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La crisi di legittimazione della Ue
La crisi finanziaria si è via via trasformata in una crisi democratica di legittimità delle istituzioni della unione stessa. E un gruppo di decisori chiuso, autoreferenziale e non democraticamente controllato ha assunto un peso sempre maggiore a livello anche domestico
Movimenti sociali hanno da tempo espresso il loro sostegno per un’altra Europa. Il loro quasi unanime sostegno al No alle proposte della Troika al referendum in Grecia dice molto delle ripetute frustrazioni della speranza di costruire una Europa sociale e dal basso. Infatti, le proteste contro l’austerity hanno affermato, sempre più chiaramente ed esplicitamente, che l’evoluzione dell’Europa sta andando nella direzione opposta: sempre più un’Europa dei mercati (finanziari) e sempre più una Europa in cui istituzioni non responsabili democraticamente fanno ricorso al ricatto e alla paura per imporre decisioni impopolari. La loro diagnosi sulle responsabilità della UE converge con i risultati di molte ricerche recenti che indicano come la crisi finanziaria si sia trasformata in una crisi democratica di legittimità delle istituzioni della unione stessa.
Innanzitutto, la crisi è stata affrontata a livello europeo attraverso l’imposizione di decisioni da parte di istituzioni sempre meno trasparenti – il parlamento ha visto la sua visibilità ridursi fino a scomparire mentre hanno acquistato potere burocrazie e gruppi informali (dalla Banca Centrale Europea alle varie istituzioni economiche e finanziarie), poco controllabili democraticamente e addirittura in alcuni casi privi di regole di funzionamento interno. Un gruppo di decisori chiuso, autoreferenziale e non democraticamente controllato ha assunto via via maggior peso a livello non solo europeo, ma anche locale, accrescendo il deficit democratico. La Banca centrale Europea, voluta indipendente da controlli democratici, e le tecnocrazie Ecfin, vincolate a visioni monetariste hanno acquisito enorme potere grazie alla capacità di decidere se creare moneta e come distribuirla.
Decisioni, prese in modo ben poco trasparente, sono state poi imposte su governi democraticamente eletti, che hanno così perso sovranità. Ciò è avvenuto soprattutto in Irlanda, Portogallo, Grecia e Cipro, costrette a firmare, in cambio di prestiti, memoranda con dettagliatissime indicazioni sulle politiche di austerità da adottare. Ma come è avvenuto anche in Italia e Spagna, che pur non essendo entrate in procedure di prestito straordinarie, sono state costrette a una adesione preventiva a dure misure di riduzione della spesa pubblica, attraverso piani di tagli al welfare, deregolamentazione del mercato del lavoro, privatizzazioni e tassazione indiretta.
Nel processo di gestione della crisi, la UE ha ulteriormente ristretto la dialettica democratica tra governo e opposizione, esplicitamente richiedendo che – come in Irlanda o Portogallo – tutti i partiti principali accettassero le misure di austerità imposte loro in cambio di prestiti. Nella stessa direzione, la Ue ha favorito governi così detti tecnici (come in Italia e Grecia) sostenuti da grandi coalizioni, con l’effetto di una crisi profonda di interi sistemi di partito, incapaci ormai di rappresentare i loro cittadini e incapaci al tempo stesso di politiche efficaci.
Le politiche orientate al libero mercato contro misure di protezione sociale sono state inoltre imposte con un esplicito rifiuto di un negoziato equo tra le parti sociali. Sotto la minaccia – spesso esagerata ad arte – di un default, è stato chiesto infatti ai sindacati di accettare politiche di liberalizzazione e deregolamentazione, che affermano una logica di mercato in aree prima protette. Quando i sindacati si sono opposti, l’indicazione delle istituzioni europee ai governi nazionali è stato di procedere senza e contro i rappresentanti dei lavoratori. In questo senso, la Ue è intervenuta rispetto al potere dei vari gruppi e classi, premendo per politiche ostili sia ai lavoratori che ai ceti medi.
In questo processo, dalle politiche monetarie il potere decisionale delle istituzioni europee si è sempre più esteso alle politiche finanziarie e, quindi, a quelle sociali. Non a caso, trasformazioni istituzionali emerse durante la crisi, ma destinate ad avere effetto di forte limitazione sulla spesa sociale nel lungo periodo, sono andate nella direzione di accrescere il potere di imposizione di probità fiscale, attraverso un controllo non solo sul raggiungimento di alcuni parametri, ma anche sui modi con cui raggiungerli. In questa direzione sono andate le misure contenute nei così detti Six-Pack, Fiscal Compact e Two-Pack che hanno aumentato enormemente le capacità di controllo e implementazione delle istituzioni europee verso gli stati membri, a prescindere dalle loro condizioni economiche e di bilancio. Così, nel dicembre 2011, il Six-Pack ha accresciuto la estensione e la forza del controllo così come il potere di sanzione verso gli stati membri, specialmente se appartenenti alla Eurozona. Nel 2012, il Fiscal Compact ha imposto misure ancora più stringenti, incluso l’obbligo per gli stati membri di discutere con commissione e consiglio europeo ogni maggiore riforma di policy con potenziali effetti sul bilancio pubblico. Infine, nel 2013, il Two-Pack, ha ulteriormente accresciuto la capacità di sorveglianza ed implementazione, attraverso tra l’altro una sorveglianza preventiva dei bilanci nazionali da parte di Ue e Euro gruppo.
Questi sviluppi non solo hanno effetti sui movimenti sociali in tempo di austerità ma rischiano anche di rimanere sfide permanenti alle domande di politiche sociali anche in futuro. Se i piani di aggiustamento strutturale nel sud del mondo erano presentati come temporanei, la svolta verso una Ue sempre più orientata al mercato e sempre meno ai diritti dei cittadini dell’Unione è stata strutturata in procedure decisionali e istituzioni destinate a durare. Questo vuol dire anche che, se 15 anni fa, la Ue presentava per i movimenti sociali progressisti un misto di opportunità e sfide, che premiavano strategie di pressione multilivello, oggi e per un prevedibile futuro le istituzioni europee diventano un target inevitabile quanto difficile da influenzare piuttosto che un potenziale alleato. La consapevolezza di questa evoluzione può spiegare perché, mentre all’inizio della grande recessione la protesta era rimasta prevalentemente domestica, la mobilitazione per un No al referendum in Grecia si è espressa in tutta Europa. Se sicuramente le proteste sono state mosse da solidarietà verso le sofferenze del popolo greco, vi è però anche una crescente consapevolezza della importanza di questa battaglia per la giustizia e la dignità di tutti i cittadini europei.
il manifesto 6 luglio 2015
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