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Debito, quando la realtà è peggiore di un incubo

13/07/2009

Esplode il debito pubblico, senza che si spenda un euro contro la crisi. L'aumento della spesa non è andato né allo stato sociale né alla politica industriale

L’Istat ha reso pubblici, nonostante il Ministro Scaiola, che il debito delle amministrazioni pubbliche nel primo trimestre dell’anno ha raggiunto il 9,3% del pil, contro il 5,7% dell’anno scorso. Nonostante i dati siano grezzi e ancora soggetti ad una forte variabilità, cioè non sono depurati dalla componente stagionale, l’aumento dell’indebitamento pubblico rispetto al 2008 è pari a 3,6 punti percentuali di pil.
Tutti gli indicatori di finanza pubblica sono condizionati dalla minore crescita economica, che per quest’anno si stima in un meno 4,2% di pil, ma la minore crescita strutturale dell’Italia rispetto all’area euro suggerisce una stima ben più grave. Infatti, la minore crescita strutturale del pil dell’Italia rispetto all’area euro è progressivamente aumentata, fino a raggiungere 1,8 punti percentuali nel 2008, ovvero 30 mld di euro di mancata crescita. Se consideriamo, inoltre, gli anni che vanno dal 1997 al 2008, l’Italia è cresciuta meno dell’Europa (15) di ben 12 punti percentuali; sostanzialmente il paese vive una doppia crisi: la prima legata alla riduzione della domanda internazionale causata dalla bolla speculativa finanziaria, la seconda legata alla struttura produttiva che non riesce ad agganciare neppure il “debole” modello europeo.
L’effetto è quello di un aumento dell’indebitamento dell’amministrazione pubblica, e di tutti gli indicatori di “qualità” della finanza pubblica: il saldo corrente è pari a meno 6%, mentre nel 2008 era pari a meno 3% del pil; il saldo primario, cioè l’indebitamento al netto della spesa per interessi, è negativo per il 4,6% del pil; le entrate sono diminuite in termini tendenziali del 2,8%, con una incidenza sul pil del 39,9%.
L’aspetto più inquietante è, però, legato alla crescita della spesa. Queste sono aumentate in termini tendenziali del 4,6%, con un valore rispetto al pil pari al 49,2%. Sostanzialmente l’aumento delle spese di 8 mld di euro non è coinciso con nessun provvedimento di struttura, dallo stato sociale alla politica industriale. L’aumento della spesa è legato sostanzialmente agli automatismi della spesa pubblica legati all’andamento del pil, cioè il governo ha impegnato solo lo 0,5% del pil per affrontare la crisi economica.
Il governo non è responsabile della crisi internazionale, ma delle politiche per farvi fronte certamente si. Il paradosso è quello di un aumento dell’indebitamento pubblico senza che via sia un euro per affrontare la crisi. Il più delle volte il governo “storna” le risorse finanziarie da un capitolo all’altro, e quando utilizza risorse aggiuntive, lo 0,3% del pil come indicato dal fondo monetario internazionale, lo fa per una platea di soggetti così ampia che diventa ininfluente o inutile, se non dannosa.
I problemi dell’Italia sono molti e non tutti si possono risolvere in breve periodo, ma almeno 2 sono i nodi principali: 1) la bassa produttività degli investimenti delle imprese che tendenzialmente incorporano tecnologia realizzata in altri paesi; 2 una polarizzazione dei redditi ante intervento pubblico che non ha nessun confronto con i paesi di area euro.
Invece che sostenere l’aumento degli investimenti delle imprese detassando gli utili reinvestiti del 50%, cioè minori entrate per lo stato, sarebbe il caso che lo stato si impegni direttamente o attraverso start up a realizzare una politica industriale di anticipo della domanda, cioè investire in energia rinnovabile, ambiente e conoscenza come delineato dall’UE. Se lasciamo alle imprese private questo obiettivo, considerando che solo in Italia la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese è più bassa di quella pubblica, la tendenza sarà quella di importare conoscenza, non generarla. Dare i soldi alle imprese così come sono e con questa specializzazione significa consegnare il lavoro buono al di fuori dei nostri confini.
Per affrontare la polarizzazione dei redditi ante intervento pubblico ci sono poche soluzioni, ma quelle disponibili sono efficacissime e sostanzialmente a costo zero per lo stato. Se la polarizzazione dei redditi si realizza nel mercato, occorre rafforzare i soggetti che possono controbilanciare la forza di una parte del sistema economico. Si tratta di allinearsi ai principi liberali di giustizia sociale o dei diritti presi sul serio di Einaudi (lezioni del ’44), oppure di riprendere almeno una parte del new deal, cioè quella di consegnare più potere ai sindacati. Per affrontare la polarizzazione dei redditi determinata dal mercato occorre dimensionare, superare tutte le norme che indeboliscono il sindacato. 44 modelli contrattuali di inserimento lavorativo sono veramente troppi, così come sono troppe le ore lavorate in Italia rispetto alla media europea. In Italia si lavora un mese e mezzo in più dei paesi europei. La via fiscale è troppo debole e, a conti fatti, agisce solo a margine.

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