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Lezioni da Indesit sul metodo Fiat

19/01/2011

L'esempio di un accordo fatto per salvare un'azienda in crisi in Italia: ma con la contrattazione, non con il ricatto. Un accordo che ha ottenuto il 90% di "sì"

L’accordo di Mirafiori, approvato dal 54% dei dipendenti, è il modello di riferimento delle nuove relazioni industriali di cui le imprese italiane avrebbero urgente bisogno per recuperare competitività. Questa linea, sostenuta pomposamente dallo stesso Marchionne quando ha affermato di “voler cambiare l’Italia”, è stata fatta propria dal governo (con il ministro Sacconi) e propagandata da uno stuolo di opinion maker.

E’ impressionante come dall’accordo di Pomigliano (necessario, alla luce delle gravi condizioni occupazionali dell’area) si sia passati a quello di Mirafiori (necessario, altrimenti l’Italia perde il settore dell’automobile) e, quindi, alla sua estensione generalizzata. Una valanga … di imbrogli.

Vi sono parecchi elementi, infatti, per sostenere che quello che va bene alla Fiat non va affatto bene al resto del sistema industriale italiano. Per recuperare competitività, le nostre imprese manifatturiere di media e grande dimensione hanno bisogno di più ricerca e innovazione, più investimenti nella formazione del personale e nuove forme di organizzazione del lavoro che prevedano una maggiore partecipazione dei dipendenti ai processi decisionali (e non solo agli utili, quando ci sono). Di tutto hanno bisogno meno che dei conflitti sindacali che, inevitabilmente, scoppierebbero se adottassero il “metodo Fiat”.

Ciò non significa essere subalterni ai sindacati. Al contrario, da più di un decennio, le imprese italiane, incluse quelle in cui la Fiom era e resta il sindacato principale, hanno ottenuto notevoli concessioni in termini di moderazione salariale, turni di lavoro e straordinari. Per salvare aziende in crisi, sono state applicate, temporaneamente, condizioni assai peggiorative rispetto al contratto nazionale. Nei casi di ristrutturazione i sindacati hanno accettato la riduzione dell’occupazione e la chiusura di stabilimenti. Ma tutto ciò, come è avvenuto un mese fa con l’accordo sottoscritto da tutti i sindacati con l’Indesit, è stato oggetto di contrattazione, senza che l’azienda minacciasse di abbandonare l’Italia. L’Indesit ha confermato la centralità degli impianti nazionali (nei quali investirà 120 milioni di euro) e per i 510 dipendenti coinvolti nella chiusura degli stabilimenti di Brembate e Refrontolo sono state predisposte misure di ricollocamento. L’accordo ha ottenuto l’approvazione di circa il 90% dei lavoratori interessati.

Questo è il metodo che la stragrande maggioranza delle imprese italiane di media e grande dimensione dovrebbe (e vorrebbe) continuare a seguire. Si tratta di imprese fortemente esposte, come la Fiat, alla competizione globale e molte dispongono di stabilimenti esteri o hanno parzialmente delocalizzato la produzione. Ciononostante, restano radicate sul territorio nazionale nel quale mantengono, insieme agli impianti produttivi, i loro centri decisionali e le attività a maggior contenuto strategico, confidando sulle capacità professionali, le competenze cumulate e l’intelligenza dei loro dipendenti di qualifica alta, media e bassa.

Non è quindi un caso che il “metodo Fiat” non abbia riscosso particolare successo tra gli imprenditori italiani. Sostenere che la contrattazione aziendale debba contare di più, come molti hanno fatto, non significa affatto sposare la linea di Marchionne e Sacconi.

Persino tra esponenti di rilievo degli stessi sindacati che hanno sottoscritto gli accordi con la Fiat sono emersi forti dubbi e reazioni negative. Il quotidiano della Cisl (Conquiste del Lavoro) del 16 gennaio riporta in seconda pagina le dichiarazioni di Nicola Alberta, segretario regionale della Fim Lombardia, e Giovanni Fania, segretario regionale della Cisl del Friuli Venezia Giulia.

Dopo aver espresso soddisfazione per l’esito del referendum di Mirafiori, Alberta sottolinea gli impegni futuri del sindacato tra i quali quello di “rivendicare alla Fiat l’abbandono della logica autoritaria delle relazioni sindacali da modello americano che è stata perseguita in questi anni [affinché] scelga finalmente la logica della partecipazione e contrattazione del modello italiano ed europeo, con il pieno rientro nel sistema contrattuale”. (Per chi si sia distratto, la frase è del segretario regionale della Fim Lombardia).

Fania, dopo aver sottolineato gli aspetti positivi dell’accordo sottoscritto con la Fiat, afferma che “Il nemico non è Marchionne […] ma semmai una globalizzazione senza regole, che dovrà riguardare tutto il movimento sindacale a livello mondiale”.

A proposito dei comportamenti che le imprese transnazionali dovrebbero seguire per scongiurare una globalizzazione selvaggia, vale la pena citare un documento dell’OCSE (un organismo a prevalente ispirazione liberista, non propriamente contiguo ai sindacati). Mi riferisco alle Linee guida dell’OCSE destinate alle imprese multinazionali, pubblicate nel giugno 2000 e approvate da tutti i Paesi membri, USA e Italia inclusi.

Nel paragrafo IV, titolato “Occupazione e relazioni industriali”, il punto 7 fornisce, alle imprese come la Fiat, la seguente raccomandazione: “Nel contesto delle trattative svolte in buona fede con i rappresentanti dei dipendenti sulle condizioni dell’occupazione, o se i dipendenti esercitano il loro diritto di organizzarsi, non minacciare di trasferire tutta un’unità di funzionamento o parte di un’unità, né di trasferire dipendenti provenienti da entità costitutive dell’impresa ubicate in altri Paesi per influenzare slealmente quelle trattative o ostacolare l’esercizio del diritto di organizzazione”.

Se tale raccomandazione fosse divenuta una “regola” non ci sarebbe stato nulla da eccepire e, forse, Gianni Riotta avrebbe avuto qualche remora a promuovere Marchionne “uomo dell’anno”.

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