già da tempo, come del resto la Aig, delle garanzie pubbliche per centinaia di miliardi di dollari di attività tossiche. Così le banche si disferanno di quelle attività soltanto per le quali otterranno dei prezzi elevati e presumibilmente cercheranno di vendere soprattutto le attività spazzatura. Questo rappresenta un cattivo e non necessario uso delle risorse pubbliche.
L’opinione di qualcuno è che, al meglio, il piano permetterà di rimuovere forse una parte ridotta dei titoli tossici, ma appare improbabile che esso riesca a ripulire del tutto i bilanci e a rimettere in salute il sistema. Bisogna invece affrontare il problema alla radice.
Qualcuno, peraltro, si spinge più in là e dice che il bicchiere è mezzo pieno. Così N. Roubini (Roubini, 2009) afferma che il piano Geithner è si importante e condivisibile, ma solo per le banche solvibili, mentre per quelle insolventi si deve puntare alla nazionalizzazione; l’autore appare peraltro fiducioso che presto, attraverso gli stress test condotti sulle banche statunitensi, una volta individuate quelle insolventi, il governo provvederà a nazionalizzarle. Stiamo a vedere.
A parziale attenuante per Geithner, si può sottolineare che il ministro del Tesoro deve affrontare una valanga di decisioni e che manca crudelmente di uno staff che gli dia una mano. Geithner ha in effetti molte altre questioni nella sua agenda in queste settimane (Hunt, 2009), dallo stress test per le banche, ad un programma di sostegno finanziario alle piccole e medie imprese, a un piano per le foreclosures, a un programma di ristrutturazione del sistema di regole e di controlli per il settore finanziario, alla preparazione dei vari G8 e G20, all’intervento sugli aspetti finanziari della crisi dell’auto, ecc..
Conclusioni
Alla fine, il piano Geithner non convince in alcun modo. Probabilmente il programma è una perdita di tempo molto costosa che fa ritardare la inevitabile messa in campo di un programma di ricapitalizzazione del sistema finanziario guidato dal governo (Munchau, 2009). Cosa si dovrebbe in effetti fare a questo punto? Come è stato già scritto, bisogna partire dalla considerazione che si può e si deve salvare il sistema bancario senza però salvare le specifiche banche. Da questo punto di vista, la strada migliore da perseguire sembrerebbe essere quella di spazzar via una parte molto consistente del vecchio sistema, con tutti i suoi azionisti, i suoi manager e i suoi creditori. In altre parole, bisognerebbe porre in essere, sia pure consapevoli dell’esistenza di qualche rischio, il modello della good bank. In ogni caso, se si volesse andare invece avanti sulla pista indicata da Geithner, ci vorrebbero certamente molto di più dei 100 miliardi si dollari sino a questo momento posti sul piatto.
Testi citati nell’articolo
- Andrews E. L., Story L., U.S. to detail plan to rein in finance world, The New York Times, 26 marzo 2009
- Buiter W., Don’t touch the unsecured creditors! Clobber the taxpayer instead, www.ft.com, 13 marzo 2009, a
- Buiter W., The new toxic and bad legacy assets programs of the US Treasury, www.ft.com, 24 marzo 2009, b
- - Hunt A. R., Critics ignore Geithner’s real abilities, The International Herald Tribune, 30 marzo 2009
- Krugman P., Financial policy despair, The New York Times, 22 marzo 2009, a
- Krugman P., The market mystique, The New York Times, 27 marzo 2009, b
- Munchau W., We need a new plan as the cycle grows more vicious, The Financial Times, 30 marzo 2009
- Pomerleano M., Is the Summers-Geithner toxic asset plan viable?, www.ft.com, 24 marzo 2009
- Roberts D., US follows UK-on the wrong road, The Guardian, 24 marzo 2009
- Roubini N., Dr. Doom finds promise in Obama’s toxic assets plan, www.rgemonitor.com, 27 marzo 2009
- Sacks J., Obama bank plan could rob the taxpayer, The Financial Times, 26 marzo 2009
- The Economist, Fixing America’s banks. Second time lucky, 23 marzo 2009, a
- The Economist, Dr Geithner bank rehab, 26 marzo 2009, b
- Ward A., Detroit fears sacrifice as Wall Street wins sympathy, The Financial Times, 31 marzo 2009
- Wolf M., Successful bank rescue still far away, The Financial Times, 24 marzo 2009
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