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Lavoro, diamo credito a Renzi?
La liberalizzazione del contratto di apprendistato elimina la prospettiva che almeno un 30 percento di giovani debba essere assunto a tempo indeterminato. Mentre quella del contratto a termine ci riporta a quel supermarket contrattuale che individua nella flessibilità contrattuale del lavoro la panacea della bassa competitività
Ho partecipato ieri sera a mezz’ora di dibattito su Radio Popolare di Milano. La domanda posta agli ascoltatori era “Diamo credito a Renzi?”. Il pubblico ha deciso di dare credito, ma limitato, ed al progredire degli interventi crescevano i timori più che la fiducia.
Qui una sintesi personale ed un po’ di parte.
Primo. Renzi ha il coraggio di metterci la faccia, se non altro il suo mercoledì da leoni l’ha giocato più sul terreno degli annunci che su quello dei fatti. La direzione è giusta, ed in questa deve proseguire. I compiti da fare a casa sono per i nostri figli e non perché lo chiede l’Europa, anzi l’Europa ha i suoi di compiti da fare per indurre la crescita e l’occupazione.
Secondo. L’annuncio più significativo è stato quello di (promettere di) far crescere strutturalmente da maggio le retribuzioni nette di 80 euro mensili circa (1.000 euro l’anno) per 10 milioni di lavoratori dipendenti, con reddito basso, sotto i 1.500 euro netti. Costo 10 miliardi. Una misura che fa crescere il reddito disponibile ed i consumi delle famiglie che sono in sofferenza, e quindi un piccolo stimolo alla domanda interna, cosa di cui le imprese che lavorano per il mercato interno sentono non la debolezza ma la mancanza, data la sua dinamica negativa da sei anni. L’interpretazione malevole vuole vedere in questo una “strizzata d’occhio” al cittadino che ancora va a votare, bacino tradizionale del voto democratico, non a quello che disilluso si tiene lontano dal seggio, dato per perso, oppure a quello arrabbiato che comunque rema contro.
Terzo. Gli scontenti sono molti, tra coloro che sono in sofferenza, i pensionati, i disoccupati, i lavoratori precari, le partite iva per necessità, le persone che sono sotto il minimo per pagare le tasse. Tutte categorie escluse dai vantaggi dell’annuncio, e che sono spesso in sofferenza persino più dei lavoratori dipendenti. Ecco che si presenta la “lotta tra poveri e meno poveri”, ed entro la classe media e medio-bassa, contraddizione della crisi che favorisce invece in progressione il 10%, l’1%, lo 0,1% della popolazione.
Quarto. L’unica cosa certa sembra essere l’intervento per decreto legge sull’apprendistato e sui contratti a termine, ma anche essi da definire nei dettagli, dove risiede il diavolo. Qui occorre essere poco diplomatici. Sul primo si elimina la prospettiva che almeno un 30% di giovani apprendisti debba essere comunque assunto a tempo indeterminato, lasciando così nel limbo del precariato chi sperava in un lavoro dignitoso, poi si lascia anche aperta l’ipotesi che la retribuzione del povero apprendista in formazione venga ridotta significativamente, perché in caso contrario questo contratto continua a non decollare, arrendendosi all’idea malsana che se un lavoro vuoi, lo devi prendere con flessibilità permanente e retribuzione sotto il minimo della sussistenza. Sul secondo, si rende sostanza la non necessità della motivazione (acausalità) a fare contratti a termine per tre anni di seguito con lo stesso lavoratore (oggi solo un anno), per cui il lavoratore non potrà far valere il suo diritto ad avere un lavoro di lunga durata qualora il contratto a termine reiterato sino a tre anni non abbia giustificazioni economiche e produttive; quindi massima disponibilità forzata alle esigenze non dichiarate dell’impresa, una sorta di contratto servile. Dopo tre anni “sei fuori”! Non ti resta che cercare un altro contratto di 3 anni con altra impresa, che intanto la prima non ti assume a tempo indeterminato e neppure può farlo ancora a termine. Si segnalano qui tre aspetti. Primo, si insiste con pervicacia con la “deriva del diritto del lavoro”, con la giustificazione che siccome siamo in crisi, meglio un lavoro purchessia che un lavoro in nero, o un non lavoro, mettendo in soffitta la distinzione tra flessibilità buona e flessibilità cattiva di Fornero memoria. Secondo, come si contempli questo ritorno alla logica del supermarket contrattuale con il contratto unico a tutele progressive annunciato nel Job Act si inserisce tra i misteri del 12 marzo 2014. Infine, l’ideologia della flessibilità contrattuale del lavoro come panacea della bassa competitività prosegue nel fare danni, favorendo le imprese non innovative che fanno concorrenza sulle non-tutele dei lavoratori alle imprese innovative, consegnando il mondo del lavoro e dell’impresa alla “trappola della stagnazione della produttività”.
Quinto. La riduzione dell’Irap annunciata (10%) appare un piccolo, incerto ed incondizionato regalo alle imprese. Piccolo ed incerto (2,4 miliardi) perché appare finanziato dall’incremento (dal 20% al 26%) della tassazione sui guadagni delle attività finanziarie, per avvicinarsi agli standard europei, ma con introiti incerti, mentre manca il coraggio di una tassazione strutturale sui patrimoni. Incondizionato perché con questa riduzione le imprese potranno fare ciò che preferiscono, anche far crescere i profitti, non ridurre i prezzi, e non fare investimenti, come hanno praticato dall’inizio della crisi e negli anni precedenti, con l’euro e prima dell’euro. Sarebbe stato meglio un intervento più deciso nell’ammontare, vincolando i risparmi di imposta per l’impresa a loro comportamenti virtuosi sul piano innovativo per accrescere la bassa produttività di cui sempre si dolgono. Che l’Irap sia una tassa odiosa sull’occupazione è indubbio; che al contempo serva per finanziare il servizio sanitario pubblico è noto; che la sua riduzione debba essere una contropartita regalata alle imprese per non far montare la protesta per non essere state privilegiate dalla riduzione delle tasse sul lavoro è molto opinabile e poco serio.
Sesto. Gli interventi si estendono ad altro: azzeramento totale dei debiti della Pa verso le imprese (68 miliardi entro luglio 2014); riduzione del 10% del costo dell’energia per le imprese (2 miliardi); integrazione fondo garanzia credito per le Pmi (500 milioni); piano per l’emergenza abitativa (1,7 miliardi); piano per la ristrutturazione e la messa in sicurezza degli edifici scolastici (3,5 miliardi); tutela del territorio (1,5 miliardi); impiego fondi strutturali europei con cofinanziamenti nazionali (3 miliardi); nuova Aspi e mini-Aspi (Naspi) per estendere (di quanto?) la platea dei disoccupati che possono godere di un sussidio di disoccupazione (5 miliardi); piano Garanzia Giovani (1,7 miliardi dall’Europa); contributi al terzo settore ed economia sociale (500 milioni). Il totale complessivo, tra stock e flussi annuali, si aggira tra gli 80 ed i 100 miliardi, spiccioli più, spiccioli meno, a secondo di varie ipotesi. Come coprire queste spese? Ciò che è certo è che per il 2014 le coperture sono incerte e non strutturali, come stabilisce il ministro dell’economia Padoan (“coperture di transizione”); per gli anni successivi ci si affida su: a) Spending review, di cui peraltro la Legge di Stabilità 2014-2016 impegna le risorse per la riduzione del debito e per provvedimenti 2013 a rischio di copertura; b) Cassa depositi e prestiti, con progetti di intervento la cui fattibilità è a rischio Europa e comunque le stime son tutte da verificare in sede nazionale in corso d’anno a consuntivo. In altri termini, le coperture sono solo annunciate, come peraltro gli interventi.
Settimo. Nel frattempo, la Bce e la Commissione Europea hanno fatto sapere immediatamente che i progetti ambiziosi devono procedere nel rispetto dei vincoli e degli impegni assunti. Anzi, l’Italia non soddisfa i primi e neppure i secondi, allo stato attuale. Per il 2013 siamo in debito di una manovra di 6,4 miliardi almeno che avrebbe dovuto abbassare il deficit/Pil dal 3% al 2,6% raccomandato (1,6 miliardi per ogni 0,1 punti percentuali). Nel 2014 deve essere realizzato, ci dicono. Ma non solo, in quanto l’Italia è appena entrata tra i paesi inclusi nella “Macroeconomic Imbalance Procedure” per debito eccessivo e competitività insoddisfacente, per cui due sono le politiche da perseguire: consolidamento fiscale e riforme strutturali. Entrambi i pilastri sono peraltro dettati dal Fiscal compact che prevede deficit/Pil strutturali allo 0,5% massimo (inserito da noi in Costituzione, con modifica dell’art.81, da applicarsi dal 2014) e rientro del debito/Pil al 60% dal 2015 entro il 2035, per l’Italia dall’attuale 130% ed oltre al ritmo di interventi strutturali di contenimento del bilancio pubblico nell’ordine di 50 miliardi annui, dato il modesto tasso di crescita dell’economia italiana.
Epilogo. A chi sostiene che le politiche europee non lasciano spazio alla crescita, perché ne sono strutturalmente la sua antitesi, si contrappongono quanti affermano che la Commissione attuale è al capolinea e verrà sostituita da una ben diversa dopo le elezioni europee del prossimo maggio. Cambierà lo scenario e politiche di crescita saranno possibili. In Europa il vento sarebbe mutato. Anche nel 2013 si aspettavano le elezioni tedesche che avrebbero sbloccato la situazione e consentito un “cambiamento di verso”. Sappiamo cosa è accaduto: dopo la formazione del governo di grande coalizione, con il discorso di insediamento della Cancelliera Angela Merkel al Parlamento tedesco non è stato annunciato l’abbandono dell’austerità, semmai il rafforzamento dell’austerità, con la proposta di rendere automatiche le penalità per i paesi che non perseguono i due pilastri delle politiche di rigore. Renzi rischia davvero di andare a sbattere contro il muro, se non cambia l’Europa, e con lui tutto il paese? Non ci resta che attendere alcune settimane e leggere il Documento di economia e finanza 2014 e il Programma nazionale di riforma, che la Commissione attende, per conoscere la risposta.
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