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Reinventare il lavoro per uscire dalla crisi
Gli attuali gruppi dirigenti, compresi i governi Monti e Letta, trattano la liquidazione sociale di un’intera generazione come un problema d’incentivi alle imprese per convincerle ad assumerne. Un modo per nascondere il fatto cruciale di questa disoccupazione, il suo carattere strutturale e intrinseco al modello neoliberista
Molti di noi, negli ultimi anni, hanno scritto e riscritto proposte e piani per combattere la disoccupazione di massa, la povertà e l’ingiustizia sociale. Queste idee, pur diverse tra di loro, e talvolta anche tra loro contradditorie su specifici punti, hanno contribuito a tenere aperta l’idea che un altro mondo è possibile e che non vi è nessuna legge naturale che ci abbia portati alla disastrosa situazione che stiamo vivendo. Questo solo fatto rende tali iniziative meritorie, ma è venuto il momento di prendere atto che continuando così si predica al vento e si diventa “pasticcieri dell’avvenire”. Gli ultimi dieci anni non sono passati invano e quindi non si tratta solo di correre il rischio dell’inutilità ma di un comportamento colpevole. Si è affermata infatti una solida coalizione tra un blocco sociale, costituito dalla sezione globalizzata del capitalismo europeo e dalla finanza, ed uno politico, formato da un nuovo ceto politico e tecnocratico e dalle istituzioni tecnocratiche europee e nazionali – quali la Bce e la Commissione europea – che sta sistematicamente smantellando la democrazia, lo stato sociale e i diritti dei lavoratori.
Come penso tutti voi, non ho nulla da ritrattare delle proposte fatte [1]; il punto è che esse non hanno alcun “mercato politico” e scarsamente un “mercato sociale” su cui circolare. Oggi nessuna forza politica di rilievo le prende in considerazione e spesso le stesse rappresentanze sociali sono sorde o restie su questi temi; si pensi agli accordi sindacali sulla detassazione delle ore di straordinario.
A tale proposito devo confessare che mi ha molto colpito l’ultimo libro di Streeck, non per il merito delle proposte – molte pienamente condivisibili, anche se non tutte [2] – né per il quadro analitico tracciato – cui molti di noi, nella discussione europea tra gli intellettuali, hanno avuto modo di contribuire. Mi ha colpito il metodo; il ritorno dell’analisi del capitalismo nella linea di Marx. Non un capitalismo astratto e metastorico ma questo capitalismo, storicamente, e forse anche geo-politicamente, determinato e quindi con caratteristiche nuove e specifiche; “un capitalismo scatenato” (Glyn [3]), diretto da capitalisti, in carne e ossa, che, con l’aiuto di un nuovo ceto di tecnocrati, intellettuali e politici, hanno un progetto sociale, politico e culturale, allo stesso tempo; un progetto che perseguono con radicalità e tenacia, avendo già scelto di “secedere dalla democrazia”. Lo dico nel senso di Urbinati [4], la secessione cioè dall’idea che i rapporti economici sono rapporti sociali e come tali sono subordinati alle decisioni democratiche; la sfera economica, cioè gli interessi capitalistici e finanziari, si autonomizza, diventa una sfera riservata a un élite tecnocratica e politica – con ruoli che si scambiano continuamente – e acquista una primazia su tutte le altre sfere.
Torniamo dunque al tema di questa sessione. Se vogliamo realizzare quanto qui ci proponiamo, in questa situazione, allora non sono sufficienti, anche se necessari, elenchi di proposte, con le relative indicazioni di come trovare le risorse per realizzarle. Bisogna prima di tutto individuare le condizioni, cioè avere un progetto antagonista – la parola non è scelta incautamente – che possano incrinare e rimettere in discussione il progetto politico capitalista.
Le condizioni sono tante quante le diverse facce, economiche, sociali, politiche e culturali di quel progetto ma una tra di esse ha – si sarebbe detto un tempo – una funzione architettonica; è cioè la chiave di volta di tutta la struttura: il tema dell’eguaglianza.
L’idea base che ha conquistato, certamente sino alla grande crisi di questi ultimi anni, le menti e i cuori non solo delle nuove élite, ma anche di larghe masse è molto semplice. Il capitalismo crea diseguaglianze, ma, grazie a esse, si creano gli incentivi ai capaci per affrontare il rischio; si selezionano così i più capaci ed essi producono ricchezza che lentamente, ma costantemente, viene redistribuita verso il basso in modo tale che la base della scala sociale si sposta verso l’alto. Non bisogna, quindi, guardare alle differenze relative ma all’innalzamento complessivo della scala sociale; la diseguaglianza è quindi un bene e la critica nasce dall’invidia.
Questa idea, in concreto, implica che il capitalismo per funzionare in modo efficace ha bisogno della libertà dei capitalisti. Tale libertà richiede, oggi, lo smantellamento di quanto costituito nel corso dei “trenta gloriosi”; ciò che è importante però non è tanto il singolo provvedimento, ma la liberazione dei capitalisti da ogni controllo operato dalla società per mezzo del potere dello Stato, il resto, come poi è realmente accaduto, seguirà. Lo Stato può essere anche molto forte, anche dispotico, illiberale, censorio, ecc.; ciò che non deve fare è pensare di regolare le attività della sfera economica secondo criteri extraeconomici, cioè non capitalisti; non può cioè seguire le regole della democrazia. Questo progetto è già stato largamente realizzato in Europa. Come contrastarlo quindi?
È certamente necessaria una battaglia ideologica in favore della natura sociale di tutte le relazioni, comprese quelle economiche, e sull’utilità di sottomettere tutti gli aspetti della vita sociale alle regole democratiche; gli argomenti non mancano, ma la difficoltà nasce dal fatto che nel frattempo una larga parte delle reti tradizionali di rappresentanza e di collegamenti nella sfera sociale sono stati indeboliti e smantellati. La stessa produzione culturale e scientifica è sempre di più controllata, anche ideologicamente, dalla cultura capitalista.
Il punto veramente debole e il progressivo indebolimento, quando non la frantumazione, di ogni countervailing power (Dahl) [5].
I contropoteri, di cui parlava Dahl, non sono genericamente le opinioni pubbliche ma veri e propri poteri organizzati e radicati nella società, poteri che sono autonomi sia dal potere politico sia da quello economico e finanziario; in primo luogo tra questi, la rappresentanza sociale del lavoro, cioè, quando la incarnano, i sindacati. Non è inutile rammentare a ciascuno di noi che il processo di progressiva disarticolazione di cui parliamo ha avuto come centro e come mossa iniziale lo smantellamento del potere sociale dei sindacati.
Il punto di partenza nostro quindi non può che essere la difesa di quello che esiste e la costruzione paziente di una rete sempre più estesa e articolata di forme di aggregazione sociale costruite attorno a progetti di disarticolazione e rovesciamento del quadro esistente.
Il primo progetto è ristabilire la priorità sociale della piena occupazione; non è solo un esercizio tecnico su come ottenerla. Al contrario in primo luogo essa va rivendicata a prescindere, come obiettivo politico di governo di una società democratica. Gli attuali gruppi dirigenti, compresi i governi Monti e Letta, trattano la liquidazione sociale, nel senso pieno della parola, di un’intera generazione come un problema d’incentivi alle imprese per convincerle ad assumerne, a qualunque condizione, almeno un po’; una frazione risibile del totale. Non è questo il punto, così si nasconde il fatto cruciale di questa disoccupazione, il suo carattere strutturale, intrinseco cioè a questo modello.
L’occupazione dei giovani deve essere costruita dal pieno utilizzo di tutte le loro capacità, anzi dal pieno sviluppo di tutte le loro capacità, il che significa ridisegnare tutta la struttura sociale e istituzionale per garantire quest’obiettivo. Un occupazione che abbia queste caratteristiche non può essere fondata sul sottosalario e la precarietà.
L’attività economica e produttiva deve essere costruita a partire dalle grandi domande sociali inevase e non dalla stanca e insostenibile riproposizione del modello post-bellico – carbone, acciaio, petrolio – in un inseguimento neo mercantile senza fine tra i diversi blocchi geopolitici. Le misure tecniche, come sempre è successo, seguiranno, se questa è la priorità. Molti di noi hanno già indicato varie possibili soluzioni.
Il pieno utilizzo e sviluppo delle loro capacità è incompatibile con una struttura produttiva fondata sull’esercizio di un potere arbitrario sulle finalità e le modalità del lavoro. Come dice Nussbaum, criticando i limiti della critica all’ingiustizia, da parte del pensiero liberale più avanzato, come quello di Rawls:
“Quindi, è improbabile che la ricerca condotta dai liberali pervenga a una critica altrettanto radicale [come quella di Marx, nda] sui rapporti di produzione. Eppure, come dice Marx, sono proprio quei rapporti a costituire l’ostacolo principale alla possibilità del lavoratore di realizzare se stesso come essere umano (…). [I liberali] non esaminano gli impedimenti a una completa realizzazione personale che derivano dalla struttura dei rapporti quotidiani tra il proletariato e gli altri soggetti e non si chiedono se le condizioni di vita del proletario siano tali da permettergli di sfruttare le risorse a sua disposizione in un modo autenticamente umano” [6].
Da questa riflessione quindi si apre un problema in primo luogo per gli stessi sindacati. La crisi democratica riguarda, infatti, tutte le istituzioni, loro compresi, e inizia quando si interroga innanzitutto sulla quantità di beni disponibili e non si affrontano le reali condizioni del soggetto e delle sue possibilità di operare scelte libere. Se, infatti, il problema del lavoro viene ridotto a come garantire la sopravvivenza e un po’ di consumi, allora si corre il rischio sia della rottura neocorporativa tra un nucleo sempre più risotto di garantiti e gli altri, sia della disponibilità a cedere ogni diritto pur di sopravvivere: primum vivere si dice, dimenticando che così facendo: propter vitam vivendi perdere causas.
Siamo ben oltre Rawls. La versione utilitaristica dominante non vede nemmeno l’esistenza stessa dell’ingiustizia, visto che considera gli individui come centri di desiderio perfettamente autonomi e consapevoli. Per gli utilitaristi ciò che guida gli esseri umani può avere svariate forme, ma nella pratica tutte le motivazioni umane possono essere ricondotte a unità e misurate su una scala unica: piacere, edonismo, eccetera. Il conflitto, quando è ammesso, è solo distributivo. La lotta per la democrazia e la libertà cioè la possibilità concreta per tutti di decidere le priorità di tutte le sfere della società in cui si vive, a partire dai luoghi di lavoro, è quindi la seconda gamba di una critica verso l’ordine dominante.
Reinventare il lavoro non è possibile senza partire da questa tavola dei valori, da queste finalità generali. È il compito di un'intera generazione e non vi sono scorciatoie.
[1] Rimando, per quanto mi concerne, ai due contributi recenti: “Recuperare imprese, creare lavoro” sul sito di Sbilanciamoci – http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/La-rotta-d-Italia-16276, e “Creare Occupazione” sulla rivista ERE dell’IRES CGIL dell’Emilia Romagna, n. 14, Luglio 2013, pp. 66-70
[2] Ad esempio su come affrontare la crisi dell’euro; su tale argomento Bellofiore ed io abbiamo chiarito la nostra posizione con un articolo in uscita sul numero 181 di Inchiesta.
[3] Glyn, A. (2006). Capitalism Unleashed. Oxford: Oxford University Press
[4] Urbinati, N. – La mutazione antiegualitaria – Laterza, 2013
[5] Dahl, R. A. – Sulla Democrazia. Laterza, Bari, 2000
[6] (Capacità personale e democrazia sociale. Un antologia di scritti a cura di Zanetti G, Reggio Emilia, Diabasis, 2003)
*Testo dell'intervento di Francesco Garibaldo nella sessione dedicata a "Lavoro, welfare e conoscenza: come combattere le diseguaglianze sociali" del forum di Sbilanciamoci!, tenutosi a Roma dal 6 all'8 settembre.
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