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La politica diletta e la green economy

17/05/2013

L'ecologia dovrebbe essere la politica principale dei prossimi dieci anni, per non distruggere, oltre al capitale umano e sociale, anche il capitale naturale del nostro paese. Pubblichiamo il testo dell'intervento al convegno di Napoli del 10-11 maggio "Gli operatori sociali dentro la crisi"

Sono convinto che voi ne sappiate più di me di economia e di società, e proprio per questo sono venuto qui, per imparare qualcosa: fatti reali, sprazzi di vita. Al contrario di altri ho però avuto il compito e l’opportunità di dedicare un po’ di giorni per riflettere sull’economia e poi riferire quel che mi era sembrato importante. Per spirito di servizio ho cercato di farlo. Ho capito che l’Europa è un bell’intrigo e l’euro anche. Questa è una novità assoluta per i nostri secoli: una moneta fortissima ma senza sovrano. Il mio intervento avrebbe dovuto completare quelli ben più rilevanti di Carlo Donolo e Francesco Ciafaloni. Anche per sentire loro sono arrivato qui. Di Donolo ho gli appunti molto completi sui quali egli avrebbe sviluppato l’intervento a braccio. Un volonteroso o una volonterosa potrebbe leggerli; Donolo sarebbe contento. Altrimenti, peggio per lui.

A me tocca tornare alla moneta fortissima che assedia un paese assai debole. Un fatto che provoca serie conseguenze per i cosiddetti paesi Piigs, cioè quelli della fascia povera del continente. Da molte stagioni, ormai da anni, non si parla d’altro. L’Europa ricca ha deciso con il consenso e l’appoggio della triplice costituita da Bce, Fondo monetario e Commissione di Bruxelles di mettere in riga gli sperperatori, i falsari, i debitori incontinenti. Ci sono tre regole d’oro da rispettare: un deficit annuo massimo non superiore al 3% del prodotto interno lordo o Pil, un debito massimo pari al 60% del Pil, l’obbligo di rientrare dal superamento del debito massimo ammesso per mezzo punto percentuale ogni anno, fino al raggiungimento di quel massimo consentito. Ne deriva una situazione assai grama, in qualche modo simile a quella dei paesi indebitati del Sud del mondo negli anni ottanta e novanta del secolo scorso. Allora era il Fondo monetario, adesso è “l’Europa” a comandare. L’Italia deve ridurre l’indebitamento annuo e quindi la spesa in deficit non le è consentita, non può fare grandi investimenti pubblici keynesiani, diretti o indiretti. Per ridurre il debito, non potendo aumentare la produzione e il Pil deve risparmiare altri 40 o 50 miliardi all’anno, per quindici o venti anni. Con meno investimenti, tagli nelle pensioni e negli stipendi pubblici, il risultato è quello di tentare di portare al pareggio un paese esausto con ancora più disoccupati, in particolare delle giovani generazioni.

Dopo aver fatto questo quadro, gli economisti sgomenti francesi, autori di una serie di libri diffusi in Italia da Sbilanciamoci in rete (old.sbilanciamoci.info/ebook) e da Minimum fax in libreria, suggeriscono una serie di misure alla portata di ogni paese non spaventato e capace di fare alleanze con altri paesi, come la Francia. Dodici semplici passi, in tutto, quasi una lezione di ballo. Passo 1) Disarmare i mercati finanziari (a partire dai derivati). 2) Far garantire i debiti pubblici dalla Bce con titoli al 2% a 10 anni. 3) Rinegoziare i tassi eccessivi (come quelli imposti ai comuni italiani). 4) Farla finita con la concorrenza fiscale tra gli stati. 5) Vietare a banche e imprese l’uso dei paradisi fiscali. 6) Separare le banche di deposito o commerciali dalle banche d’affari. 7) Far nascere banche pubbliche, incanalandovi il risparmio delle famiglie. 8) Avviare la transizione ecologica con fondi raccolti dalle banche pubbliche del punto precedente. 9) Costruire un bilancio europeo con tanto di Tobin Tax e fiscalità ecologica. 10) Mettere in moto l’Europa: in agricoltura con un buon uso del Pac, nella finanza, nella politica industriale, verso un’Europa sociale. 11) Ridurre lo squilibrio attraverso un coordinamento europeo. 12) Scrivere un trattato europeo che abbia la democrazia come obiettivo centrale. Qualcuno dirà che non è un programma efficiente, ma è provato che neppure quello corrente lo è; quello dei francesi sgomenti almeno ha una faccia sorridente, è meno rancoroso e potrebbe perfino funzionare. Un libro dei sogni, o meglio un libro della speranza, come avrebbe detto il nostro amico Guido Martinotti.

La fase di costruzione del nostro governo ha lasciato molto a desiderare. È prevalsa la scelta della governabilità, difficile da raggiungere e se ne è pagato un prezzo elevato. Sono riapparse vecchie abitudini, gelosie e paure che sembravano sopite. In conclusione, Enrico Letta ha fatto un lungo discorso presentando il suo governo alla Camera dei deputati (e dandolo per letto al Senato), ma non ha convinto. Ha parlato di Europa e debito, di leggi elettorali, di banche e finanza – le offerte vantaggiose di un catalogo – ma ha solo sfiorato temi qualificanti; forse non poteva spingersi troppo in là o forse non li conosceva. A nostro avviso il discorso era carente soprattutto in tema di ambiente e compagnia bella, visti piuttosto come un intralcio nel cammino della grande politica. La grande politica è estranea, a noi che stiamo parlando, certo non a voi che ascoltate, mentre l’ambiente lo abbiamo a cuore. Ne vorremmo trattare nella parte finale di questo intervento.

Né mitigazione, né adattamento esistono per Letta, come non esiste – o se esiste, conta poco – la green economy. I relativi passaggi, molto brevi e superficiali, sono soltanto due: oltre all’alta tecnologia bisogna investire risorse su ambiente ed energia. E questo in sé non è sbagliato, ma troppo poco. E come investire? Così: “Le nuove tecnologie – fonti rinnovabili ed efficienza energetica – vanno maggiormente integrate nel contesto esistente, migliorando la selettività degli strumenti esistenti di incentivazione, in un’ottica organica con visione di medio e lungo periodo. Sempre con riguardo ai settori energetici, va completato il processo di integrazione con i mercati geografici dei paesi europei confinanti. Questo implica, per l’energia elettrica, il completamento del cosiddetto market coupling e, per il gas, il completo riallineamento dei nostri prezzi con quelli europei e la trasformazione del nostro paese in un hub. È chiaro che episodi come quello dell’Ilva di Taranto non sono più tollerabili.
L’altra grande risorsa è l’Italia stessa. Bellezza senza navigatore. La nostra tendenza all’autocommiserazione è pari solo all’ammirazione che l’Italia suscita all’estero. Molti stranieri vogliono bagnarsi nei nostri mari, visitare le nostre città, mangiare e vestire italiano. L’Italia e il made in Italy sono le nostre migliori ricchezze. È per questo che uno dei primi atti del governo sarà quello di nominare il Commissario unico per l’Expo, una grande occasione che non dobbiamo mancare. A questo fine nei prossimi giorni sarò a Milano a presentare il decreto per partire per l’ultimo miglio di questo evento strategico….
Per questo dobbiamo rilanciare il turismo e, soprattutto, attrarre investimenti. Rimuoviamo quegli ostacoli che fanno sì che l’Italia per molti non sia una scelta di vita. Questo significa puntare sulla cultura, motore e moltiplicatore dello sviluppo, o sulle straordinarie realtà dell’agro-alimentare. Questo significa valorizzare e custodire l’ambiente, il paesaggio, l’arte, l’architettura, le eccellenze enogastronomiche, le infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali e aeroportuali.”

Cosa pensa il presidente del consiglio dell’Ilva di Taranto? Perché non è più tollerabile? Non viene detto. È il massimo dell’ambiguità, oppure è la semplice affermazione di essere al corrente che vi è un problema; lo statista per definizione sa tutto, sa che Taranto esiste. Poi c’è l’Italia tutta come hub del gas: una risorsa per l’Europa. Un problema è anche l’expo di Milano; un problema che emerge, il rischio di mostrare poca efficienza; insomma un problema di calibratura politica, una possibile cattiva figura con gli stranieri e i visitatori; oltre all’expo c’è il turismo consapevole e poi una macedonia di paesaggio, arte, eccellenze enogastronomiche e infrastrutture trasportistiche. Parole imprecise e generiche al punto che potevano essere usate, in vari contesti anche 10 o 20 o 30 anni in ogni sorta di discorso d’occasione.

Abbiamo visto che l’obiettivo della politica lettiana o se preferite diletta (la politica diletta) è la riduzione del disavanzo pubblico; l’ambiente non è cccosa… Monti ha solo cominciato, ora bisogna proseguire; non conta che ci sia stato, l’anno scorso in aprile, un voto compatto dei Parlamento, tanto compatto che non è neppure servito il referendum necessario in caso di modifiche alla Costituzione con maggioranze ridotte. L’Europa ha ottenuto che il Fiscal compact diventasse legge, che entrasse perfino nelle Costituzioni, all’articolo 81 nel nostro caso. Ammettiamo pure che la riduzione del disavanzo sia un compito decisivo per una parte degli italiani, ma anche se tra Fiscal compact e Spending review forse alla fine il disavanzo si riduce, il paese ha di certo sacrificato il suo modesto benessere. L’Italia è più povera di vent’anni prima e non ha prospettive di migliorare. Qui occorre tenere presente che il disagio e la povertà non sono distribuiti equamente. Nove impoveriscono per uno che arricchisce come spiega Mario Pianta nel suo libro “Nove su dieci”. E se fosse poi l’uno a muovere tutto per arricchire alle spalle degli altri? Ma questo è pensar male, ormai non c’è più nessuno in Italia che lo faccia. Un pensiero alternativo esiste, non solo presso i francesi sgomenti. Obiettivi determinanti del benessere – spiega per esempio Jean-Paul Fitoussi, l’economista francese (intervistato da Valeria Gentili e Toni Federico) incaricato dall’allora presidente Sarkozy insieme ai premi Nobel Amartya Sen e Paul Krugman di ragionare sulle indispensabili modifiche al Pil – “sono l’educazione, il lavoro decente e l’occupazione... Anche l’ambiente conta, perché l’ambiente incide sull’inquinamento e sulla salute delle persone e c’è, in materia sociale quello che chiamiamo il ‘capitale sociale’”. E ancora: “Nella ricchezza globale della nazione ci sono il capitale economico, il capitale sociale e il capitale naturale: Se volendo assicurare la sostenibilità del debito pubblico, noi diminuiamo le altre componenti della ricchezza della nazione, allora perdiamo”. Con le politiche attuali, dettate dall’Agenzia delle entrate o da chi dispone di lei, dal vincolo strettissimo agli investimenti pubblici, delle amministrazioni centrali e periferiche, dal giuramento antikeynesiano, contro il deficit spending, il risultato certo è che oltre al capitale umano e quello sociale stiamo distruggendo anche il capitale economico per via delle imprese che chiudono; ma distruggiamo o lasciamo distruggere anche il capitale naturale “perché non abbiamo i soldi per ‘riparare’ l’ambiente, per fare gli investimenti necessari a mantenere il livello dell’ambiente attuale”.

Nell’intervista che stiamo saccheggiando, Fitoussi fa altre osservazioni pungenti. Quando il 40% dei giovani non lavora, “il futuro è oscurato” perché essi non avranno mai le competenze per sostituire i padri. Di solito si ripete che i poveri figli saranno più poveri di noi, loro padri avidi e sconsiderati. Qui ci è suggerito un altro effetto, forse più grave ancora. Quella che seguirà sarà una generazione più ignorante che non avrà avuto modo di imparare a fare le cose. Infine ci viene suggerito che noi stiamo andando verso “almeno un decennio perso”. Il Giappone ha fatto anche di più. Ha perso venti, trent’anni dietro la sua ambizione finanziaria, ma ora ha deciso di cambiare strada e ha ricominciato a investire di nuovo. Il rischio di un decennio perso è nel disagio e nelle sofferenze della popolazione, ma soprattutto è un rischio per la democrazia, perché “la disoccupazione di massa è qualcosa che mette fine all’eguaglianza della gente davanti al voto”.

Vi sono dunque tre obiettivi cui si può mirare per dare credito alla green economy: la sua irruzione scioglie l’economia dell’austerità e del Fiscal Compact in un’altra, diversa, quella dello sviluppo sostenibile. È difficile negare che convenga finanziare, con capitali pubblici o anche privati investimenti, attività che puntellino produzione e scambi. Il risultato sarebbe quello di evitare fallimenti e sostenere il lavoro in un vero e proprio circolo virtuoso. Inoltre sarebbe vantaggioso mitigare, cioè ridurre le conseguenze, l’effetto dei possibili danni ambientali o adattarsi ad essi, (se si fa il caso di incidenti stradali frequenti da evitare in un certo nodo stradale, la mitigazione è porre un limite di velocità e semafori, mentre l’adattamento sono le cinture obbligatorie e gli air bag) con una protezione civile molto ben attrezzata. Anche prevedendo gli ormai frequenti eventi, ritenuti in passato impossibili alla latitudine italiana e in genere nel Mediterraneo, potremmo affrontare gli eventi avendo fatto tutto il possibile per limitarne gli effetti. A questo obiettivo se ne collega un altro, molto importante, dati i tempi: l’intervento sui guasti atmosferici e naturali, nel territorio e nelle città, comporta un elevato numero di competenze, di addetti, professionisti ambientali e operatori alle macchine: trattori, scavatrici, elicotteri e così via. Dovremmo tutti essere convinti che le assunzioni in attività di green economy sono preferibili al pagamento di casse integrazioni in deroga. C’è infine un altro aspetto decisivo. Come spiegava Fitoussi vi è un problema di democrazia. Qualche anno di disoccupazione a livello di massa, in particolare tra le generazioni più giovani, metterebbe a rischio il sistema democratico nel nostro paese per l’insostenibilità politica e l’intollerabile ineguaglianza che si verrebbe a creare “davanti al voto”.

Le associazioni ambientaliste senza esclusioni politiche o di specificità (Grenpeace, Legambiente, Wwf, Fai, Cai, Touring Club italiano) si sono date da fare e insieme hanno preparato a fine anno un documento per un confronto con i partiti al momento delle elezioni. Esse, ciascuna nel proprio ambito, sono tutte convinte che i “dieci anni perduti” che preoccupano Fitoussi riguardano ciascuno di noi. C’è molto da fare per tenere in piedi la baracca: individuare i problemi principali, che riguardano la sopravvivenza stessa della comunità nazionale e sono più gravi dello spread e vanno affrontati in modo diverso; e fare propaganda per convincere una maggioranza che essi esistono e che li si deve affrontare. La maggioranza vera è poi quella che due anni fa, nel giugno del 2011 ha vinto i referendum dell’acqua e del nucleare (e del legittimo impedimento, contro Berlusconi). Le associazioni hanno fatto avere ai partiti un loro promemoria e hanno anche chiesto un incontro con ciascun partito. Gli incontri si sono svolti tra gennaio e febbraio 2013, a ridosso delle elezioni. Il documento e il risultato degli incontri non sono stati diffusi, ma non sono segreti. Vale la pena di parlarne.

Il titolo prima di tutto: “Elezioni nazionali 2013 L’appuntamento mancato con la Ri/Conversione ecologica del Paese”. Le associazioni affermano orgogliosamente di parlare a nome di un milione di loro associati. “Dai programmi elettorali esaminati dalle associazioni emerge che: 1. Non assume centralità la grave crisi provocata dai cambiamenti climatici che impone scelte radicali di azzeramento delle emissioni in tutti i settori e nel modello produttivo, nonché nelle strategie di adattamento; 2. non emerge una consapevolezza sui servizi eco sistemici garantiti dalla tutela della biodiversità; 3. non ci si pone con urgenza la questione degli indirizzi della nuova politica industriale e della riconversione post-industriale; 4. non si affronta il problema di come calcolare e valutare la ricchezza della nazione attraverso la declinazione di nuovi indicatori di benessere che superino il Pil; 5. non si fa cenno a come si pensi di intervenire per adeguare il corpus dei diritti e dei delitti ambientali; 6. non ci si sofferma sulla cronica e ormai patologica inadeguatezza della governante ambientale, dipendente in buona parte dalla progressiva liquidazione del ministero dell’Ambiente avvenuta negli ultimi cinque anni.”

Dopo questa premessa le associazioni sviluppano un loro programma in dodici punti che si possono così riassumere: new “Green Deal”: la speranza per il futuro dell’Italia; biodiversità: ricchezza della nazione; il patrimonio costituito dai beni culturali; domanda di mobilità e strutture; salute e ambiente nelle scelte industriali; consumo di suolo e governo del territorio; difesa del suolo e adattamento ai cambiamenti climatici; contenuti verdi della filiera agroalimentare; turismo, sostenere le vocazioni del territorio; governare l’ambiente; diritto all’ambiente: tutela costituzionale e penale; andare oltre il Pil: nuovi indicatori di sostenibilità.

È un paese con scarse risorse energetiche e materie prime il nostro. Per di più è situato in una zona del globo a rischio per gli effetti del cambiamento climatico e l’intensificarsi di eventi estremi. Il nostro compito – dicono le associazioni che calano i loro numeri – è dunque quello di proteggerlo e di imparare in corso d’opera a farlo, inventando e imparando tecniche d’intervento da diffondere all’estero, da esportare. Tutto questo è un aspetto importante del green deal. Se l’Italia è debole nelle materie prime, primeggia in Europa per specie animali e floristiche che però è “oggi seriamente minacciato”. Gli obiettivi come la “decarbonizzazione”, l’uso efficiente delle risorse, il 100% di energie rinnovabili, la difesa delle aree naturali protette che sono 871 nel paese e coprono un decimo del territorio nazionale. Il catalogo delle nostre ricchezze continua con l’elenco di 467 musei statali e 4.232 non statali, 215 monumenti e aree archeologiche. Soprattutto è rilevante il dato “oltre l’80% dei comuni italiani più di seimila, sono sorti prima dell’anno Mille. È difficile tenere insieme tutto questo quando si viene a sapere che nel 2007 il bilancio dello stato per il Mibac (ministero beni culturali) è stato di 1.987 milioni, pari allo 0,29 del totale, mentre nel 2012 i milioni erano diventati 1.509 pari allo 0,19% del totale. L’Italia è il primo paese al mondo per auto private, 61 per 100 persone. Il traffico su gomma continua ad aumentare, e di conserva aumentano anche gli investimenti, nonostante il periodo buio. Il settore dei trasporti copre il 27% delle emissioni di gas serra. Sono 57 le aree industriali “correlate a gravi patologie e danni ambientali”. Sembrano pochi casi, ma ricoprono 550 mila ettari, oltre a 180mila ettari di mare. Esiste uno Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio d’Inquinamento (Sentieri) che ha “analizzato 400.000 decessi relativi a una popolazione complessiva di 5.500.000 abitanti ed ha evidenziato lo stretto rapporto tra alcune attività produttive e aree da bonificare con il forte incremento percentuale di alcune patologie rispetto alle medie nazionali”.

Il punto successivo mostra un altro numero che fa impressione: in Italia si realizza una conversione urbana di 75 ettari al giorno. Nei prossimi venti anni le città cresceranno di 600 mila ettari; poiché il nostro paese non è grandissimo, superando di poco i 30 milioni di ettari, le città inghiottiranno un altro 2% che verrà in gran parte coperto di cemento e di asfalto, e in futuro abitato, raggiunto dai servizi e benedetto da sanatorie successive. Un ultimo numero per completare questo catalogo delle cose da non fare più e l’altra colonna delle cose da fare, subito. Negli ultimi 60 anni 3.600 persone hanno perso la vita per frane e alluvioni: 60 in media ogni anno. A rischio idrogeologico sono 8 comuni su 10 e i disastri sono avvantaggiati dalla “generalizzata” canalizzazione dei fiumi e dalla frequente “infrastrutturazione” della rete idrografica e vengono citati: “sbarramenti, traverse, plateau, piloni per strade, superstrade, autostrade, ecc”.). Gestire il territorio è molto difficile, non fare danni quasi impossibile, data la pressione di forti interessi economici. Lungo i fiumi si asporta sabbia in vista di un’improbabile navigazione, poi si usa l’acqua dove scarseggia per prolungare con neve artificiale le stagioni sciistiche, con un “perverso spreco di acqua e un’abnorme richiesta energetica”; ma ci sono molte altre richieste da parte delle associazioni, con cui esse chiedono attenzione, mostrano quello che sono in grado di raccogliere, il contributo che potrebbero offrire a un potere meno sordo; ricordano sotto sotto alla politica che i referendum del 2011 le hanno viste in campo. Informate, attente, conosciute e riconosciute dalla popolazione. Il potere politico dei maggiori partiti fino a quel momento ha mostrato di non credere sul serio al riscaldamento globale e ha rivelato nei confronti dell’ecologia un atteggiamento riassumibile in ultima analisi in un “bellissima, peccato che non ce la si possa permettere”.

Al momento della stretta nella campagna elettorale sono poi avvenuti gli incontri delle associazioni ambientaliste con tutti partiti presentatisi alle elezioni. Le associazioni hanno steso un verbale degli incontri, abbastanza attendibile e molto significativo. I partiti considerano la politica una cosa loro; in sostanza sanno tutto, non hanno niente da imparare. Noi che abbiamo letto il verbale, che abbiamo molte speranze per il futuro del paese, abbiamo però la convinzione che i temi ecologici, il risanamento continuo del paese, l’attenzione e la difesa contro i furti di vita, dovrebbero essere la politica principale dei prossimi dieci anni. Chiunque compia i furti di vita, in vista di qualsiasi vantaggio, in ottemperanza a qualsiasi fede o ordine superiore, per bancario che sia, per liberista o pseudo liberale che sia, sempre furti sono. Se qualcuno ci tiene a guadagnare, se sa come farlo in modo corretto, senza sfruttare troppo chi lavora alle sue dipendenze, perfino la green economy può andare; può aiutare lo sviluppo, meglio se sostenibile. Dieci anni di tempo; neppure un giorno può essere sprecato.

 

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