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La crisi e il Fondo monetario internazionale

26/11/2008

Finanza globale, interessi nazionali: nel mezzo, un'istituzione sbiadita e ancora legata al "Washington Consensus". Riuscirà il Fondo a ritrovare credibilità?

Più ci si affanna a cercare di descrivere e di comprendere la crisi attuale, più, tra l’altro, si trae per molti versi l’impressione che gli ultimi trenta anni, che hanno registrato il maturare del modello di sviluppo che ha portato alla situazione attuale, abbiano visto lo scatenamento di una lotta di classe dei ricchi contro i poveri (Mason, 2008), all’interno dei singoli paesi ed anche tra di loro. Si è così registrato un grande cambiamento nella bilancia del potere tra il lavoro e il capitale, con la riduzione delle tasse per le classi più agiate e la diminuzione almeno relativa dei redditi delle classi medie e popolari a favore di quelle più ricche. Si sono contemporaneamente allentati i meccanismi dello stato sociale che riusciva in qualche modo a ridurre le difficoltà delle classi sfavorite.

 

Qualcuno ha parlato, per il sistema posto in essere negli ultimi decenni, in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, di “socialismo per i ricchi”. Così, ad esempio, quando le cose vanno bene i banchieri incassano lauti profitti e grandi stipendi poco tassati, mentre quando arrivano le perdite esse vengono scaricate, in varie forme, sui contribuenti e magari gli stessi banchieri si ritirano dalla scena con ricche liquidazioni.

 

Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sono state per molto tempo gli strumenti di diffusione di tali pratiche verso i paesi meno favoriti.

 

Negli ultimi tempi, peraltro, i due enti sembravano aver perso lo smalto di un tempo ed essere anzi diventati quasi irrilevanti.

 

Ha certamente giocato in questo senso il discredito crescente che ha preso a circondare le due istituzioni dopo che è apparso sempre più chiaro che il Washington Consensus su cui si basava il loro intervento era ormai largamente respinto in giro per il mondo. C’è stata quindi un’ondata di rifiuto anche ideologico, oltre che operativo –le loro ricette non funzionavano-, della loro attività.

 

Inoltre, in presenza di grandi liquidità sui mercati finanziari e del miglioramento rilevante delle prospettive economiche e finanziarie di molti paesi, tali enti, da una parte, hanno visto restringersi il loro mercato di riferimento, dall’altra hanno sempre più dovuto subire la concorrenza delle banche ordinarie e, in particolare per quanto riguarda la Banca Mondiale, quella dei numerosi fondi di sviluppo messi in opera da parte di molti paesi asiatici, dell’America Latina, del Medio Oriente.

 

Un grande atto simbolico dell’irrilevanza ormai delle attività del Fondo è stato, nel 2006, la restituzione anticipata dei prestiti a suo tempo ricevuti da parte del Brasile e dell’Argentina.

 

A questo punto scatta la crisi e uno dei suoi effetti è che i paesi emergenti vedono all’improvviso prosciugarsi il flusso dei finanziamenti pubblici e privati da parte di quelli occidentali. Si può a questo proposito ricordare che mentre ancora nel 2007 i primi avevano ricevuto 900 miliardi di dollari dalle istituzioni finanziarie dei secondi, nel 2008 tale cifra dovrebbe aggirarsi soltanto intorno ai 56 miliardi (Brummer, 2008), con un crollo verticale. Inoltre molte delle economie interessate registrano delle ulteriori difficoltà su vari fronti –contrazione delle loro esportazioni, in relazione anche alla caduta dei prezzi delle materie prime, oltre che della crisi dei paesi sviluppati, riduzione dei tassi di crescita del pil, diminuzioni delle rimesse degli emigrati, ecc.

 

Così, tra l’altro, il ruolo delle due organizzazioni, in particolare del Fondo Monetario, sembra tornare alla ribalta. La stessa riunione del G-20 di novembre ha sottolineato il loro possibile importante contributo nel superamento della crisi in atto.

 

Concentriamoci in particolare sulle vicende recenti del Fondo, che sembra poter acquistare di nuovo delle funzioni di rilievo. La Banca Mondiale appare invece più sullo sfondo.

 

Bisogna premettere che per contribuire a superare i problemi in atto sul fronte finanziario internazionale qualcuno propone di creare un regolatore a livello mondiale non solo con poteri di controllo, ma anche di intervento, nonché un prestatore di ultima istanza sempre a livello mondiale. Qualcun altro pensa invece ad una soluzione meno drastica, creando comunque una World Financial Organization, come esistono già delle strutture mondiali per il commercio, per la sanità, per l’ambiente, per l’alimentazione, ecc.. Lo stesso direttore dell’organizzazione mondiale per il commercio, P. Lamy (Lamy, 2008), insiste sul bisogno di una regolamentazione internazionale della finanza con delle regole obbligatorie e un meccanismo di sorveglianza e di sanzioni.

 

Ma queste idee, di per sé certamente interessanti di fronte alla profondità della crisi, si scontrano con una contraddizione evidente tra la realtà di un mercato dei capitali ormai certamente globale da una parte, il desiderio di piena sovranità nazionale dei singoli stati e dei loro politici dall’altra. Nessun politico ancora oggi probabilmente appare disponibile a cedere la sovranità ad un regolatore esterno, né a mettere in piedi un prestatore di ultima istanza a livello globale (The Economist, 13 novembre 2008).

 

Ci si dovrà quindi al massimo accontentare di una soluzione più diluita, come ad esempio la messa a punto condivisa di un sistema di regole internazionali per il settore finanziario e la messa in opera di una specie di “ collegio internazionale di supervisori” per sorvegliare le più grandi istituzioni finanziarie . Lo stesso D. Strauss- Kahn, direttore del Fondo, in un’intervista concessa tra un amore e l’altro a Le Monde (D. Strauss-Kahn, 2008), individua da parte sua un nuovo ruolo dell’organizzazione, articolando la sua idea di base in un piano in diversi punti. Esso prevede, tra l’altro, un nuovo tipo di prestito che permetta di portare sollievo alle difficoltà finanziarie di breve termine in particolare dei paesi emergenti; di aumentare comunque e di molto le risorse del fondo, che a fine ottobre 2008 erano soltanto pari a 250 miliardi di dollari, spiccioli ormai a confronto dei buchi di bilancio di istituzioni finanziarie e di stati che vengono annunciati ogni giorno; di sorvegliare l’applicazione delle nuove regole che verranno elaborate dal World Financial Forum, che raggruppa i rappresentanti di molte banche centrali, con la presidenza di M. Draghi, che per la verità sino ad oggi ha prodotto sostanzialmente delle proposte irrilevanti; di aiutare infine a ripensare un sistema mondiale più efficace.

 

La credibilità del Fondo e delle sue proposte, al di là degli spunti suggeriti dal suo direttore, appare in ogni caso legata ad almeno tre fattori:

 

1) da una parte, alla sua capacità di attrarre un volume di risorse finanziarie molto più elevato di quello attuale. Queste risorse non possono che venire, oltre che dal Giappone - che ha peraltro, come allievo fedele e diligente dell’Occidente, già dichiarato la sua disponibilità a versare e senza condizioni circa 100 miliardi di dollari per la bisogna -, dall’Asia, in particolare dalla Cina, che per il momento fa finta di non sentire, dai paesi petroliferi e forse anche dalla Russia;

 

2) ma perché i nuovi paesi corrano in soccorso del mondo, come richiesto a gran voce da molte parti- qualcuno ha la spudoratezza di chiedere alla Cina e ai paesi arabi un intervento “disinteressato” e senza condizioni-, bisognerebbe che cambiassero le regole del gioco e il peso dei vari paesi all’interno del Fondo. E’ questa la seconda condizione. Attualmente gli Stati Uniti hanno più del 17% dei diritti di voto ed un sostanziale diritto di veto sulle decisioni; i paesi europei ben il 32% delle quote, nonché il diritto di nominare il direttore generale, mentre un paese come la Cina ha attualmente poco più del 3% del capitale;

 

3) Il Fondo porta avanti sorprendentemente ancora oggi le sue decisioni applicando agli stati i principi del Washington Consensus –si veda su questo meglio più avanti. Tale visione ideologica appare ormai insostenibile.

 

Ma saranno disposti gli Stati Uniti e i paesi europei a cedere una parte sostanziale delle loro quote, dei loro poteri di intervento e a rinunciare ad imporre a tutti la loro visione del mondo? In particolare, saranno poi gli Stati Uniti disposti ad accettare un approccio che lasci maggiore margine di manovra di politica economica agli stati ed un maggiore ruolo all’intervento pubblico nell’economia? Ci si permetta di esprimere qualche dubbio al riguardo. Ma senza un radicale mutamento di prospettive e senza l’accettazione da parte dei paesi occidentali delle realtà del mondo e della necessità di venire a patti con il nuovo che avanza, il mondo probabilmente non uscirà dai suoi problemi e dalle sue contraddizioni.

 

Dobbiamo a questo punto ricordare che cosa sta in effetti succedendo con i paesi dell’Europa Orientale.

 

L’FMI sta ora distribuendo i suoi prestiti ad alcuni paesi di tale area; in particolare, l’Ungheria ha ricevuto un pacchetto di 25 miliardi di dollari, mentre stanno negoziando un intervento del fondo l’Ucraina e la Bielorussia e si stanno allineando in fila diversi altri stati.

 

Ma appare interessante ricordare le condizioni a cui questi paesi devono sottostare per ricevere il denaro richiesto, come ci informa ad esempio il quotidiano Guardian (www.guardian.co.uk, 2 novembre 2008).

 

L’Islanda, che comunque è al di fuori dell’area, per ottenere il prestito richiesto ha dovuto portare i tassi di interesse al 18%, avendoli tagliati al 12% appena due settimane prima per aiutare la ripresa dell’economia; nel frattempo i paesi occidentali stanno invece tagliando i tassi drasticamente. Intanto in Bielorussia il Fondo impone al paese di privatizzare il settore bancario, mentre contemporaneamente, come è noto, in Occidente moltissimi istituti, e tra i più grandi, vengono nazionalizzati. Mentre poi Stati Uniti e Gran Bretagna stanno aumentando fortemente la spesa pubblica per frenare la crisi, all’Ungheria vengono richiesti drastici tagli al bilancio, mentre la Romania, anch’essa bisognosa di un intervento, per il momento si sta rifiutando di fare la stessa cosa.

 

Ovviamente queste misure contribuiranno ad alimentare la recessione nell’area, ma i principi liberisti, il potere di Washington e le retribuzioni di molti funzionari e consulenti cresciuti con le vecchie idee saranno ancora una volta salvi. Ancora per molto?

 

Testi citati nell’articolo

 

-Mason P., A last chance, Newstatesman, 6 novembre 2008

 

-Brummer A., The Fund is back in town, Newstatesman, 23 ottobre 2008

 

-P. Lamy, Il faut une régulation contraignante, Le Monde, 8 novembre 2008

 

-The Economist, Redesigning global finance, 13 novembre 2008

 

-www.guardian.co.uk, 2 novembre 2008

 

-Strauss-Kahn D., Je proposerai au G20 un plan de nouvelle gouvernance mondiale, Le Monde, 30 ottobre 2008

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