Home / Archivio / primo piano / Banche: come prima, peggio di prima?

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Archivio

Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito

Banche: come prima, peggio di prima?

10/07/2009

Mentre i governi di Usa ed Europa arrancano nella ri-regolazione, emerge un sistema finanziario ancorapeggiore di quello precedente alla crisi. E non si affronta il nodo principale: alle banche non manca la liquidità, ma il capitale

Si materializza sempre più la possibilità di uno sviluppo degli eventi che soltanto alcune settimane fa sembrava pressoché impensabile; in altri termini, sembra ormai che il sistema bancario e finanziario, che ha prodotto guasti così profondi al mondo dell’economia, ai budget pubblici dei vari paesi, alle tasche dei cittadini, possa uscire dalla crisi tornando tranquillamente a fare più o meno quello che faceva prima, senza che siano introdotti particolari nuovi e incisivi sistemi di regolamentazione e di controllo. Il non cambiare se non marginalmente le regole porterà alla probabile conseguenza che le banche ci trascineranno verso una nuova e potenzialmente più grave crisi entro poco tempo.
E questo mentre le attuali difficoltà rimangono peraltro largamente non risolte – così, ad esempio, i dati statunitensi relativi ai livelli di disoccupazione nel paese per il mese di giugno 2009 contribuiscono a mostrare come i green shoot che annunciavano la ripresa rischino in gran parte di appassire- e mentre le banche centrali sono costrette a continuare ad iniettare ingenti risorse a basso prezzo nel sistema per cercare, quasi inutilmente, di far continuare a scorrere il credito, come mostriamo più avanti. Così, in queste settimane, la Banca Centrale Europea ha offerto al settore bancario della zona euro circa 450 miliardi di euro di nuovi prestiti ad un tasso di interesse sostanzialmente simbolico –l’uno per cento.
I segni del cambiamento
I segni del ribaltamento della situazione “politica” del settore finanziario e del ritorno alle vecchie pratiche si vanno diffondendo. Così, negli uffici della Goldman Sachs è stato detto ai funzionari di aspettarsi uno degli anni di maggiore redditività nella storia della società, mentre la Barclays sta distribuendo bonus per 730 milioni di sterline ai suoi manager e mentre si sta avviando una nuova ondata di caccia ai manager bancari più bravi esistenti sul mercato a colpi di offerte sostanziose. Intanto diverse grandi banche stanno mettendo in opera nuove e più raffinate forme di cartolarizzazione, a suo tempo uno dei punti di attacco principali della crisi.
Per altro verso, paradossalmente, non ci potrebbe essere un momento migliore di quello attuale per svolgere l’attività bancaria: i governi di molti paesi garantiscono una parte consistente dei crediti e dei debiti del sistema; così gli istituti possono tenersi in casa i profitti e continuare a scaricare sui contribuenti le perdite. Il denaro è per essi a buon mercato e possono prestare contemporaneamente i soldi in maniera calibrata a delle imprese disperate e pronte a pagare prezzi molto elevati. I governi sperano, in questo modo, che tali nobili istituzioni ritornino in salute dopo tutte le perdite incontrate. Ma questo potrà forse succedere solo nell’arco di un numero di anni abbastanza lungo e salvo ovviamente nuove sorprese che potrebbero nel frattempo manifestarsi. La crisi del sistema finanziario non si risolverà per questa via.
Intanto, i rappresentanti dell’establishment finanziario stanno contestando con molta durezza e arroganza le pur timide nuove misure che i pubblici poteri vorrebbero introdurre per governare meglio il sistema. Essi arrivano al punto di affermare che il rischio maggiore cui ci si trova oggi di fronte è quello che i regolatori reagiscano troppo bruscamente, demonizzando il settore ed affossando alla fine l’industria finanziaria che avrebbe portato tanti benefici a Londra come e New York.
In questa loro campagna mediatica essi riescono ad approfittare di varie circostanze favorevoli, tra le quali il fatto che essi negli Stati Uniti trovano delle sponde molto amichevoli nello stesso governo del paese, infiltrato di regolatori riluttanti, mentre in Gran Bretagna il timore che le nuove potenziali normative possano portare ad un ridimensionamento della City e quindi del ruolo del paese nell’industria finanziaria mondiale portano G. Brown a premere in misura rilevante e in senso restrittivo su Bruxelles, che non è certo peraltro, da parte sua, sede di audaci riformatori. Inoltre, il fatto stesso che la crisi sembri ora mostrare un volto meno allarmante riduce la volontà di intervento di molti politici: Il cancelliere dello scacchiere britannico, A. Darling, appena qualche giorno fa, ha affermato che la City rimane un immenso punto di forza del paese e che essa merita di essere protetta (Roberts, Inman, Moya, 2009). In realtà lo sviluppo della vicenda mette in rilievo come ci sarebbe la necessità di cambiare, accanto al sistema bancario, anche la politica.
Così va emergendo, nella coda della crisi, un sistema finanziario ancora per alcuni versi peggiore di quello precedente alla crisi stessa (Wolf, 2009). Le banche che sono sopravvissute rappresentano ormai, in Gran Bretagna come negli Stati Uniti, un oligopolio fatto di poche istituzioni troppo grandi e tra di loro interconnesse per fallire. Esse sono sopravvissute non perché erano le migliori, ma perché erano le più supportate politicamente (Wolf, 2009). In ogni caso, mantenere la mano leggera nella regolamentazione del sistema ha già mostrato chiaramente, con il caos degli ultimi due anni, di essere una ricetta che non funziona.
I progetti di riforma degli Stati Uniti
Comunque, abbiamo perlomeno ora a disposizione i progetti messi a punto dal governo degli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Lasciamo invece da parte come del tutto irrilevanti politicamente le proposte preparate sul tema dal nostro governo in occasione del G8 e di cui si conoscono comunque solo alcuni aspetti.
Quello varato a metà del mese di giugno da Obama ha sicuramente dei meriti; esso introduce, tra l’altro, una maggiore protezione dei consumatori per quanto riguarda i prodotti e le istituzioni finanziari attraverso la messa in opera di un’apposita agenzia e affida alla Fed compiti di sorveglianza accresciuti; in particolare, essa si occuperà di controllare la stabilità sistemica dell’area finanziaria – la crisi ha mostrato tra l’altro, in effetti, che non basta controllare i singoli istituti bancari- e dovrà monitorare l’andamento dei grandi gruppi finanziari. La proposta, poi, che le banche siano obbligate a mantenere in casa almeno il 5% dei prestiti da essi concessi, senza poterli rivendere sul mercato, introduce un principio in se giusto, ma fissa la soglia in proposito ad un livello troppo ridotto per risultare in qualche modo efficace.
D’altro canto, il progetto evita di semplificare il sistema di supervisione dell’area finanziaria, oggi affidato ad una miriade di enti, a volte in conflitto tra di loro. Il potere di resistenza delle varie lobbies appare a questo proposito troppo forte. Non si è neanche tornati alla separazione tra banche commerciali e banche di investimento, come era invece richiesto da tante parti. Non viene inoltre affrontato in maniera adeguata il problema della regolamentazione degli enti non bancari. Non viene per nulla toccato il problema della capitalizzazione delle banche – si veda peraltro su questo più avanti. Nulla viene detto sulle agenzie di rating e nulla di specifico è previsto, almeno per il momento, per i compensi al management del settore. Niente di nuovo viene indicato in tema di trasparenza delle informazioni. E si potrebbe continuare a lungo sull’analisi critica del provvedimento.
Si può quindi parlare di un progetto che fa qualche passo in avanti, ma certamente non a sufficienza.
Una menzione a parte merita lo specifico progetto di legge relativo alla nuova regolamentazione dei prodotti derivati.
Le nuove disposizioni obbligherebbero a commercializzare certi tipi di derivati, anche se comunque non tutti, solo attraverso delle clearing houses specializzate, mentre, come è noto, una gran parte di essi oggi sono negoziati in privato - "over the counter" -; richiederebbero, inoltre, che i singoli contratti derivati siano sostenuti da adeguate garanzie monetarie, mentre oggi il livello di copertura di molti contratti appare ridicolo; permetterebbero agli organismi federali di regolamentazione di controllare i mercati, per investigare su eventuali reati di frode e manipolazione. La proposta obbligherebbe, inoltre, i partecipanti al mercato a detenere dei livelli minimi di capitale; imporrebbe, infine, la tenuta di un’adeguata contabilità in proposito e obbligherebbe a mantenere degli standard informativi minimi, anche se tali standard appaiono nella sostanza insufficienti. E sino a questo punto va quasi tutto bene.
I problemi sorgono per quello che invece dalle norme non è previsto.
Così, le nuove disposizioni non richiedono che i contratti passino per delle borse pienamente regolate. Esse fanno poi una distinzione netta tra derivati di tipo standard e derivati di tipo non standard – customized -; si propone un sistema di regolamentazione più leggero per questo secondo tipo di prodotti, aprendo così le porte alla possibilità di aggirare con facilità il sistema dei controlli anche sui primi. L’amministrazione Obama ha inoltre proposto di nominare alla guida della Commodity Futures Trading Commission (CFTC), che dovrebbe governare tale mercato, Gary Gensler, che, durante l’amministrazione Clinton, è stato uno dei campioni della deregolamentazione degli stessi derivati, anche se adesso egli si proclama pentito. Non è poi chiaro se le nuove regole si applicheranno anche ai contratti in essere o solo a quelli nuovi, questione importante.
E quelli dell’Unione Europea
Ma le proposte avanzate a livello di Unione Europea sulla regolamentazione del settore finanziario sono certamente ancora meno incisive di quelle statunitensi.
Bisogna intanto considerare che nel nostro continente esistono rilevanti divisioni ideologiche tra i vari paesi su almeno due punti (The Economist, 2009): il primo riguarda il grado di libertà che dovrebbe essere lasciato ai mercati, con una netta differenza di valutazioni tra Gran Bretagna da una parte e Francia e Germania dall’altra, mentre il secondo registra una differenza tra i paesi che vorrebbero che le banche operanti internazionalmente stiano sotto il controllo di un unico ente a livello europeo e quelli che invece le vogliono mantenere sotto la supervisione delle istituzioni nazionali.
Tra le proposte specifiche avanzate c’è quella di creare un consiglio per la sorveglianza del rischio sistemico, progetto che assomiglia in qualche modo alla analoga proposta statunitense. Ma le similitudini con gli Stati Uniti si fermano qui. Tale organismo, al contrario che nel caso Usa, nasce come molto debole, senza alcun potere di intervento; si tratta chiaramente di una scelta deliberata, dal momento che le nostre autorità nazionali non vogliono perdere nessuna delle loro prerogative. Al di là di questo, ci si propone di creare delle nuove autorità di supervisione europea per le istituzioni finanziarie operanti in più paesi, ma anche questi istituti non avranno sostanzialmente alcun potere che non sia loro lasciato dalle singole autorità nazionali.
L’Unione propone poi, apparentemente in maniera meritoria, una più rigida regolamentazione degli hedge fund e dei fondi di private equity; il progetto presenta qualche motivo di interesse, ma d’altro canto esso sottopone i due tipi di istituzioni alle stesse regole per quanto riguarda le informazioni che esse devono fornire, i limiti al livello di indebitamento, ecc., ciò che non ha molto senso, trattandosi di organismi operativamente molto diversi tra di loro.
Sul fronte della regolamentazione dei derivati, di nuovo la proposta ricalca grosso modo quella statunitense e presenta quindi più o meno le stesse debolezze dell’altra.
E’ possibile ancora credere, a questo punto, che l’Europa possa avere la minima volontà di varare delle riforme incisive sul fronte finanziario, come tra l’altro aveva manifestato l’intenzione di fare in sede di G20 qualche mese fa? Quello a cui stiamo assistendo appare alla fine uno spettacolo sostanzialmente desolante, con pochi aspetti positivi.
E i flussi di credito al sistema produttivo?
Ma tutta l’indulgenza mostrata dalle autorità verso il sistema finanziario serve almeno a qualcosa, in particolare a contribuire ad accrescere il livello dei finanziamenti alle imprese e ai cittadini? Molto poco, come sottolineano ad esempio W. Buiter (Buiter, 2009) e W. Munchau (Munchau, 2009).
Le banche centrali stanno allargando a dismisura in molti paesi la massa monetaria in circolazione. Ma sia il quantitative easing – con le banche centrali che acquistano titoli emessi dal governo-, che il credit easing – con acquisti diretti da parte delle banche centrali di titoli emessi dalle imprese-, che un accresciuto supporto finanziario al sistema bancario –attraverso la provvista di prestiti garantiti al settore a tassi uguali a quelli ufficiali, come è il caso dell’ultima iniziativa della BCE sopra citata-, non stanno riuscendo a spingere le banche ad aumentare il livello dei prestiti al settore produttivo.
Ma appare per altro verso normale che questo accada, dal momento che le politiche sopra ricordate risultano in genere efficaci quando il problema cui ci si trova di fronte è quello della mancanza di liquidità. Ma la liquidità è oggi persino eccessiva e le banche rigurgitano di denaro. Il fatto è che gli istituti stanno tendendo a mantenere un basso livello di attività e di prestiti, puntando, per fare profitti, sostanzialmente sugli alti margini oggi esistenti tra tassi passivi e tassi attivi. Solo le imprese più grandi e quelle con un passato di eccellenza hanno così accesso al mercato dei capitali, mentre le aziende piccole e medie e quelle create da poco non riescono ad ottenere credito in alcun modo. Questo comporterà inevitabilmente che la ripresa, se mai ci sarà, sarà lenta ed anemica.
Il fatto è che le banche non mancano di liquidità, ma mancano invece crudelmente di capitale. Sino a che non ci saranno in qualche modo forti iniezioni di mezzi propri nel sistema e non sarà notevolmente ridotto il livello di indebitamento dello stesso i prestiti – e l’economia- non ripartiranno. Dal momento del varo del piano Paulson sino ad oggi siamo sempre allo stesso irrisolto nodo della questione.
Testi citati nell’articolo
- Buiter W., Quantitative easing, credit easing and henanced credit support aren’t working: here’s why, www.ft.com, 3 luglio 2009
- Lenzner R., Stress-testing the Obama plan for Wall Street, www.forbes.com, 20 giugno 2009
- Munchau W., Liquidity injections alone are not enough, www.ft.com, 5 luglio 2009
- Plender J., How fading political will has let banks off the hook, The Financial Times, 27/28 giugno 2009
- Roberts D., Inman P., Moya E., Return of the gravy train –did the crash really change the City at all?, www.guardian.co.uk, 24 giugno 2009
- The Economist, Divided by a common market, 2 luglio 2009
- Wolf M., The cautious approach to fixing banks will not work, The Financial Times, 30 giugno 2009

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti