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Ue, un'area economica senza governo
Mentre i vincoli di finanza pubblica, indebitamento e debito pubblico, sono stringenti, gli impegni per la crescita e lo sviluppo restano per lo più delle (buone) raccomandazioni
L’Europa è un’area economica senza governo, nell’accezione data dai “principi”, dalle “norme” e dalle “regole” che sottendono l’economia pubblica (1), così come dai cosiddetti fallimenti del mercato sottesi all’economia del benessere (V. Pareto (2)). Gli insegnamenti di economia pubblica sono un utile “paradigma” interpretativo del che cosa si potrebbe-dovrebbe fare per uscire dalla più grave crisi di struttura che attraversa l’Europa. Solo in questo modo è possibile ri-muovere il clima culturale che assegna alla pressione fiscale la responsabilità della crisi (c.d. curva di Laffer (3)).
Infatti, la politica economica pubblica “indirizza” il sistema economico verso la realizzazione di determinati obiettivi (crescita, sviluppo, eguaglianza), assieme alla politica fiscale (finanziaria), cioè l’insieme delle tasse e dei tributi necessari per stimolare la crescita economica. Più precisamente: la politica economica pubblica è parte integrante della politica macroeconomia. Un matrimonio difficile, ma necessitato dalla cecità degli attori coinvolti (lavoro-capitale) (4): un conto è contrattare il salario o perseguire il profitto, un altro conto è fare politica economica, cioè guidare la crescita economica. A tal proposito si fa riferimento a “The end of laissez-faire” di Keynes (5) quando sostiene che "La cosa più importante per un governo non è quella di fare un po' meglio o un po' meno bene quello che già viene realizzato dall'iniziativa privata, ma di fare ciò che l'iniziativa privata assolutamente non fa"; così come alle “libertà positive”, cioè le libertà fruibili da ciascun individuo nell’uguaglianza, che trovano il loro limite nella libertà degli altri e, soprattutto, non riducono l’autorità dello Stato legandola “all’autorità” dei cittadini.
L’assenza di un governo europeo pubblico, sempre nell’accezione di cui sopra, è manifesta quando misuriamo il peso del bilancio pubblico europeo in rapporto al Pil: a fatica raggiunge l’1,4 per cento. Fare macroeconomia o economia pubblica con queste risorse è tecnicamente impossibile. È possibile, forse, coordinare le politiche dei singoli stati, ma le misure adottate dagli stati saranno sempre un multiplo di quelle necessarie per fare politica economica europea. Al limite è possibile regolare il mercato, nulla di più e nulla di meno.
I fallimenti delle politiche economiche europee sono proprio nella matrice “regolativa” della sua attività che, per definizione, non può che essere minimalista (diritto naturale-negativo). Più semplicemente, l’Ue esercita un potere regolativo forte quando promuove vincoli più o meno severi al mercato o alla pubblica amministrazione, direttamente proporzionale al peso economico degli Stati che finanziano la Commissione, ma rimane un soggetto economico debole quando deve esercitare le politiche pubbliche macroeconomiche, soprattutto se consideriamo l’estrema mobilità dei redditi determinati dall’apertura del mercato finanziario (6).
Quindi l’Europa non ha gli strumenti giuridici ed economici per agire il ruolo (proprio) di “agente” economico, per come storicamente si è manifestato lo Stato moderno.
Diversamente non sarebbe spiegabile la dicotomia tutta europea tra le norme che regolano i bilanci degli stati (fiscal compact), e le norme di indirizzo economico (Europa 2020); le prime fanno riferimento alle politiche mainstream (austerità), le seconde fanno riferimento alla programmazione economica. Sostanzialmente in Europa convivono due politiche economiche, che solo l’artificio giuridico del Patto di Stabilità e Crescita può tenere assieme.
Le politiche e le misure adottate dall’Ue per contrastare la crisi intervenuta nel 2007, hanno disegnato un quadro abbastanza stringente di obiettivi finanziari, in particolare la solidità dei bilanci pubblici, a discapito di misure (economiche e finanziarie) che potessero realmente implementare Europa 2020. Mentre i vincoli di finanza pubblica, indebitamento e debito pubblico, sono stringenti, gli impegni per la crescita e lo sviluppo sono per lo più delle (buone) raccomandazioni. Il quadro che emerge è una serie di strumenti potenzialmente coerenti per coordinare le politiche fiscali europee tese a costruire un’agenda economica rafforzata, la stabilità dell’euro e la “regolamentazione” del settore finanziario, ma gerarchicamente slegata dalle policy per la crescita. Non a caso i vincoli-squilibri macroeconomici e di competitività sono emersi con tutta la loro violenza. Se anche la Germania ha ricevuto un richiamo dalla Commissione europea per il suo eccessivo surplus commerciale, c’è veramente qualcosa che non funziona nella politica economica europea.
All’interno di questo scenario economico, si inserisce il progetto di bilancio europeo 2014-20207. La proposta di bilancio risente delle politiche d’austerità adottate dall’insieme dei paesi di area euro, ma gli stanziamenti finanziari per la crescita e il lavoro registrano un tasso di crescita del 37 per cento. Una inversione di tendenza importante, ancorché insufficiente per realizzare gli obiettivi di Europa 2020 e la sottesa politica industriale, anche se le green Technologies e la conseguente domanda d’investimenti delle imprese per raggiungere gli obiettivi indicati dall’Ue sono l’orizzonte delle policy industriali dell’Europa.
In altri termini, all’interno di una parte della Commissione è chiara la direzione della politica (macro)economica, ma la matrice “regolativa” della stessa Commissione non permette l’adozione dei necessari provvedimenti. Se la vera sfida europea è uscire dalla crisi economica, assieme a delle misure restrittive del mercato finanziario; se l’uscita dalla crisi è direttamente e intrinsecamente legata alla capacità d’alimentare un nuovo paradigma tecno-economico, il bilancio pubblico europeo dovrebbe traguardare almeno il 3-4 per cento del Pil europeo, ed essere finanziato da entrate fiscali autonome su una base imponibile molto ampia (Iva). In altri termini il Parlamento europeo assumerebbe il ruolo legislativo che gli competerebbe. Se un Parlamento non decide le tasse e le spese non serve a niente!
Europa 2020 individua alcuni importanti obiettivi: la conoscenza e il suo uso a fini ambientali, la crescita economica senza emissioni di carbonio e l’impiego accurato delle risorse, l’efficacia sul piano dei costi sull’intero ciclo di vita dei beni e servizi. Inoltre, tutti i paesi sostengono le tecnologie rinnovabili, anche per affrancarsi dalla probabile crescita dei prezzi delle materie prime come il petrolio.
La sfida europea, la sostenibilità dell’euro, la politica economica europea, è tutta qui: adottare una sana e coerente politica liberale. Come direbbe Keynes: I am liberal.
Diversamente le differenze di struttura tra i paesi europei possono solo accentuarsi, con dei paradossi che non hanno giustificazione. Mentre il Pil tedesco poteva crescere del 20 per cento tra il 2000 e il 2013, via avanzi commerciali, il Pil italiano è cresciuto del 4,5 per cento in ragione di politiche restrittive e di politiche industriali sbagliate8; oppure come la dinamica della crescita del rapporto debito/Pil della Germania del 35 per cento (2000-2012), contro il 17 per cento di quella italiano, ma considerata fuori controllo dalla Commissione che utilizza lo stock e non il flusso per verificare la sostenibilità9.
Il 2014 sarà nel bene e nel male un anno di svolta: o diventa liberal, con tutte le sue implicazioni di ordine giuridico ed economico, oppure imploderà nella tempesta perfetta. Scegliere non dovrebbe essere difficile.
1 R. A. Musgrave, 1995, Finanza pubblica, equità, democrazia, “Collezione di testi e studi”, ed. Il Mulino
2 V. Pareto, 1906, Manuale di economia politica con una introduzione alla scienza sociale, Soc. ed. Libraria, Milano.
3 Oltre una certa soglia i tributi determinerebbero una riduzione delle entrate tributarie.
4 P. Leon, 2014, Il capitalismo e lo stato. Crisi e trasformazione delle strutture economiche, ed. Castelvecchi.
5 J. M. Keynes, 1936, The general theory on employment interest and money, tr. It. Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse, e della moneta, a cura di A. Campolongo, Utet, Torino, 1971
6 Bosi P., Guerra C. M., 2008, I tributi dell’economia italiana, ed. Il mulino, Bologna. A pagina 18 a tal proposito affermano: “Sui redditi derivanti da fattori che hanno conquistato una completa mobilità internazionale la possibilità di tassazione da parte degli stati nazionali risulta sempre di più ardua realizzazione. I progressi di armonizzazione a livello di UE sono del tutto trascurabili: i paradisi fiscali offrono una concorrenza difficilmente contrastabile. Gli effetti sono stati sottovalutati. Un esito foriero di conseguenze così negative avrebbe dovuto essere attentamente valutato, soppesandolo con i vantaggi derivanti dalla maggiore efficienza nell’allocazione dei capitali realizzabile attraverso la liberalizzazione. L’aspetto più preoccupante è che nessuno si è preoccupato di valutare gli effetti, limitandosi a prendere atto delle nuove regole del gioco.
7 Consiglio Europeo dell’8 febbraio 2013.
8 Su quest’ultimo punto la Commissione Europea non è colpevole.
9 Se le imprese dovessero utilizzare lo stesso criterio non ci sarebbero nemmeno le imprese private.
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