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L'austerity che affossa l'Europa
L'Europa è entrata in una nuova fase della crisi, sociale e politica, prodotta dall’austerità e dalla depressione. L'assenza di politiche anticicliche ha reso concreto il pericolo di una recessione double dip. Il rapporto dell'Osservatorio sociale europeo
Lo scorso venerdì 5 luglio l’Osservatorio Sociale Europeo (Ose), un centro di ricerca e studi sulle politiche sociali e del lavoro nell'Unione Europea, con sede a Bruxelles, ha presentato il suo nuovo studio sullo stato sociale dell’Unione Europea, redatto dal team di ricerca dell'Ose in collaborazione con l’Etui (l’istituto di ricerca della Confederazione europea dei sindacati) e altri ricercatori di caratura internazionale in ambito economico e delle politiche sociali. L’Osservatorio non ha lesinato critiche alla linea di politica economica attualmente predominante in Europa.
Il primo messaggio del rapporto può essere così riassunto: l’austerità è il problema, non la soluzione. È la Commissione stessa a rilevare, in un recente issue paper, come l’Europa sia, a 5 anni dallo scoppio della crisi, l’unica delle principali macroregioni dove la disoccupazione non sta calando. Il numero di persone che vive in famiglie senza redditi da lavoro aumenta, così come quello delle persone che patiscono forme di deprivazione materiale. Il rapporto cita voci critiche provenienti dalle istituzioni internazionali: l’Ilo denuncia gli effetti recessivi dell’austerità nel rilevare il pessimo risultato europeo in termini di occupazione (giovanile in particolare) a fronte di migliori situazioni di paesi che hanno adottato politiche economiche diverse. Non solo: per concentrarsi sull’austerità, l’Ue ha rinunciato a perseguire una ben più necessaria politica di regolamentazione dei mercati finanziari. Persino il Fmi ha iniziato a mettere in dubbio la strategia della “crescita austera”: tagli di bilancio troppo aggressivi stanno avendo effetti recessivi talmente forti che anche il rapporto debito/Pil ne risulta aumentato. Ancora più inaspettata è l’osservazione per cui questa strategia non serva neanche ad attrarre capitali: gli investitori non scelgono solo in base a debito pubblico e tassi di interesse, ma anche in base a crescita e produzione aggregata, che a loro volta sono penalizzate dalle politiche restrittive.
Le politiche europee, però, non si stanno sostanzialmente adeguando a queste osservazioni: le iniziative volte a favorire la crescita e il rilancio della dimensione sociale rischiano di essere poco più che scatole vuote. L’Ose, per bocca del suo co-direttore David Natali, richiama invece l’attenzione sull’importanza di due riforme istituzionali: quella del Patto di stabilità e crescita e quella della Banca centrale europea. Riguardo la prima, l’Ose si è fatto negli ultimi anni paladino dell’idea che l’Ue si debba concentrare sui “social investments”, ovvero tutti quegli investimenti che andrebbero ad accrescere e rafforzare il capitale umano; questi dovrebbero essere inoltre esclusi dal calcolo del deficit. Questo può rappresentare la base per un rilancio della knowledge economy europea. Il ruolo della Bce è invece centrale per l’economista Paul de Grauwe, secondo cui la vera crisi, oggi, è la depressione approfondita dalle politiche di austerità, non la minaccia finanziaria sui debiti pubblici, che è stata “stoppata” dall’intervento della Bce con il cambio di ruolo voluto da Mario Draghi, che porta la banca ad un ruolo effettivo di “prestatore di ultima istanza”. Questa è stata per De Grauwe una scelta molto positiva, per quanto indebolita dalle rigide condizionalità alle operazioni di acquisto dei bond da parte della Bce: il rischio è che, per accedere al sostegno della banca centrale, i Paesi debbano sprofondare in recessioni dovute a politiche restrittive. Il passo successivo è secondo il team dell’Ose quello di procedere a una riforma del mandato della Bce aggiungendo all’obiettivo del controllo dell’inflazione quello del supporto alla crescita e all’occupazione.
Il secondo campanello d’allarme che emerge fortemente dal rapporto è l’incremento degli squilibri all’interno dell’Eurozona. Il rapporto dedica un interessante capitolo a spiegare come, di fronte ai tagli all’istruzione operati da molti dei paesi membri, i tentativi di armonizzare gli standard a livello europeo siano lontani dall’ottenere i risultati sperati. Particolare attenzione merita l’analisi dell’andamento dei salari: in 18 su 27 Paesi, tra il 2010 e il 2012, i salari si sono ridotti. Questa tendenza è stata incoraggiata dalla Commissione europea, tramite raccomandazioni a favore della riduzione dei salari dei dipendenti pubblici, della riduzione dei salari minimi e dell’indebolimento della contrattazione collettiva. Nel discorso della Commissione questo avrebbe dovuto colmare il gap di competitività tra i paesi debitori e i paesi creditori, ma la realtà è stata molto diversa: la riduzione dei salari, che trascura altre determinanti della competitività, ha invece acuito la crisi di domanda e la spirale recessiva, aumentando i divari intra-europei.
Secondo De Grauwe, inoltre, il peso degli squilibri è sopportato solo dai paesi debitori, quando in realtà le responsabilità sono condivise: l’eccesso di debito privato nell’Europa meridionale corrisponde a un eccesso di credito proveniente dai paesi del Nord Europa. Questi ultimi avrebbero potuto controbilanciare - con politiche di stimolo alla domanda in casa propria - la contrazione della domanda dovuta alle politiche di riduzione del debito nei paesi del Sud. Inutile dire che non lo hanno fatto. Mentre il debito dei paesi del Sud Europa sta continuando a crescere, i paesi del Nord, Germania in primis, hanno invece stabilizzato il rapporto debito/Pil. I paesi nord-europei devono smettere di perseguire il pareggio di bilancio e assumersi il carico di trainare la ripresa, prosegue De Grauwe: la sua proposta è quella non di perseguire il pareggio di bilancio, ma di mantenere costante il livello del debito in rapporto al Pil. Non c’è ragione di pensare che questo renda difficile alla Germania l’accesso al credito, dato che i bassissimi tassi di interesse di cui il governo tedesco attualmente beneficia sono un segnale che gli investitori hanno in realtà fame di debito tedesco.
In conclusione, il rapporto evidenzia una nuova fase della crisi, una crisi sociale e politica, che è il prodotto dell’austerità e della depressione. Il pericolo di una recessione double dip si è materializzato dal momento che l’Unione Europea si è legata le mani, impedendosi di portare avanti politiche anticicliche.
Il dibattito attorno alla presentazione del rapporto si conclude con un’interessante domanda: se è necessario un cambio di paradigma rispetto all’austerità, che si fondi su un rilancio in termini di crescita sostenibile e di investimenti in welfare e conoscenza, qual è la coalizione politica capace di portarlo avanti? È necessario innanzitutto far uscire queste parole d’ordine dalla marginalità in cui il consenso trasversale pro-austerità le ha relegate. Crediamo che i critici dell’austerità e sostenitori di un rilancio “sociale” e “verde” siano stati relegati in uno spazio politico considerato “estremista”. Riteniamo, invece, che sia, non solo più ragionevole, ma anche più “europeista” chi oggi critica l’austerità e propone modelli radicalmente diversi. Ci auspichiamo che la sinistra europea arrivi alle elezioni del 2014 avendo maturato un nuovo paradigma e non solo iniziative di rilancio sotto-finanziate e puramente “cosmetiche”. Un radicale cambiamento rispetto alle politiche di austerità sarà uno dei più importanti parametri su cui misurare la capacità della sinistra di essere vicina alle reali esigenze delle persone.
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