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Verso Copenhagen, tra incertezze e proteste del Sud

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I governi dell’Unione Europea, sotto la presidenza svedese, sono riusciti a fare l’atteso “grande annuncio” prima dell’avvio dell’incontro dei negoziatori di questi giorni a Barcellona. Il negoziato è quello sul clima, e il vertice di Copenaghen di dicembre sarà il vertice più mediatico dell’anno anche grazie alla importante mobilitazione della società civile che nelle sue forme più diverse vuole essere presente e dire la sua dentro e fuori il meeting ufficiale. I governi dell’Unione Europea sono tra i maggiori responsabili delle emissioni globali e inoltre hanno sostenuto e promosso un modello di sviluppo che di fatto ha portato il pianeta al collasso. Responsabilità storica su cui insistono molto i Paesi del Sud, che oggi pagano più degli altri gli impatti dei cambiamenti climatici. Come le realtà africane, tra le più povere al mondo, che martedì a Barcellona hanno lasciato la sala del negoziato per lanciare un segnale forte rispetto a quelli che devono essere gli obiettivi minimi per Copenaghen. “Non ci accontenteremo di un accordo qualsiasi” è il loro messaggio al meeting di Barcellona, l’ultimo a disposizione dei negoziatori prima che la palla passi al livello politico, che come sempre entra in gioco solo quando c’è da mettere, o non mettere, una firma. Un deja-vu che ricorda molto il vertice dell’Organizzazione Mondiale sul Commercio di Cancun del 2003 dove proprio il gruppo dei Paesi più poveri riuscì a bloccare un negoziato che gli si stava girando contro, e che da allora non è mai arrivato a conclusione.

 

E guardandolo da vicino, “il grande accordo” degli europei risulta molto vago e lontano dal rispondere alle richieste dei governi africani. Innanzitutto perché il pacchetto di 100 miliardi all’anno per l’adattamento non uscirà tutto dalle tasche europee. Al contrario, i “nostri” puntano a tirare fuori il meno possibile e a chiudere i giochi (e quindi definire chiaramente quale sarà il contributo annuo dell’UE) solo quando tutti gli altri avranno messo la posta sul tavolo. Un giochetto che va avanti oramai da mesi, e che ci ha portato a poche settimane dal vertice danese senza ancora nulla di definito su cui decidere. E se da un lato è una buona notizia sapere che i leader europei si impegnano a negoziare con gli Usa, il Giappone, il Canada e l’Australia per ottenere impegni comparabili, dall’altro la riflessione è che forse questo avrebbe dovuto essere già stato fatto mesi or sono, per raggiungere un buon accordo “equo, inclusivo, effettivo e giusto”, come richiesto dai governi africani e dal blocco dei Paesi del Sud.

 

Infine l’annuncio dell’Unione Europea nulla dice rispetto a elementi centrali del negoziato come il trasferimento di tecnologie, la mitigazione e soprattutto il meccanismo che dovrebbe generare le risorse necessarie a coprire questi costi. Aspetti non da poco, fondamentali per dire che a Copenaghen si è raggiunto un accordo e per dare gli strumenti necessari ad affrontare la situazione ai Paesi del Sud, più vulnerabili al surriscaldamento del pianeta ma anche più poveri e assolutamente non in grado di fare fronte con le proprie finanze spesso ridotte all’osso ai costi addizionali derivati dagli impatti dei cambiamenti climatici, che sommati a quelli della crisi finanziaria (un altro bel regalo del modello di sviluppo promosso dalle istituzioni finanziarie internazionali, Banca Mondiale e Fondo Monetario in primis) stanno spingendo oltre 90 milioni di persone sotto la soglia della povertà.

 

Barcellona è l’ultima occasione per i governi europei di dimostrare che il clima è davvero una priorità e che servono più delle buone intenzioni per invertire la rotta di un intero sistema alla deriva. E stavolta il fumo negli occhi dell’ennesimo annuncio di intenti non basta a calmare gli animi dei milioni di persone per cui un buon accordo a Copenaghen è questione di vita o di morte.

 

Elena Gerebizza – www.crbm.org