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Ambiente senza prezzo. E quindi disprezzato

07/04/2010

Il valore del capitale naturale è stato da sempre riconosciuto nella storia del pensiero. Ma sulla sua misurazione si sono separate l'economia e l'ecologia

L’Europa è ormai da mesi sotto la morsa del freddo. Negli ultimi mesi, i danni economici dovuti al maltempo sono stati enormi. In alcuni paesi hanno raggiunto frazioni rilevanti del Pil azzerando quel poco di ripresa economica che si cominciava a profilare. I cambiamenti climatici stanno diventando sempre di più un rompicapo per economisti ed investitori. Già nel 2007, la famosa Stern Review (il rapporto stilato per il governo inglese dall’economista Nicholas Stern) stimava che i cambiamenti climatici avrebbero decurtato il Pil globale del 20% nei decenni futuri1.

Nella storia del pensiero filosofico e politico occidentale, è stato probabilmente Platone il primo a riconoscere il legame indissolubile che lega la vita umana alle risorse naturali. Non è un caso, infatti, che in greco antico le parole oikonomìa e oikologos si trovino fondamentalmente sullo stesso piano semantico. Entrambe infatti indicano lo studio e la gestione dell’oikos, cioè della casa, dell’ambiente di vita, dell’ecosistema. Eppure, nonostante l’economia e l’ecologia siano nate sorelle, sono cresciute e si sono sviluppate in modo completamente separato nella storia del pensiero politico ed economico occidentale. Questo processo ha visto la supremazia crescente ed incontrollata della prima a tutto svantaggio della seconda.

Il primo trattato moderno che recupera il legame indissolubile tra sviluppo umano e risorse naturali è il Man and Nature di George Perkins Marsh, pubblicato nel 1864.2 La preoccupazione fondamentale del lavoro di Marsh è quella di sottolineare la scarsità delle risorse naturali utili allo sviluppo umano ed il delicato equilibrio che permette alla natura di sostenere le funzioni centrali della vita umana, dalla rigenerazione della terra per l’agricoltura alla fornitura di acqua. Nell’ipotesi di Marsh, lo squilibrio tra economia ed ecologia sarebbe stato all’origine del collasso di molte civiltà del passato, incapaci di comprendere la centralità delle funzioni naturali nel garantire la sostenibilità dello sviluppo sociale e del benessere collettivo. È solo però a partire dagli anni 40 del secolo scorso che si comincia a riflettere sul legame tra le funzioni della natura e lo sviluppo generale di ogni sistema economico. Si inizia a parlare di ‘servizi ambientali’, ‘servizi della natura’ e ‘servizi pubblici dell’ecosistema globale’, fino ad arrivare al termine in uso attualmente: servizi ecosistemici.3 Questi studi introducono una serie di riflessioni sul ruolo fondante delle funzioni ecosistemiche per la creazione di qualunque attività umana, inclusa la tanto blasonata crescita economica di cui ci riempiamo continuamente la bocca. La valorizzazione di questi servizi, però, restava comunque legata ad un ragionamento filosofico-morale: la natura è un sostegno indispensabile ed ha quindi un valore intrinseco. Ciò che mancava era un tentativo complessivo di quantificazione monetaria del contributo della natura alla ricchezza delle nazioni.

Il tentativo di ‘monetizzazione’ più conosciuto e discusso è probabilmente quello di Robert Costanza e colleghi apparso nel 1997 sulla rivista Nature.4 Il loro modello di calcolo si basa sul principio della ‘willingness to pay’, cioè della disponibilità a pagare per un determinato servizio, e quantifica il valore complessivo dei servizi ecosistemici a circa 33 trilioni di dollari l’anno a fronte di un prodotto interno lordo mondiale di 18 trilioni di dollari (cioè quasi in un rapporto di 1 a 2 misurato sui livelli medi della metà degli anni 90). Quindi, i servizi resi dalla natura per mandare avanti le nostre società, coltivare i nostri campi, rifornire le nostre industrie sono di circa due volte superiori (in termini puramente monetari) a tutto ciò che alla fine riusciamo a produrre. Un modo agevole di interpretare questi dati è il seguente: se gli esseri umani dovessero rimpiazzare i servizi ecosistemici (per esempio, a causa dei cambiamenti climatici e di disastri ecologici) dovrebbero più che raddoppiare il Pil mondiale. Questo però senza aumentare di un dollaro il welfare generale delle nostre società. Tutti i soldi infatti andrebbero destinati alla rigenerazione di quei servizi perduti, senza considerare – ovviamente – che moltissimi di quei servizi sono semplicemente insostituibili e non replicabili. Benché lo studio presentasse molte limitazioni (difficoltà di quantificazioni per funzioni complesse, preferenze individuali basate su informazioni incomplete che rendevano l’approccio ‘willingness to pay’ molto riduttivo, nascondendo un valore complessivo dei servizi ecosistemici molto più alto) ed intenzionalmente attribuisse un valore strumentale ai servizi ecosistemici (cioè, il valore di ogni servizio era valutato non in termini intrinseci, ma in base a quanto percepito come utile dagli esseri umani), ha avuto certamente il merito di tradurre un concetto evanescente e relegato agli ambiti dell’ecologismo in misure tangibili ed evidenti a tutti.

Infatti, il paradosso che emerge dalla riflessione economica sui servizi ecosistemici è proprio che questo ‘capitale naturale’ non viene assolutamente trattato come se avesse un valore. Anzi, accade esattamente il contrario. “Siccome i servizi ecosistemici non vengono ‘catturati’ dai mercati e non vengono quantificati in termini comparabili con i servizi economici ed i prodotti industriali” – spiegavano gli autori dalle pagine di Nature – “molto spesso questi servizi non vengono neanche considerati nelle decisioni politiche. Questa mancanza di considerazione rischia di compromettere la sostenibilità della vita umana nella biosfera. Tutte le economie del nostro pianeta si bloccherebbero immediatamente senza il sostegno fornito dagli ecosistemi: quindi, a rigor di logica, il valore dei servizi ecosistemici è in realtà infinito”.

Purtroppo, però, i modelli economici attuali ci impongono l’equazione semplicistica valore = prezzo. Quindi ciò che non ha prezzo è generalmente considerato senza valore. E chi stabilisce i prezzi? Ci viene detto che questo è il compito del mercato. I prezzi vengono stabiliti dall’interazione tra domanda e offerta, nella falsa ricerca di un equilibrio che non c’è. Per questa ragione siamo giunti al punto in cui tutto è sacrificabile sull’altare della crescita economica. Pil über alles! E cosa ne facciamo di quel capitale naturale (che permette l’esistenza ed il funzionamento) delle nostre economie? Nulla, visto che nessun mercato gli ha ancora attribuito un prezzo. Le nostre economie (e gli economisti che le hanno disegnate) si comportano come un giocatore d’azzardo che punta due dollari per vincerne uno. E lo chiamano sviluppo. Parafrasando Oscar Wilde, viviamo nell’epoca in cui si conosce “il prezzo di tutto ed il valore di nulla”.

 

1http://webarchive.nationalarchives.gov.uk/+/http://www.hm-treasury.gov.uk/independent_reviews/stern_review_economics_climate_change/stern_review_report.cfm

2 Il testo completo del libro è scaricabile gratuitamente sul sito della Biblioteca del Congresso USA: http://memory.loc.gov/cgi-bin/query/r?ammem/consrvbib:@FIELD%28NUMBER%28vg07%29%29.

3 Il termine viene coniato nel 1981 da P Ehrlich e A. Ehrlich nel 1981, nel libro Extinction:The Causes and Consequences of the Disappearance of Species, Random house: New York.

4 Costanza, R., d’Arge, R., de Groot, R., Farber, S., Grasso, M., Hannon, B., Limburg, K., Naeem, S., O’Neill, R.V., Paruelo, J., Raskin, R.G., Sutton, P., and van den Belt, M. (1997) ‘The value of the world’s ecosystem services and natural capital’, Nature 387: 253-260.

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