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Se chi inquina paga, chi paga può inquinare?
Dopo Copenhagen frena anche il mercato delle emissioni: un modello che era già in crisi, mentre è cresciuta la versione "volontaria" del carbon trade
Negli ultimi anni il cambiamento climatico ha assunto un ruolo sempre più importante tra i vari aspetti della questione ambientale. Il protocollo di Kyoto (adottato nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005) ha stabilito un meccanismo internazionale per affrontare il problema: il carbon trade, cioè lo scambio di diritti di emissione di CO2.
In questo sistema ogni paese, ratificando il protocollo, stabilisce una quantità massima di emissioni da produrre. Gli stati, poi, distribuiscono tali diritti di emissione alle imprese nazionali, che possono scambiarli con altre imprese.
In questo modo la quantità di emissioni producibili dalle imprese diventa un bene limitato da un livello massimo (cap), che viene efficientemente allocato dal mercato (and trade). Oltre alla CO2 vengono presi in considerazione altri gas serra (metano, Nox e Sox), che vengono convertiti in equivalente di CO2 secondo il loro potenziale di riscaldamento globale (global warming potential).
Il protocollo di Kyoto e le sue successive revisioni hanno trovato legittimazione nei rapporti dell'Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate Change), e in altri rapporti nazionali (es. Stern Report), che valutano molto probabile che l'instabilità ambientale e l'aumento della temperatura media siano causate dalla massiccia immissione di CO2 nell'aria da parte dell'uomo.
In sostanza la misura adottata è quella dell'economia neoclassica: dato che le imprese arrecano con le emissioni di CO2 un danno alla collettività che non viene risarcito, si istituisce un sistema giuridico che stabilisca chi e come abbia diritto a inquinare. Successivamente, si crea un mercato che permetta di comprare e vendere l'utilizzo di tali diritti.
Il mercato del carbon trade è stato stimato crescere da 11 miliardi nel 2005 a 64 miliardi di dollari nel 2007 secondo la Banca mondiale.
Le principali istituzioni internazionali coinvolte nel carbon trade sono l'Unfccc (United Nations Framework Convention on Climate Change), Ipcc, Eu Ets (European Union Emission Trading Scheme). Oltre a queste, esiste un sistema finanziario specializzato (la borsa di Londra legata al protocollo di Kyoto, il Chicago Climate Exchange per il mercato americano).
Il mercato di carbon trade più importante è quello europeo (Eu Ets). Nella prima fase (2005-2007), il programma ha coperto circa il 40% delle emissioni totali di CO2 europee, intervenendo nel settore energia, produzione e raffinazione di metalli, industria mineraria (cemento, vetro e ceramica) e della carta. Solo nel primo anno sono stati scambiati 7,2 miliardi di euro, ed emessa una grande quantità di derivati finanziari. Il primo periodo è stato caratterizzato da una grande volatilità dei prezzi dei diritti di emissione, che hanno a varie riprese raggiunto prezzi quasi nulli. Tale volatilità è stata causata dalla complessità del sistema: il volume dei diritti di emissione deve tenere in considerazione il livello di produzione delle imprese nel periodo successivo, e nella prima fase tali diritti sono stati conferiti sovrastimando le emissioni, per cui il loro prezzo è più volte crollato.
Oltre a questo meccanismo, il protocollo di Kyoto stabilisce uno scambio di buoni di emissioni tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo denominato Clean Development Mechanism (Cdm). In questo modo i paesi industrializzati, al fine di raggiungere i propri obiettivi di riduzione delle emissioni, investono in progetti a basso impatto nei paesi in via di sviluppo, guadagnando crediti di riduzione di emissioni (Cers).
Nel 2009 i progetti del Cdm esistenti davano luogo ad una riduzione annuale di 220 milioni di tonnellate di CO2, circa il 5% delle emissioni annuali dell'Unione Europea.
Al contrario del mercato del cap and trade, che permette una riduzione della quantità totale di CO2 emessa attraverso l'abbassamento del livello del cap, attraverso il Cdm avvengono solo compensazioni di emissioni, cioè l'eccesso di emissioni dei paesi industrializzati viene compensato da riduzioni attuate dove costa meno, cioè in paesi in via di sviluppo che utilizzano tecnologie più vecchie e meno efficienti.
Alcuni osservatori ritengono che l'applicazione dei meccanismi di cap and trade in Europa e il Clean development mechanism internazionale hanno fatto poco per l'ambiente e la sostenibilità. Altri evidenziano che il cap and trade ha finito per rappresentare un sussidio netto alle industrie più inquinanti, che da un anno all'altro si sono viste regalare dai governi una quantità di buoni di emissione proporzionale alle emissioni degli anni precedenti. Anche il Cdm viene criticato perché, cercando di ottenere due piccioni con una fava, cioè far convergere le esigenze di sviluppo dei paesi più poveri con le esigenze di salvaguardia dell'ambiente, spesso finisce per spingere i paesi industrializzati ad investire in progetti inquinanti nei paesi del sud del mondo.
Negli ultimi anni, oltre al carbon trade obbligatorio legato al protocollo di Kyoto, si è sviluppato un altro mercato su cui vengono scambiati buoni di CO2 su base volontaria, chiamato Voluntary carbon trade.
Questo mercato coinvolge due tipi di operatori: gli acquirenti, che vogliono neutralizzare l'impatto delle loro attività sul cambiamento climatico ed i venditori, che prestano servizi (progetti di risparmio energetico, riforestazione, energie rinnovabili) per l'assorbimento dei gas serra. Ad esso partecipano aziende (compagnie aree, agenzie di viaggi), organizzazioni di eventi (Mondiali di calcio 2006), amministrazioni non vincolate da obblighi di riduzioni, Ong e singoli individui.
Il mercato volontario ha mostrato una rapida crescita nell'ultimo quinquennio: nel 2008 ammontava al 17% di quello primario (Banca Mondiale, State and Trends of the Carbon Market 2009), per 4 miliardi di dollari nel 2010, e non è ancora soggetto a una regolamentazione definita né a standard e certificazioni univoche.
La partecipazione della società civile al mercato volontario è cambiata drasticamente in un breve tempo: tra il 2007 e il 2008 la quota degli acquisti da parte delle Ong è passato dal 13% all'1%, mentre quella dei privati cittadini dal 5% al 2%. Sembra che, dopo un ottimismo iniziale, le organizzazioni della società civile abbiano perso la fiducia nel mercato volontario delle emissioni.
Conclusioni
Finora, le misure adottate a livello globale per contrastare il cambiamento climatico (cap and trade e il Clean development mechanism), creando un mercato globale dei carbon credit gestito secondo logiche finanziarie e speculative, hanno alimentato un meccanismo estremamente accentrato e verticistico della gestione del problema, concentrando denaro e potere in poche organizzazioni (società finanziarie e borse dedicate ai carbon bond, organismi nazionali o sovranazionali di gestione delle emissioni) lontane dagli interessi della maggioranza dei cittadini.
La crescita del mercato obbligatorio ha però subito una frenata nel vertice di Copenhagen, visto che non si è raggiunto un accordo internazionale su cosa fare dopo la scadenza del protocollo di Kyoto nel 2012.
Allo stesso tempo il mercato volontario continua a guadagnare importanza, ma rimane il dubbio se rappresenterà realmente un'occasione per la società civile e i cittadini per esprimere le propria visione sulle tematiche ambientali globali.
Riferimenti:
Ecosystem Marketplace, The New Carbon Finance, Fortifying the Foundation: State of the Voluntary Carbon Markets, 2009
The World Bank, State and Trends of the Carbon Market, 2009
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