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Formazione: il ritardo delle imprese italiane

03/02/2011

Secondo il Ministero del lavoro restano inutilizzati 700 milioni di euro pari al 62% delle risorse disponibili tramite i Fondi interprofessionali

Negli ultimi anni non c’è articolo di rivista o di giornale che, dopo una lunga o breve analisi della condizione di stagnazione della nostra economia, non si concluda con la puntuale, ma generica, rivendicazione di una politica industriale che punti al recupero della competitività e di un maggior impegno delle nostre imprese manifatturiere di media e grande dimensione nei confronti della ricerca, dell’innovazione e della formazione del personale. Il richiamo alla formazione assume il sapore di uno slogan retorico se non si è in grado di spiegare il paradosso che la investe. Le statistiche più recenti dell’Istat (1) ci collocano infatti al terz’ultimo posto della gerarchia europea (EU a 27 paesi), prima di Bulgaria e Grecia, con una percentuale di imprese impegnate a svolgere una qualche attività formativa pari al 32% (contro la media europea del 60%), mentre allo stesso tempo il Ministero del Lavoro evidenzia (2) che i Fondi Interprofessionali (creati con la Finanziaria del 2001) hanno accumulato risorse non impegnate (a tutto novembre 2009) pari a 700 milioni di euro, equivalenti al 62% delle risorse incassate. Keynes ci ha insegnato che è inutile portare il cavallo all’abbeveratoio se non vuole bere. Il problema è perché non vuole bere. Ossia, qual è l’origine del fenomeno: miopia imprenditoriale, rendimenti insufficienti degli investimenti in formazione, fallimenti delle politiche di formazione?

Una prima risposta la potremmo trovare sempre nei dati Istat, sui motivi per cui le imprese non farebbero formazione: il 50% dichiara che le competenze esistenti sono sufficienti, e/o che il personale assunto è già formato (41%). Potremmo dedurre da queste indicazioni che le imprese percepiscono questo contributo che pagano come una semplice “tassa”, e che la progettualità di sviluppo delle competenze è però ben altra cosa. Volendo cercare una spiegazione più fine potremmo soffermarci sulle modalità praticate dell’attività formativa: primeggiano i tradizionali corsi esterni (nel 71,4% dei casi), mentre scarsa rilevanza hanno le moderne e più efficaci modalità, quali la formazione in situazione di lavoro (33,8%), la rotazione/affiancamento (16,5%), l’autoapprendimento (6%) e i circoli di qualità (5,8%).

Chi ha la pazienza si scorrere invece il Rapporto del Ministero avrà la sorpresa di rilevare che la maggior parte dei beneficiari dei fondi stanziati è costituita dalle categorie più forti:
(a) fra le imprese, quelle grandi;
(b) fra i lavoratori, quelli mediamente più istruiti. Dal punto di vista della localizzazione, gli attori economici che si collocano nelle quattro regioni del Nord (Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia‐Romagna) assorbono oltre il 73% delle risorse stanziate. Gli enti realizzatori dei piani di formazione sono costituiti da: impresa beneficiaria (42,5), agenzia formativa (35,3%) e società di consulenza (23,3%), mentre le tematiche formative più gettonate sono: salute e sicurezza dei lavoratori (31%), gestione aziendale e amministrazione (16,5%) e conoscenza del contesto lavorativo (16,3%). Sotto la voce «sviluppo delle abilità personali» (22,8%) la fa da padrone la voce “vendita e marketing” (11,5%).

Sempre secondo i dati Istat, solo l’11% delle imprese dichiara che i costi della formazione sono troppo elevati, il che fa pensare all’economista che il ROI (il tasso di rendimento) della formazione sia troppo basso, quando non addirittura negativo, anche se questa non è fra le prime motivazioni, tra quelle dichiarate dalle imprese che non formano. Gli economisti del lavoro non credono tuttavia a queste motivazioni, e vanno sempre alla ricerca di una loro razionale spiegazione, «inspiegabile» però a nostro avviso, in quanto da un lato non chiariscono perché i fondi rimangono inutilizzabili, dall’altro perché si rifugiano sempre e solo nella «teoria del capitale umano» accanendosi con erudizione econometrica sulle stime del tasso di rendimento degli investimenti nell’istruzione e nella formazione professionale, nonostante il Nobel per l’economia Heckman (2000) (3) [un guru econometrico] lo consideri oramai, alla luce delle debolezze, delle aporie e delle ambiguità presenti nella teoria, “not a useful guide to policy analysis”, e Green (2007) (4), autore di un’ampia e aggiornata rassegna internazionale dei recenti sviluppi nell’economia della formazione, ritenga che “in practice, little is known about the returns to training achieved by private companies”.

Crediamo che gli errori più gravi che la professione sta compiendo siano due, legati entrambi all’incultura sull’organizzazione del lavoro: il primo, quello di aver pensato, e di continuare a pensare (ma anche a fare ricerche accademiche) alla formazione come se essa fosse frutto di decisioni isolate da parte dell’impresa, piuttosto che parte di un insieme di pratiche lavorative (si pensi al coinvolgimento, al lavoro di squadra, al lavoro di consultazione, alla valutazione delle performance, alle carriere, ecc.), nonché di disegni organizzativi e di relazioni industriali messe in atto nell’intento di perseguire competitività, sopravvivenza e sviluppo, lungo un sentiero – nel migliore dei casi – di innovazione, di cambiamento, di strategie volte a riforgiare l’impresa nei termini di una organizzazione volta all’apprendimento (learning organization). Ed è solo nell’ambito di un concetto di complementarità fra più pratiche (inclusa anche l’attività formativa) che diventa plausibile cercare dapprima i «pacchetti di azioni» (i c.d. bundles) più efficienti da implementare, e poi verificarne i risultati (outcomes).

Il secondo grave errore (condiviso però anche da molti manager d’impresa e operatori sindacali) è di aver continuato e di continuare a concettualizzare la formazione nei termini di una modalità d’aula, di saperi da trasmettere e di un apprendimento fuori dal posto di lavoro, in altre parole a «scolarizzare» la formazione, fino al punto da trasformare l’apprendimento continuo (il lifelong learning di stampo europeo) in una attività di «formazione continua». È un’aberrazione tutta italiana, che sposta l’attenzione dal «lavoratore che apprende» al «docente o consulente» che trasmette, dai processi legati all’apprendere alle direttive connesse al trasferimento di nozioni, da un’«economia del senso e del significato» da acquisire a un pacchetto di conoscenze da comunicare. Le moderne teorie sull’apprendimento degli adulti indicano invece come l’atto efficiente ed efficace dell’apprendere o del conoscere in pratica (knowing in practice) sia impregnato di problem solving, di intelligenza emotiva attivata, di esperienza del significato e di reificazione (mediante la quale il soggetto traduce il senso dell’esperienza in forme riconoscibili attraverso immagini, concetti, parole, oggetti, ecc.), tutti elementi indispensabili per la costruzione di un’identità che esige però anche un riconoscimento sociale. L’atto dell’apprendere risulta pertanto «situato» (legato a contesti e problemi specifici) e frutto di conoscenze «socialmente costruite», in quanto negoziate tra una pluralità di soggetti.

È solo sulla base di queste moderne concettualizzazioni, che hanno peraltro mostrato da un lato di esibire coerenza interna e congruenti ancoraggi teorici, e dall’altro di intercettare e comprendere/spiegare aspetti e dimensioni rilevanti dell’agire e del funzionamento delle moderne imprese sempre più globalizzate, che è possibile individuare e progettare quelle strutture organizzative, e quelle forme di memoria, capaci di dar luogo a un’impresa evolutiva, un’impresa che apprende, capaci anche, nello stesso tempo, di dar conto dell’apprendimento formale e informale, tacito e codificato, pratico e teorico, efficiente ed efficace.

Sul piano operativo, solo con un processo di descolarizzazione della formazione professionale, che riconosca normativamente che l’apprendimento «sul posto di lavoro» ha piena legittimità di essere riconosciuto e finanziato, e con l’inserimento della formazione stessa dentro progetti «partecipati» di cambiamento organizzativo, possiamo rendere più efficienti e più efficaci i percorsi di apprendimento continuo della forza lavoro italiana e avviare – con l’aggiunta di investimenti in nuove tecnologie – quel recupero di posizioni nella gerarchia europea della competitività del quale abbiamo estremo bisogno.

(1) Istat, 28 maggio 2008: «La formazione del personale nelle imprese nelle imprese italiane» nel corso dell’anno 2005.
(2) Ministero del Lavoro, febbraio 2010: «Rapporto 2009 sulla formazione continua», realizzato con l’assistenza tecnico‐scientifica dell’Isfol, pp. 69‐70.
(3) James J. Heckman (2000), Policies to foster human capital, Research in Economics, 54.
(4) Francis Green (a cura di) (2007), Recent Developments in the Economics of Training, Cheltenham, Elgar, 2 volumi.

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