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Quando investimento non significa sviluppo

19/03/2009

Non sempre gli investimenti sono un indicatore positivo. Bisogna vedere dove vanno le risorse e qual è la specializzazione produttiva che ne risulta

Gli investimenti contabilizzati nel Pil sono utilizzati per osservare se un paese “investe” nel futuro, cioè si utilizzano informazioni “quantitative”, ma le implicazioni economiche dal lato della crescita e dello sviluppo sono spesso sottovalutate. Diversamente non potremmo spiegare alcune apparenti incongruenze. Potrebbe anche accadere che due paesi abbiano lo stesso rapporto investimenti/pil, ma non per questo sono uguali. La differenza è legata al valore intrinseco dei beni capitali, intermedi e consumo.
L’uscita dalla crisi dei sistemi capitalistici maturi determinerà una nuova divisione internazionale del lavoro, lasciando ai margini tutti i paesi che in questi anni hanno maturato dei ritardi di struttura, in particolare nel sapere e saper fare. Non a caso l’Ue ha deciso di rafforzare gli investimenti legati al risparmio energetico e alla conoscenza in generale nel campo delle green technology. Chi possiede le competenze necessarie maturerà dei vantaggi comparati nella produzione di questi beni e uscirà dalla crisi non solo in anticipo rispetto a chi non li realizza, ma con una divisione internazionale del lavoro migliore. Le implicazioni sociali sono enormi. Per esempio, questi paesi potranno permettersi di avere salari più alti e maggiori tutele sociali.

Il paradosso degli investimenti
Tutti paesi destinano importanti risorse finanziarie per sostituire e incrementare la propria base produttiva. Mediamente è stanziato un flusso finanziario pari a quasi il 20% del pil, anche se tra i singoli stati si osservano importanti differenze, per lo più legate all’infrastrutturazione fisica (strade, ferrovie, altro). La Spagna è tra i paesi di area euro che destina il flusso finanziario maggiore, sempre in rapporto al pil. Questo paese destina quasi il 30% del pil nel 2008 negli investimenti. La maggiore propensione agli investimenti di questo paese si giustifica con l’effetto rincorsa verso i paesi migliori, tipico dei paesi in ritardo infrastrutturale. I paesi anglosassoni destinano agli investimenti quote inferiori: gli Usa il 17,6% nel 2008, con una flessione rispetto al 1998 di 2,3 punti percentuali; la Gran Bretagna il 19,9% nel 2008, con una flessione di 0,5 punti percentuali. Tutti i paesi di area euro, così come la Svezia, diversamente dai paesi anglosassoni, aumentano le risorse finanziarie destinate agli investimenti: la Germania stanzia in investimenti una quota di pil pari al 19,6% nel 2008; la Francia il 21,5%; la Svezia il 19,5%. In questa particolare classifica l’Italia non sfigura. Nel 2008 ha destinato alla voce investimenti fissi lordi una quota di pil pari al 20,8%, con una crescita rispetto al 1998 di 1,2 punti percentuali. Il mito delle imprese italiane poco attente agli investimenti è enormemente ridimensionato, se non capovolto nel suo esatto contrario. Anche nel settore privato in senso stretto gli investimenti non sono inferiori alla media dei paesi europei: meno 0,6 punti percentuali rispetto alla media dei paesi di area euro. Quindi, è inconfutabile la forte propensione negli investimenti del settore privato italiano; migliore di quella fatta registrare da paesi che sono indicati tra i migliori: il settore privato in Svezia destina il 15,7% del pil; la Francia il 18,2%; la Germania il 17,2%; la Gran Bretagna il 16,0%. Non si può proprio sostenere che il settore privato italiano in questi anni non abbia destinato risorse adeguate negli investimenti. Ma gli investimenti possono avere molte caratteristiche. È proprio l’analisi delle caratteristiche tecniche degli investimenti a mostrare i limiti di struttura del sistema economico privato. Destinare risorse finanziarie per gli investimenti significa innovare, ma un conto è incorporare sapere e saper fare, un altro conto è generare-realizzare sapere e saper fare.

Ricerca e sviluppo come scelta industriale e link della specializzazione produttiva
La quota parte degli investimenti destinata alla conoscenza e alla ricerca e sviluppo è un ottimo indicatore per misurare “qualitativamente” il sistema economico, anche se questo non significa minore attenzione alla ricerca e sviluppo quando le risorse stanziate sono più contenute della media europea. Semmai, la spesa in ricerca e sviluppo è un indicatore della specializzazione produttiva. E’ difficile credere che un imprenditore rinunci ad avere dei vantaggi di “mercato” legati alla ricerca e sviluppo di beni e servizi che il sistema industriale internazionale al momento non produce. Sostanzialmente le risorse destinate alla ricerca e sviluppo sono l’altra faccia della medaglia della specializzazione produttiva. La spesa in ricerca e sviluppo (gerd) dell’Italia nel 2007 è la più bassa tra i paesi di area euro, superata anche dalla Spagna che nel corso degli ultimi anni ha rafforzato la componente ricerca nella voce investimenti. Anche la Cina ha superato l’Italia nella spesa in ricerca e sviluppo nel 2007, sviluppando una competizione internazionale che sempre meno si fonda sul dumping sociale e sui bassi salari. Ora la Cina compete con l’Italia nei beni a medio contenuto tecnologico. La stessa cosa si può sostenere per la Russia, che lentamente comincia a uscire dal declino pre-post Urss.
Ma per l’Italia occorre domandarsi se livelli di spesa in ricerca così contenuta sia non solo adeguata, ma utile. Infatti, livelli così bassi di spesa difficilmente possono dare dei ritorni economici. Se viene meno una dimensione di scala minima, che stabiliamo al 2% del pil, cioè la media dei paesi industrializzati, probabilmente è molto più utile importare direttamente dall’estero l’innovazione tecnologica. In pratica, se il paese non raggiunge una soglia adeguata di ricerca e sviluppo, tutte le risorse finanziarie destinate a questa voce diventano un lusso insopportabile. Ma, allo stesso tempo, senza un’adeguata specializzazione produttiva non è possibile raggiungere livelli di scala adeguati. Un cortocircuito che “vincola” il sistema paese.
Il sistema delle imprese sembra avere compreso questo paradosso, rinunciando alla sfida internazionale. Rispetto a tutti i soggetti internazionali le imprese italiane spendono il 40% di tutte le risorse finanziarie destinate alla ricerca (gerd), contro il 65% della Svezia, il 68% della Germania, il 65% degli Stati Uniti, il 52% della Spagna e il 57% medio dei paesi di area euro. Solo in Italia la spesa in ricerca e sviluppo del pubblico è più alta di quella privata. Il paradigma economico italiano fondato sulla creatività e l’ingegno poteva avere delle giustificazioni in un periodo storico in cui prevaleva il saper fare e la cultura meccanica, ma la crescita dei beni capitali e intermedi di questi ultimi anni ha modificato in profondità il paradigma accumulativo. La sfida ambientale ed energetica promossa dall’Europa non farà altro che ridimensionare le prospettive di crescita dell’Italia, con delle ripercussioni sociali ancora tutte da declinare.
Che cosa si produce
La contabilità internazionale utilizza la destinazione della produzione come indicatore di “qualità” della produzione industriale. È un indicatore prezioso per comprendere lo spessore qualiquantitativo del tessuto industriale. Le principali “voci” della destinazione della produzione sono: beni capitali, intermedi e di consumo. Se prendiamo in esame un numero sufficiente di stati europei, quelli di area euro, è possibile osservare le principali caratteristiche dei singoli stati e per questa via osservare il posizionamento europeo dell’Italia. Attraverso lo studio della destinazione della produzione è possibile comprendere perché (1) l’Italia cresce meno degli altri paesi, (2) perché spende meno in ricerca e sviluppo e (3) perché i salari italiani sono tra i più bassi a livello europeo.
Se osserviamo la produzione industriale, l’Italia è allo stesso livello della Gran Bretagna, cioè nel corso di questi ultimi 10 anni (1998-2007) è cresciuta rispettivamente dell’1,5% e dell’1,3%, diversamente in Germania è salita del 24,9%, del 23,4% in Svezia, del 14,9% in Spagna e del 10,5% in Francia. In qualche modo la produzione industriale è lo specchio fedele della capacità di accrescere la produzione. Ma l’Italia è anche il paese che, al pari di altri stati, ha investito quote di pil in investimenti importanti. Perché questa dicotomia?
La risposta è rintracciabile dalla destinazione della produzione. La produzione di beni capitali in Italia ha valori positivi, anche se molto distanti dagli altri paesi di area euro: la Gran Bretagna segna un più 10,3%, la Germania un più 37,9%, la Francia un più 23,2%, la Svezia un più 51,3% e la Spagna un più 15,9%. L’Italia segna un modesto più 0,9%, cioè un risultato non solo modesto ma inquietante se pensiamo all’integrazione industriale europea e alla sfida energetica incombente. Anche nei beni intermedi si osserva la stessa dinamica, anche se i tassi di crescita rispetto ai beni capitali sono più contenuti: 30,2% per la Germania, 6,9% per la Francia, 15,1% per la Svezia, 14,9% per la Spagna, 0,6% per la Gran Bretagna. L’unico stato a fare registrare dei valori negativi è l’Italia con un meno 1,65%. La disponibilità di competenze nei settori a monte dei beni intermedi e di capitale ha delle evidenti ripercussioni nella produzione dei beni di consumo. Infatti, tutti i paesi europei hanno tassi di crescita positivi, mentre l’Italia è l’unico stato a segnare un meno 1,65%. La Gran Bretagna segna un più 3,24%, la Germania un più 6,43% e la Spagna un più 8,29%.
La tavola fotografa il posizionamento europeo del tessuto produttivo italiano, cioè la specializzazione produttiva, e giustifica gli alti investimenti nei beni capitali che sono, purtroppo, solo in parte realizzati in Italia. Non deve quindi sorprendere la bassa propensione alla ricerca e sviluppo e l’alto livello degli investimenti. Questa è una caratteristica tecnica tipica di chi si propone di compensare le importazioni di conoscenza con la vendita di beni di consumo.
Politica industriale pubblica
Senza cambiare il motore dell’economia italiana è difficile prefigurare una conversione dei processi accumulativi e, per questa via, una nuova crescita economica, soprattutto se prendiamo in considerazione gli obiettivi europei di politica industriale. Se la sfida energetica e ambientale per il mondo e l’Europa sono particolarmente difficili, la specializzazione produttiva delle imprese private italiane è un vincolo che nessun altro paese europeo ha nella stessa misura.
La crisi economica non solo ridimensionerà molte delle attività tipiche del made in Italy, che sono già deficitarie rispetto ai paesi che hanno piegato la propria struttura produttiva nei settori a maggiore contenuto tecnologico, ma molte di queste cesseranno la propria attività.
Il problema del paese non è solo il rischio di perdere milioni di posti di lavoro, sicuramente in misura maggiore di quanto accade nel 1992, piuttosto che in questi anni si è rinunciato a creare le condizioni necessarie per creare nuovi posti di lavoro.

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