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Sulla produttività l’Italia è ferma agli Novanta

20/03/2015

Workers act/Dagli anni novanta tutte le "riforme" del mercato del lavoro sono state legate a una visione neoliberista per cui il lavoro è una merce da scambiare sul mercato

Le riforme

Dagli anni novanta i governi sia di centro destra sia di centro sinistra hanno introdotto diversi cambiamenti al mercato del lavoro, in nome della competitività e dei giovani, ma nei fatti tutte le riforme sono strettamente legate a una visione neoliberista secondo cui il lavoro è una merce da scambiare sul mercato. Termini come pensione di anzianità e retributiva, liquidazione, CCNL, contratto a tempo indeterminato e reintegro del lavoratore hanno perso progressivamente significato a favore di parole come flessibilità in entrata e uscita, deregolamentazione, precarietà, collocamento privato e libertà di contrattazione fra il datore di lavoro e il lavoratore.

Nel 1995 (legge 355/1995) il passaggio del sistema pensionistico dal metodo retributivo (la pensione è calcolata in proporzione agli ultimi anni di salario) a quello contributivo ( la pensione viene calcolata in funzione dei contributi versati durante l’arco della vita lavorativa) e l’istituzione della gestione separata dell’Inps è stato il primo passo verso lo smantellamento del modello di lavoro in essere dagli anni settanta grazie all’approccio bipartisan da parte delle forze politiche.

La riforma contributiva su cui era inciampato il governo Berlusconi, viene approvata senza problemi dal suo successore Lamberto Dini, sostenuto da una maggioranza molto ampia di centrodestra e di centrosinistra.

Nel 1997 (legge 196/1997) il Pacchetto Treu, ministro del lavoro sotto il primo governo Prodi, introduce le prime forme di flessibilità in entrata sdoganando il lavoro interinale, fino ad allora proibito, e il ritorno a modelli di apprendistato.

Nel 2003 a seguito del libro bianco sul mercato e sulle politiche del lavoro, il governo Berlusconi approva la legge Biagi (legge 30/2003) che introduce ancora più flessibilità in entrata sul mercato del lavoro, con la moltiplicazione delle modalità di lavoro atipico e l’ampliamento del ricorso al lavoro interinale. Sempre in tema di flessibilità, nello stesso anno, il governo Berlusconi liberalizza anche il lavoro dipendente a tempo determinato che con brevi pause può essere riproposto dal datore di lavoro senza limiti. Le forme atipiche si caratterizzano subito per i costi minori, data la mancanza di un minimo salariale e per i minori oneri contributivi, in gran parte a carico del lavoratore. Il governo Berlusconi pur avviando il dibattito sull’abolizione dell’art. 18, non riesce nell’intento dell’eliminazione delle principali tutele per i lavoratori.

La flessibilità porta alla generazione mille euro, una massa di individui rassegnati al precariato a tempo indeterminato e al miraggio di pensioni lontane nel tempo e inferiori alla soglia di povertà. La crepa nella solidarietà intergenerazionale viene aggravata da un mercato del lavoro sempre più asfittico, bloccato anche dal ritorno degli anziani pensionati che possono utilizzare le modalità atipiche.

Le imprese più grandi trovano un forte incentivo ad esodare i dipendenti più anziani per poi riassumerli come atipici, con un danno per il bilancio pubblico costretto a finanziarne parte dei costi, per le leve più giovani che non possono sopportare.

Nel 2012 e nel 2014 si consumano gli ultimi due atti per trasformare il lavoro in merce. La legge Fornero e il Jobs act rendono possibile ancor più flessibilità in uscita. La legge Fornero, concepita a misura dei datori di lavoro, mette all’angolo le garanzie e la sicurezza del lavoro riducendo il costo dei licenziamenti, il Jobs act va ancora più in profondità eliminando le poche tutele rimanenti per i lavoratori fino all’eliminazione della giusta causa.

L’occupazione in Italia dal 1990

la lettura dei dati ufficiali mostra una realtà molto articolata, in cui l’andamento dell’occupazione ha registrato in ventiquattro anni una crescita moderata nonostante diversi periodi di contrazione.

I livelli occupazionali includono i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, a tempo determinato, gli interinali e i datori di lavoro che partecipano attivamente nell’impresa ma non colgono gran parte del lavoro atipico introdotto dalle riforme.

Le oltre 21,5 milioni di posizioni lavorative del 1990, nel 2014 aumentano di circa un milione di unità, con un incremento complessivo di appena cinque punti percentuali. Il tasso di occupazione negli anni resta costante, registrando una variazione massima nel 2008 (58,6%) rispetto al 1990 (54,9%), mentre nel 2014 registra un aumento di un solo punto percentuale (56%). La maggior presenza di donne e immigrati sono stati i due elementi di novità. I dati mostrano una crescita sostenuta delle donne occupate con un incremento complessivo di oltre venti punti percentuali fra il 2014 e il 1990. Invece gli occupati extracomunitari fra il 2004 e il 2014 passano da 965mila a oltre 2,3 milioni.

Il tasso di disoccupazione possiede un andamento discontinuo accelerando nei primi anni novanta fino al picco dell’11,3% nel 1990. Da allora la disoccupazione si riduce fino al 2008 (6,1%) per poi tornare in crescita con la recessione e le politiche di austerità che la riportano stabilmente al di sopra del 10% con oltre 1,6 milione di persone in cerca di lavoro. In pochi anni la disoccupazione torna ai valori dei primi anni novanta, ma con un’occupazione più precaria e con minori garanzie. I contratti di lavoro dipendente a tempo determinato, liberalizzati dal secondo governo Berlusconi e i contratti interinali, prendono piede assai rapidamente e nell’arco di dieci anni crescono costantemente fino a raggiungere nel 2014 un livello assai maggiore rispetto al 2004 (+56%). Al contrario i contratti a tempo indeterminato registrano in dieci anni un incremento assai minore pari all’8%.

L’occupazione negli anni non premia né il Mezzogiorno né i giovani. Come si nota dalla figura 3, in 24 anni gli occupati nel sud si riducono fino a raggiungere nel 2014 l’8% in meno rispetto al 1990. Le donne nel sud aumentano la loro partecipazione ma con miglioramenti inferiori alla media nazionale: registrano un picco nel 2012 (+19% rispetto al 1990), che poi nel 2014 si ridimensiona al 12%.

Nonostante ogni riforma si sia prefissata di aumentare l’occupazione giovanile, i numeri mostrano una partecipazione dei giovani sempre minore. La flessibilità si rivela lesiva proprio per i giovani, che anno dopo anno vedono precipitare i loro livelli di occupazione. Gli occupati, con età compresa fra i 15 e i 24 anni, diminuiscono ogni anno e nel 2014, il loro livello di occupazione si è ridotto di oltre due terzi rispetto al 1990: i quasi 3 milioni di giovani occupati nel novanta diventano appena un milione nel 2014.

I giovani assieme al ridimensionamento dei livelli di occupazione mostrano una diminuzione anche del numero di disoccupati, che si dimezzano negli anni, ma allo stesso tempo il tasso di disoccupazione, pari al 27% nel 1990, subisce diverse riduzioni fino al 2008 per poi raggiungere valori superiori al 40% tra il 2013 e il 2014.

Il fenomeno di meno occupati, meno disoccupati e maggior tasso di disoccupazione fra i giovani si spiega per la loro espulsione dal mercato del lavoro, in parte per il diffondersi del fenomeno dei Neet e in parte per l’affermarsi di forme di lavoro atipiche non contabilizzate negli indicatori tradizionali.

Oltre 1,4 milioni di giovani fra i 15 e i 24 anni e 3,7 milioni fra i 15 e i 34 anni nel 2014 hanno scelto di rimanere fuori dal mercato del lavoro e dal circuito della formazione e dell’istruzione. La flessibilità non sembra in grado di attrarli e farli tornare ‘attivi’: fra il 2004 e il 2014, i numeri ufficiali evidenziano un incremento del 41% dei Neet con 15-24 anni e del 24% per quelli con 15 e i 34 anni.

Le collaborazioni dei parasubordinati, escluse dalle definizioni tradizionali, rappresentano un fenomeno relativamente recente per l’Italia. I 730mila collaboratori del 1996, negli anni raddoppiano di numero ma appartengono ad un mondo assai variegato.

Degli oltre 1,2 milioni di collaboratori attivi nel 2013, circa 600mila non possiedono caratteristiche professionali definite, mentre gli altri in gran parte appartengono agli amministratori di società, e in misura minore a categorie specifiche quali i dottorandi e i medici specializzandi. Circa 80mila giovani fra i 18 e i 24 anni svolgono collaborazioni nel 2013, assieme ad oltre 200mila ultrasessantenni. Il mondo del lavoro atipico passa trasversalmente fra le generazioni, facilitando il ritorno nel mondo del lavoro dei pensionati e creando sacche di precariato fra i giovani. Eppure ad ogni riforma del mercato del lavoro, il governo di turno ha sottolineato i benefici della flessibilità per i più giovani, gli effetti nefasti delle garanzie dei lavoratori più anziani e gli effetti futuri per la crescita economica. Anche se molti considerano il precariato come una modalità di accesso per giungere a contratti standard, in base ai dati tale transizione non è affatto frequente. Degli oltre 179mila collaboratori esclusivi che erano attivi nel 2000, solo il 36% dopo tredici anni ha raggiunto un contratto a tempo indeterminato, mentre la maggior parte è uscita dal mondo del lavoro.

La crisi degli ultimi due anni

Dal 2012 tutti gli indicatori occupazionali sono peggiorati, dalla legge Fornero la flessibilità in uscita con le minori garanzie per i dipendenti ha contribuito a ridurre l’occupazione e a far crescere la disoccupazione, senza nessun afflusso rilevante di manodopera. Il Jobs act invece di contrastare gli effetti della legge Fornero, ne ha amplificato la portata, e invece di abolire per decreto tante forme atipiche, ha preferito togliere le tutele a oltre 20 milioni di persone, mettendo mano nelle tasche dei lavoratori e dei pensionati che dovranno sostenere con le proprie imposte gran parte degli incentivi di 8mila euro annuali per i contratti a tutele crescenti: chi pagherà il costo degli incentivi è la prima vittima del Jobs act, in pratica oltre al danno anche la beffa.

I dipendenti e i pensionati, provvedono a oltre il 75% delle imposte sui redditi, data la ‘miseria’ che attanaglia da sempre le dichiarazioni di autonomi e imprenditori e il governo Renzi, dopo avere scontato alla vigilia delle elezioni europee gli 80 euro mensili, per garantire 8mila euro all’anno per ogni nuova assunzione, dovrà ricorrere alla fiscalità generale.

Ad oggi tutte le promesse delle riforme del lavoro non sono state mantenute, dalla flexicurity, mai realizzata dal ministro Fornero, ai sussidi universali ventilata a inizio legislatura e oggi sepolta fra le carte del Parlamento. I risultati finora si riassumono in un’occupazione più precaria, maggiore polarizzazione territoriale e l’esclusione di intere generazioni di giovani dal lavoro: meno giovani occupati, più giovani scoraggiati e un tasso di disoccupazione giovanile in vorticosa crescita. La riforma del Jobs act non sembra far altro che precarizzare tutti sferrando un nuovo colpo ai diritti dei lavoratori in attesa della prossima miracolosa riforma.

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