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Basta con gli incentivi all'auto privata

09/10/2009

La Fiat chiama, il governo risponde. Ma gli aiuti all'auto non aiutano la collettività. Meglio varare un piano straordinario per la mobilità

Sollecitato da Marchionne, Berlusconi ha recentemente annunciato un nuovo ciclo di incentivi all’acquisto di automobili. E’ una promessa che – se mantenuta – rappresenterebbe l’ennesima occasione persa per impostare una nuova politica, sia industriale che dei trasporti.
Gli incentivi all’auto sono infatti un errore di politica industriale, innanzitutto perché producono effetti solo temporanei. Come è noto ormai agli addetti ai lavori, il mercato europeo dell’auto è ormai saturo; gli unici mercati previsti in crescita sono quelli dei grandi Paesi emergenti (Cina, India, Brasile, ecc.), ma sono e saranno serviti da impianti produttivi insediati in loco. Continuare a sostenere un'industria in crisi strutturale è dunque economicamente sbagliato e socialmente irresponsabile: il solo risultato che produce è procrastinare nel tempo chiusure di impianti e nuovi licenziamenti di massa. Serve invece un serio programma di riconversione industriale.

Ma gli incentivi all’auto sono un errore anche di politica dei trasporti. Anche il modello di mobilità centrato sull'auto è infatti in crisi strutturale. Le promesse dell'auto (velocità, flessibilità, comfort) sono ormai un miraggio e le nostre città sono ormai attanagliate dalla congestione e rese insalubri e insicure da inquinamento, rumore e incidenti. Sono tutti effetti di una crescita del numero di auto circolanti: l’Italia ha infatti ormai un tasso di motorizzazione secondo al mondo solo a quello degli Stati Uniti. Un risultato ottenuto proprio grazie ai ripetuti cicli di incentivi e all’assenza di una politica dei trasporti in grado di soddisfare in modo diverso la domanda di mobilità.
Invece di ripetere strumenti inefficaci, se non dannosi, sarebbe allora il caso di “cambiare passo” e lanciare un vero e proprio piano straordinario per una nuova mobilità, non più centrata sull’auto di proprietà. Si tratta di un piano che dovrebbe intervenire innanzitutto alla scala urbana e locale, senza mettere al centro le grandi opere infrastrutturale (quindi l’esatto contrario di quanto prevedono oggi le politiche italiane ed europee). Per essere efficace, questo piano straordinario dovrebbe essere promosso e finanziato non solo a livello nazionale, ma si dovrebbe tradurre in una nuova politica europea, a partire dal significativo rafforzamento della dotazione finanziaria del Piano d'Azione per la Mobilità Urbana che la Commissione europea ha lanciato lo scorso 30 settembre.
In sintesi, il piano straordinario per la nuova mobilità dovrebbe essere articolato in due linee di intervento.

Con la prima azione si dovrebbe dar vita a una pluralità di fondi pubblici, finalizzati al finanziamento di progetti promossi dagli Enti locali per rafforzare il trasporto pubblico, agevolare gli spostamenti a piedi e in bici, diffondere le forme innovative di trasporto (car sharing, city logistics, ecc.). A livello regionale si dovrebbero costituire dei fondi unici per i trasporti, che non disperdano più le risorse in azioni su singole infrastrutture o modalità, ma le finalizzino tutte a piani di area vasta, metropolitana o provinciale. A livello nazionale il quadro legislativo sui Piani Urbani della Mobilità è da anni in vigore; si tratta di adeguarlo alle nuove necessità e – soprattutto – di attivare le risorse necessarie, con un orizzonte di 10-15 anni e importi pari a quanto oggi è previsto per le grandi opere per i trasporti, che quindi dovrebbero essere definanziate (a partire dalla Torino-Lione a dal ponte sullo Stretto di Messina). A livello europeo si dovrebbe aprire un capitolo specifico all'interno degli schemi sulle reti europee per finanziare le infrastrutture al servizio del trasporto regionale e metropolitano.

Una seconda linea di azione dovrebbe strutturarsi come piano europeo di riconversione dell'industria dell'auto, che accompagni la sua transizione verso il sistema della nuova mobilità urbana. Un piano da fondare su tre pilastri: a) ammortizzatori sociali e formazione per evitare ogni “macelleria sociale” a danno dei lavoratori del settore; b) commesse straordinarie delle amministrazioni e delle aziende pubbliche per lo sviluppo della trazione elettrica (treni, metro, tram, bus, furgoni, taxi, moto); c) sostegni all'integrazione con produttori di componenti e sistemi per la nuova mobilità urbana, centri di ricerca, enti locali, soggetti del credito, ecc. Anche in questo caso sarebbe necessaria un'azione a livello europeo che consenta di raggiungere la massa critica necessaria in azioni di questo tipo; tra l’altro, proprio un’azione congiunta europea consentirebbe di superare ogni possibile obiezione in materia di “aiuti di Stato”.

Si tratta di obiettivi allo stesso tempo ambiziosi e ancora non condivisi, neanche a sinistra, dove persino un dibattito sul futuro dell’industria dell’auto stenta a prendere piede. E’ dunque necessaria innanzitutto un’azione politica di sensibilizzazione e di mobilitazione, che metta in rete le tante esperienze locali a sostegno di un modo nuovo di concepire la mobilità delle persone e delle merci e che apra finalmente una discussione con i lavoratori dell’industria dell’auto. La scorsa primavera – quando la crisi dell’auto aveva toccato l’apice – un confronto finalmente non scontato su questi temi aveva cominciato ad avviarsi, proprio a partire dalle aree di crisi dell’industria dell’auto, sia italiane (si pensi a Pomigliano) che europee (ad esempio nell’area di Lisbona). Da lì si dovrebbe ripartire.

* l'autore è promotore di noauto, associazione che promuove un sistema di mobilità alternativo all'automobile

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