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Europa e dopo crisi: la voce dei sindacati europei
La recessione si è abbattuta su un tessuto sociale già fragile. E adesso il rischio è che, accantonati i sogni di Lisbona, si punti a una ricetta a base di bassi salari
Disoccupazione e bassi salari: sono queste le principali cause della povertà percepite dalla popolazione secondo l’Eurobarometer Survey on Poverty and Social Exclusion 2009, recente indagine condotta dalla Commissione Europea in occasione dell’apertura dell’Anno Europeo della Lotta alla Povertà e alla Esclusione Sociale. E sono questi i principali problemi economici che la European Trade Union Confederation (ETUC) – confederazione di sindacati europei con sede a Bruxelles rappresentante 82 gruppi sindacali e 12 federazioni industriali – intende affrontare. Soprattutto dopo la crisi dello scorso anno.
In Europa, la “grande crisi” del 2009 ha infatti colpito un mercato del lavoro già pesantemente vessato da precarietà e debole dinamica salariale. Dal 1997 al 2007 il numero di lavoratori dell’Unione con contratti temporanei è aumentato di 10 milioni di unità senza che a ciò abbia fatto seguito una pianificata e organica costruzione di un sistema di ammortizzatori sociali, mentre la crescita dei salari è spesso avvenuta a ritmi inferiori all’andamento di produttività e inflazione. Nel 2008 l’impennata nei prezzi del petrolio ha contribuito ad erodere il potere d’acquisto dei lavoratori, parzialmente recuperato nel corso del 2009 in seguito alla frenata della spirale inflazionistica. Ma il crollo dell’occupazione e la ristrutturazione di molti posti di lavoro hanno provocato il collasso della crescita dei salari per lavoratore, dimezzata dal 2008 al 2009 (si vedano a tal proposito le linee guida proposte dall'ETUC lo scorso dicembre “Resolution Guidelines for the coordination of collective bargaining in 2010”). I lavoratori, che non hanno certamente determinato la crisi, oggi rischiano dunque di pagarne gli effetti più di chiunque altro.
Inoltre, i prossimi anni saranno certamente segnati dalle conseguenze della recessione: il tasso di disoccupazione rimarrà ancora a lungo a livelli piuttosto elevati (10.5% secondo le previsioni della BCE per il 2011), mentre le potenzialità di spesa del sistema pubblico resteranno contenute dalle stringenti regole di bilancio imposte dal Patto di Stabilità.
“Per incrementare l’occupazione è necessario tagliare il costo del lavoro” sentiamo spesso ripetere da governi ed economisti e in una fase economica come questa, proporre politiche di sostegno ai salari e, contestualmente, di incentivo all’occupazione sembrerebbe contraddittorio. Invece, è proprio quanto i sindacati europei si stanno impegnando a fare. Ciò che serve per la ripresa – dicono – è l’instaurazione di un nuovo paradigma economico che, abbandonando sfrenate politiche di deregolamentazione e flessibilizzazione, porti ad una nuova comprensione dei meccanismi del mercato del lavoro e alla definizione di nuove proposte, per difendere i salari e, allo stesso tempo, contrastare la disoccupazione. Ma vediamo nel dettaglio quali sono le proposte avanzate dalla Confederazione dei Sindacati Europei.
“No wage freeze and no wage cuts” è quanto, in primis, le European Trade Unions continuano a ripetere. Sarebbe solo controproducente – denunciano – cedere alla pressione di contenere i salari, proveniente tanto dal settore privato, che potrebbe tentare di ridefinire le negoziazioni a livello di impresa per ridurre i livelli delle retribuzioni nominali, quanto dallo Stato, che, nel tentativo di risollevare le finanze pubbliche e ridurre il deficit, potrebbe essere incentivato a tagliare la spesa per stipendi (ad esempio in settori in cui questa è particolarmente elevata come Salute e Istruzione). Gli stessi lavoratori, avvertono i sindacati europei, non dovrebbero assecondare tali tentativi nel timore di perdere il lavoro.
I salari – sottolinea la Confederazione – dovrebbero essere ancorati alla somma tra andamenti di medio termine dell’inflazione e della produttività, ma un loro irrigidimento non può essere giustificato nemmeno dalla caduta della produttività dello scorso anno: tale contrazione è stato un fenomeno ciclico provocato dal crollo della domanda, che deve invece essere sostenuta attraverso politiche retributive accomodanti. La contrazione dei redditi da lavoro rischierebbe unicamente di peggiorare la già atrofica dinamica della domanda, impedendo la ripresa e prolungando la stagnazione.
Il rilancio dell’occupazione – propone ancora l’ETUC – deve, invece, essere fondato su interventi diversi dal taglio dei salari e mirati tanto al breve che al lungo periodo: soluzioni nell’immediato vengono individuate nella flessibilità degli schemi lavorativi e nella redistribuzione del lavoro, ad esempio attraverso meccanismi di job sharing, che, ripartendo un’unica attività lavorativa tra due lavoratori, che, singolarmente, lavorano meno ore di quanto farebbero se svolgessero l’attività autonomamente, permetterebbero di mantenere il posto; mentre la perdita di reddito derivante dovrebbe essere bilanciata attraverso un’adeguata erogazione di strumenti compensativi da parte delle imprese o dello Stato. Inoltre, nel lungo periodo si sostiene la necessità di definire politiche attive per creare nuove possibilità occupazionali. Queste – suggerisce la Confederazione – potrebbero essere individuate nel settore dei servizi di interesse sociale, in cui un’adeguata offerta di strutture è spesso carente: il potenziamento, ad esempio, dei servizi all’infanzia o per il sostegno nelle attività di cura avrebbe il duplice effetto di creare posti di lavoro e offrire nuovi servizi alla società e ai lavoratori.
Per quanto riguarda gli interventi attivi di supporto all’occupazione e di sostegno ai disoccupati, L’ETUC osserva che, in primo luogo, si dovrebbero evitare mere politiche di workfare che, vincolando l’erogazione dei trattamenti allo svolgimento di un'attività di lavoro, rischiano di confinare i disoccupati in lavori precari e sottopagati, ma si dovrebbe prestare attenzione anche agli aspetti formativi, cercando di equilibrare la domanda di lavoro con le capacità dei lavoratori e promuovendo lo sviluppo di nuove conoscenze e competenze o il loro aggiornamento. In secondo luogo, i sussidi di disoccupazione dovrebbero essere definiti in modo da svolgere un effettivo ruolo di stabilizzatori automatici, limitando gli shock nel mercato del lavoro lungo il ciclo economico.
Inoltre, l’evoluzione dell’occupazione dovrebbe essere valutata non solo in termini quantitativi, ma anche e soprattutto in termini qualitativi, cercando di costruire un mercato del lavoro più equo e giusto, attento alla tutela dei diritti dei lavoratori e alle condizioni di lavoro. Un mercato in cui si attuino efficaci politiche anti-discriminatorie nei confronti dei soggetti deboli (quali immigrati, anziani e persone diversamente abili) e in cui si riescano a colmare gli ampi divari di genere tutt’ora presenti (nelle possibilità di carriera, nel livello delle retribuzioni, nella distribuzione degli impegni familiari). In questo senso, sono centrali per i sindacati il tema della regolamentazione delle ore di lavoro e quello della flexicurity,ossia dell’equilibrio tra aumento della flessibilità delle relazioni contrattuali e sicurezza per i lavoratori. Una maggiore flessibilità negli schemi lavorativi – avvertono – non deve infatti alimentare la segmentazione del mercato del lavoro tra chi lavora secondo i ritmi classici e chi sceglie soluzioni diverse. La garanzia di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali deve essere assicurata, la qualità delle tipologie di lavoro flessibili deve essere monitorata e l’accesso ad attività di formazione e di training assicurata per tutti, affinché i lavori flessibili non diventino lavori di serie B.
Il vero problema è che la crisi ha colpito un tessuto sociale già estremamente fragile. Dove sono andati a finire i buoni propositi per la realizzazione di una Social Europe che bisognava costruire con la Strategia di Lisbona? Soprattutto a partire dal 2005 – lamenta la Confederazione – a livello europeo l’interesse per le tematiche sociali è andato via via scemando e ha preso il sopravvento una sempre maggiore attenzione alla liberalizzazione dei mercati e al liberismo economico.Infine, l’ETUC accusa le aziende di aver contribuito al diffondersi della crisi, alimentando atteggiamenti speculativi attraverso l’eccessiva attenzione ad obiettivi di brevissimo periodo (ad esempio attraverso l’agganciamento delle retribuzioni di top managers agli andamenti di breve periodo nel valore delle azioni).
In conclusione, per costruire un nuovo paradigma economico che permetta di uscire dalla depressione la European Trade Union Confederation sostiene che è necessario abbandonare comportamenti puramente speculativi, ritornare a dare priorità ad aspetti quali sicurezza sociale, istruzione e formazione e perseguire obiettivi di lungo periodo come, ad esempio, sviluppo dell’innovazione e degli investimenti in energie rinnovabili. E per fare ciò serve partire dal basso, dalla stessa cultura imprenditoriale.
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