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Lampi sul Golfo del Messico
Lo scorso anno per un paio di mesi, quando il petrolio, inarrestabile, sgorgava dal fondo del mare, la macchia nera ha turbato le coscienze. Erano in discussione: l’ambiente contro i modelli opulenti; il diritto pubblico di fronte alla forza delle multinazionali. Anticipiamo stralci di uno scritto più ampio in via di pubblicazione.
La Bp story, la vicenda che prende nome dalla Bp, terza impresa petrolifera mondiale, obbliga a riflettere quanto sia importante e al tempo stesso pericoloso estrarre petrolio al giorno d’oggi, quali regole esistano, più o meno rispettate, quante tecniche, quante conoscenze teoriche e pratiche e quanti capitali siano coinvolti e come siano potenti e ricche di storia le compagnie del settore.
L’industria del petrolio ha causato nel corso del 2010 un incidente di notevole rilievo nel Golfo del Messico. Era il 20 aprile 2010. Una piattaforma semigalleggiante in mare aperto si è incendiata ed è affondata due giorni dopo. Sono morti 11 lavoratori e nelle settimane seguenti un forte quantitativo di petrolio si è disperso in mare, forse 5 milioni di barili di greggio, con catastrofiche conseguenze sull’ambiente marino e lungo le coste di Louisiana e di altri stati degli Usa. Il grande quantitativo di dispersanti chimici e di barriere plastiche che sono stati utilizzati per ridurre i danni causati dal petrolio fuoriuscito dal pozzo ha aumentato l’inquinamento.
Alle origini dell’incidente vi sono comportamenti umani: attività, scelte, omissioni, errori; nient’altro: nessuna tragica fatalità. Cinque anni prima in quell’area, contro quella costa, si era scatenato l’uragano Katrina, del tutto naturale, anche se le conseguenze si sono moltiplicate per altri errori umani, egoismi, ignoranza e politica meschina, senza alcuna possibile mitigazione. Nel 2008 con effetti minori e pur sempre naturali, altri due uragani, Rita e Ike; nel 2009 un altro uragano, Ida, entrerà di sfuggita nella storia del disastro umano del 2010, per sempre collegato alla sigla Bp.
Il Rapporto al Presidente degli Stati Uniti, preparato da una Commissione ad hoc bipartisan, rifà anche questo breve ruolo dell’uragano Ida nella vicenda. “in un primo tempo non toccò a Deepwater Horizon il compito di scavare Macondo. Un’altra piattaforma gigante, Marianas, aveva iniziato il lavoro il 9 ottobre 2009, raggiungendo i 9.000 piedi sotto la superficie dell’Oceano (4.000 piedi sotto il fondo del mare) con altri 9.000 piedi da scavare per raggiungere la pay zone o zona utile (il giacimento di petrolio e gas) quando il 9 novembre l’uragano Ida colpì con tale violenza l’attrezzatura da costringerla a dirigersi verso riva per riparazioni”. Macondo è il nome del pozzo scavato da Bp nel mare molto profondo. (…) Appena possibile, calmatesi le acque mosse da Ida, toccò dunque a Deepwater Horizon di sostituire Marianas ed essere pilotata in quel lotto del mare.
Nel caso di Deepwater Horizon, il nome della piattaforma che prese fuoco e si inabissò e del connesso pozzo Macondo che buttò in mare milioni di barili di greggio, c’è in primo luogo una responsabilità pubblica. Per un quarantennio la ricerca d’idrocarburi, soprattutto petrolio, in mare è stato un fondamento della politica energetica degli Usa. Ogni “Progetto Indipendenza”, per l’energia, da Nixon in poi, ha puntato molto sulle tecniche di estrazione dal mare, in acque sempre più profonde, sempre più lontano dalle coste. È una conquista “spaziale” che entra nel mito americano e si affianca all’altra, quella della luna e più in là ancora. Affronta difficoltà diverse, ma è molto simile nella prima retorica del paese, la conquista del West; e se possibile è ancora più “americana” dell’altra, visto che è fatta da privati, si paga da sé e offre profitti. Anzi, la concessione di spazi di mare per la ricerca e l’estrazione di greggio ed eventualmente di gas, dà allo stato federale lauti introiti che in piccola parte sono riversati sugli stati rivieraschi. Il governo, in via d’ipotesi, dovrebbe imporre regole severe e garantirne il rispetto; ed è previsto che sia così. Sono però le stesse persone, la medesima organizzazione a disporre tanto delle concessioni a pagamento quanto dei controlli e qualcosa finisce per sfuggire. I funzionari, di fronte alle multinazionali del petrolio, collaborano, più che giudicare e correggere. Trovare una sacca di petrolio è un’impresa formidabile. C’è gloria (e carriera) per tutti.
L’isola galleggiante è alta cento metri, viene da lontano, il suo affitto costa mezzo milione di dollari al giorno; i servizi e la manutenzione costano altrettanto. L’attività che vi si svolge è molto complicata ed è condotta da personale di compagnie diverse, con diverse conoscenze e abilità che si dovrebbero integrare. C’è però, nel caso del disastro al largo della Louisiana, un responsabile principale ed è la compagnia petrolifera che ha preso in concessione l’area, ha affittato l’attrezzatura e acquistato i servizi di altre compagnie per poi costruire il pozzo, armarlo, metterlo in condizione di operare e in seguito, dotata di molti poteri effettivi, si è assunta la responsabilità di tappare il pozzo Macondo – e ha commesso una serie di errori nel farlo – riuscendovi solo dopo molti tentativi infruttuosi, ricoperta di tutti i rimproveri della Casa bianca e degli ambientalisti. In questo caso, come si è anticipato, è la compagnia inglese Bp ad avere il ruolo di protagonista. Bp compete con Shell, un’altra compagnia europea, nel gestire le attività più rilevanti nel Golfo del Messico, ha un record d’incidenti e disastri, a terra e in mare, in quel distretto petrolifero. Essa è anche la compagnia che offre agli azionisti i risultati più brillanti e che per ottenere i profitti preventivati non guarda tanto per il sottile sulle questioni di sicurezza.
Una rapida ricostruzione dello scoppio, l’incendio e l’affondamento della piattaforma Deepwater Horizon, delle cause e delle conseguenze, verte dunque su due temi principali: quel che ha fatto, disfatto, omesso di fare la compagnia petrolifera Bp; e di fianco, quel che ha fatto, disfatto, omesso di fare il governo americano in relazione alla ricerca e produzione di petrolio in mare. Poi c’è la fase di intervento per fermare la fuga di petrolio e ridurne le conseguenze; e anche nel corso di queste lunghe settimane Bp e governo americano si sono fronteggiati.
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La piattaforma Deepwater Horizon brucia per 48 ore e poi s’inabissa nel Golfo del Messico. È il 22 aprile. A poco a poco la guardia costiera, la popolazione a riva, gli ambientalisti, l’opinione pubblica, il mondo politico, il mondo intero, si rendono conto dell’entità del disastro. Non è soltanto un incidente in un impianto petrolifero che ha provocato morti e feriti. Il petrolio esce dal pozzo in modo inarrestabile, in quantità sempre crescenti. È una forza della natura che ha causato la distruzione di un ecosistema impareggiabile. Dapprima corre voce che ogni giorno sfuggano dalle viscere della terra e salgano in superficie 1.000 barili di petrolio. Poi la macchia oleosa è sempre più larga e la valutazione cresce a 5.000 barili il giorno. I rimedi falliscono, il petrolio tocca la riva, si contano i danni, i posti di lavoro perduti, si fa un quadro disarmante per l’imminente stagione turistica, per i futuri uragani. Si parla di 10.000 barili, poi si raddoppia quella valutazione, poi la si moltiplica ancora. Alla fine, secondo conteggi sempre più accurati, tenendo conto del diametro del tubo rotto, del tempo e della spinta del greggio e poi della dimensione della macchia sulla superficie del mare, si stabilisce autorevolmente che saranno usciti 60 mila barili ogni giorno, per un totale di 5 milioni di barili. E la valutazione è ormai acquisita. Il 3 agosto, quando Bp riesce a chiudere il pozzo e a bloccare la fuoriuscita di greggio è sfiorato il record assoluto nella categoria sversamenti. Ha fatto più danni al mare solo la prima guerra all’Iraq.
Tra Bp, considerata responsabile del disastro e l’amministrazione di Washington, soprattutto la Casa bianca, comincia subito un braccio di ferro. Bp vuole agire da protagonista nel bloccare la fuoriuscita di petrolio, e poi puntare alla riconoscenza della nazione nel disastro, mentre Obama vuole un colpevole subito: in questo rappresenta il desiderio di giustizia della popolazione. I ritardi e le incapacità dell'amministrazione Bush di fronte a Katrina non si ripeteranno.
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Il tentativo del presidente è generoso ma manifestamente fragile. La sua giusta critica a Bp è indebolita dal fatto che al momento di operare qualche rimedio le scelte e l’attività relativa sono tutte di nuovo affidate alla multinazionale petrolifera che in sostanza ha il controllo sul mare e sulla costa. Decide come bloccare la perdita e come disperdere o raccogliere il petrolio fuoriuscito. Decide quali imbarcazioni possano avvicinarsi alla zona inquinata, dispone d’un corpo di guardia in mare e sulla spiaggia; tratta con i pescatori e gli operatori turistici della zona: assume insomma i pieni poteri. Tutti i reportage dall’area del Golfo sono concordi su tale valutazione.
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C’è infine il Rapporto al presidente che racconta tutta la vicenda, spiega il petrolio e i disastri, le paure e le speranze e indica la via da seguire: caro Presidente, cari Presidenti, «la trivellazione in acque profonde non deve essere abbandonata». Per molti decenni – il Rapporto insiste – petrolio dai mari profondi costituirà una quota importante dell’offerta domestica di energia, dal momento che da là sotto si ricava un terzo della produzione complessiva. Il picco nella produzione a terra è stato raggiunto nel 1970 e il Rapporto lo ripete; nei mari profondi invece la stima delle riserve è pari a 85 miliardi di barili, più di quanto rimanga sottoterra o sotto le acque poco profonde.
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Un sistema complicato, l’offshore ma indispensabile: per la sicurezza nazionale e per la bilancia commerciale; per le automobili e per l’american way of life, tanto legata al petrolio. Poco rimane da dire e poco si dice sulle questioni ambientali, su un povero mare inquinato, sulle coste dilapidate, su una politica dell’energia diversa, fatta di risparmio sui consumi, energie alternative, attenzione al riscaldamento globale. Ma al diavolo il clima, l’ambiente, al diavolo anche il petrolio! Quello che conta è la conquista dello spazio, quello esterno e anche quello profondissimo, l’ultima gloria americana.
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