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L'economia mondiale torna a terra

26/11/2008

Distruzione di ricchezza, indebitamento, effetto reddito: i tre canali di trasmissione della crisi dalla finanza alla realtà

Sul fatto che la crisi finanziaria produrrà effetti reali e si trasformerà in un periodo non breve di recessione che coinvolgerà l’intero sistema economico internazionale c’è ormai una consapevolezza diffusa, anche per l’emergere di primi chiari segnali in questa direzione. Col trascorrere dei mesi si stanno attivando almeno tre canali, ciascuno con suoi tempi, attraverso i quali la crisi finanziaria si sta trasferendo al settore reale: il primo passa per quello che gli economisti chiamano “effetto ricchezza”; il secondo è legata all’indebitamento delle famiglie verso il sistema finanziario (soprattutto negli Usa); il terzo può essere definito come “effetto reddito”.

C’è in primo luogo un effetto diretto su imprese e famiglie legato alla distruzione di ricchezza (finanziaria) che la crisi ha determinato e – crediamo – determinerà. La contrazione del valore dei patrimoni (anche quelli reali, per effetto di un abbassamento nei prezzi) ridurrà indubbiamente la capacità di spesa delle famiglie e delle imprese. Emblematico a questo proposito è quello che con ogni probabilità accadrà alle pensioni nei sistemi previdenziali privati, data la caduta dei corsi azionari. Se si pensa che negli Usa i fondi pensione sono la principale forma di sostegno economico delle persone che vanno in pensione si può comprendere l’entità dei problemi che si porranno in quel paese. E’ difficile che quello che resterà del risparmio previdenziale privato riesca a garantire un reddito adeguato ai sottoscrittori. Nella misura in cui questo spinga ad aumentare i risparmi oggi per ricostituire una pensione sufficiente domani, gli effetti sulla caduta della domanda, e dunque sulla recessione, sono amplificati.

La domanda si ridurrà anche per la necessità di aggiustare gli eccessi finanziari che hanno sostenuto la precedente fase di espansione. Il problema dei titoli spazzatura nasce dalla situazione di diffusa insolvenza che si è creata negli Stati Uniti e che ha origine nel crescente indebitamento delle famiglie dei ceti medi. Come abbiamo cercato di mostrare nell'articolo una crisi disuguale la crescita con debito è parte integrante di un modello di sviluppo che ha escluso i ceti medi (e medio bassi) dalla pur rapida crescita del reddito nei due decenni precedenti, consentendo un spostamento della distribuzione dei redditi sempre più sperequata. La domanda che questi gruppi sociali hanno potuto garantire è stata quindi figlia negli anni novanta della crescita della borsa e negli anni duemila della crescita dei valori immobiliari. Il rallentamento della crescita della borsa ed il declino e poi il crollo del valore delle case è stata la causa scatenante della crisi finanziaria. Non solo la diminuzione del valore delle garanzie reali diminuirà la capacità di famiglie e imprese ad accedere al credito, ma si troveranno anche a dover ripagare i debiti contratti a ben altre condizioni e con redditi nonostante tutto crescenti nel periodo del boom.

Ci sono poi gli effetti moltiplicativi sul reddito corrente determinati dai comportamenti degli agenti economici (che abbiamo visto sopra). L’incertezza renderà prudenti sia le imprese nei loro piani di investimento e nelle politiche di costo sia le famiglie che, come abbiamo visto, dovranno ridurranno la propensione al consumo. L’inevitabile contrazione del reddito e aumento della disoccupazione si cumulerà con gli effetti ricchezza e indebitamento, in una spirale moltiplicativa.

In sostanza, la crisi finanziaria determinerà un insieme di effetti che vanno tutti nella direzione di una contrazione della domanda da parte sia delle famiglie che delle imprese. Tendenza questa che non riguarderà solo gli Stati Uniti ma coinvolgerà l’intero sistema economico internazionale. Occorre ricordare che la domanda degli Usa è pari a oltre il 25% della domanda complessiva. Alle onde della crisi finanziaria, che già hanno fatto cadere le borse asiatiche e hanno creato crisi di insolvenza di più di uno stato sovrano, si stanno susseguendo le onde, ben più pericolose, della crisi reale: le tigri asiatiche stanno già sperimentando cadute vertiginose nel tasso di crescita del Pil, con interi settori, che avevano fondato la loro crescita unicamente sull’export led, ormai allo sbando. La conseguenza di questo stato di cose sarà l’emergere di un eccesso di capacità produttiva a livello mondiale, un’accentuazione della concorrenza sui mercati internazionali, con il rischio di ulteriori problemi di insolvenza dei paesi esportatori di manufatti e di materie prime. L’intervento a sostegno delle imprese dovrà accompagnarsi a una riorganizzazione dei sistemi industriali di tutti i paesi, difficile e costosa sul piano economico e sociale. Per quanto riguarda le famiglie, partendo da una situazione di distribuzione del reddito già particolarmente sfavorevole, si troveranno a confrontarsi con un maggior rischio di disoccupazione e con un futuro pensionistico incerto (in alcuni paesi, come gli Usa)

Il ruolo dello Stato

Allo Stato è oggi chiesto di intervenire contemporaneamente sui diversi fronti: finanza, imprese, famiglie. Deve continuare a sostenere il sistema finanziario almeno fino al momento in cui si riuscirà a trovare un accordo internazionale su come costruire nuove regole. Deve sostenere le imprese che stanno già entrando in difficoltà per effetto del calo (previsto e realizzato) della domanda e aiutarle nel processo di riorganizzazione. Deve sostenere le famiglie che si troveranno schiacciate da una distribuzione del reddito che le ha penalizzate negli anni novanta e duemila, dalle perdite finanziarie, dall’aumento del rischio di disoccupazione, dall’aumento del rischio sulle pensioni (in alcuni paesi), e dalla riluttanza delle imprese a fare concessioni sul piano salariale.

Va notato che la crisi ha avuto proporzioni tali da spazzare via (anche se non senza qualche fatale esitazione) (pre)concetti ideologici che sono stati una pietra miliare dello sviluppo teorico e politico recente. Le obiezioni alla strategia di intervento adottata dal governo Usa sono state marginali sebbene si trattasse di una politica che ribaltava sostanzialmente tutta la filosofia intorno alla quale era stato costruito il rapporto tra stato e mercato nei due decenni precedenti. Cosicché alla fine il governo più ottusamente liberista si è trovato a fare l’intervento più “statalista” (un termine che da solo fa emergere chiaramente il giudizio di valore sottostante) della storia degli Usa. Le banche centrali di tutti i paesi, e perfino la banca centrale europea, hanno messo in secondo ordine le preoccupazioni per la stabilità della moneta, inondando i mercati di liquidità nel tentativo di evitare il blocco completo del credito, e non potranno ragionevolmente esimersi dal sostenere i rispettivi governi nelle loro azioni di salvataggio del sistema, che si rifletterà inevitabilmente nei bilanci pubblici. In sostanza è l’intero modello di sviluppo degli ultimi venti anni di tutto il mondo occidentale e, in primo luogo degli Stati Uniti, che è messo in discussione dalla crisi.

Le vie di uscita dalla crisi

Il problema dell’uscita dalla crisi è dunque un problema eminentemente politico. I tempi della recessione saranno tanto più lunghi quanto meno saranno chiari i termini della crisi ai dirigenti politici occidentali e quanto meno coraggiose saranno le loro politiche di intervento. Le vie devono necessariamente essere complesse e convergenti. Le banche centrali stanno tagliando aggressivamente i tassi di interesse. Ma non si può pensare che possano bastare interventi di breve periodo quali l’abbassamento del tasso di interesse.

L’uscita stabile dalla crisi presuppone una ripresa sostenibile della domanda e questo può essere ottenuto solo ridando capacità di spesa alle famiglie dei ceti medi e medio-bassi. Si rende necessario dunque un riequilibrio nella distribuzione del reddito, innanzitutto negli Stati Uniti, dato il loro peso nella domanda mondiale, ma anche in Europa, che non ha più le dimensioni per potersi permettere di basare la sua crescita sull’export led. Politiche, come già rilevava Keynes negli anni trenta, difficili da perseguire per le resistenze che i gruppi forti di interesse tendono a mettere in atto.

Ma, nell’immediato, lo spettro della crisi reale, e delle sue conseguenze sociali oltre che economiche, può essere esorcizzato solo attraverso l’intervento dello Stato, che non può aspettare i tempi della politica. Paradossalmente la situazione negli Usa, resa più drammatica dalla mancanza di una rete di protezione sociale, potrebbe costringere la politica a tempi più rapidi di reazione, con l’adozione di politiche più energiche e coraggiose rispetto all’Ue, dove il sostegno garantito dal welfare (o dalla famiglia) potrebbero rendere meno drammatica la crisi e dunque meno impellente il sostegno alle famiglie (rispetto a industria e finanza). Negli Stati Uniti il dibattito si è già avviato, fra chi sostiene di intervenire attraverso riduzioni fiscali e chi invece ritiene indispensabile ricorrere a trasferimenti di reddito che si traducano più rapidamente e con maggiore probabilità in spesa (come i sussidi alla disoccupazione, tessere annonarie, e spesa pubblica in infrastrutture).

In Europa la speranza è che si metta in moto un processo relativamente rapido di riforme che possa costituire un punto di riferimento capace di aggregare consenso e rendere più agevole il superamento dei problemi che si porranno all’interno dei singoli paesi. Problemi legati al fatto che il ripensamento (se non l’abbandono) di paradigmi culturali consolidati nel corso di oltre venti anni (e passati ormai anche nel “senso comune”) non può che essere molto faticoso, e che gli interessi particolari hanno sempre avuto una forte capacità di resistenza.

 

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