Home / Archivio / lavoro / La lunghissima corsa dalla scuola al lavoro

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Archivio

Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito

La lunghissima corsa dalla scuola al lavoro

07/10/2008

E dopo il maestro unico, cosa aspetta gli studenti, "esploratori senza bussole"? Un'analisi del passaggio dall'istruzione al lavoro, a partire dai dati di Excelsior 2008

Oggi sono i rami “bassi” dell’istruzione il terreno dei duri interventi destrutturanti del governo, ed è naturale che l’opinione pubblica e l’articolato mondo che gira attorno all’educazione si concentri su questi temi. Non si spiega, invece, che l’opposizione non abbia finora neanche provato a collocare lo scontro su tempo pieno, maestro unico e dintorni dentro un ragionamento di respiro più largo, proponendo al paese una politica sull’istruzione, la formazione, e i loro rapporti con il lavoro.

Tra un paio di mesi, per esempio, le famiglie dei ragazzi che stanno concludendo la scuola media dovranno scegliere cosa fare dopo, che studi intraprendere, se nella scuola o nella formazione professionale. E anche per gli studenti dell’ultimo anno delle superiori si avvicina il tempo delle decisioni importanti. “Esploratori senza bussole”, vengono definiti da un recente studio sul rapporto tra percorsi formativi e prospettive occupazionali1. E in effetti in tantissimi casi le scelte si fanno al buio, senza informazioni adeguate, senza una valutazione dei talenti, delle propensioni, degli interessi, e anche del contesto economico-produttivo su cui quelle scelte finiranno prima o poi con l’impattare. Con effetti vistosi in termini di dispersione e abbandoni, e poi di difficoltà nell’inserimento professionale. La scuola, l’università, la formazione professionale servono, e fino a che punto, a trovare facilmente un’occupazione? Qual è il valore, oggi, dei titoli di studio nel mercato del lavoro? Perché restano a lungo senza lavoro anche quote importanti di laureati? E’ vero che i diplomati sono più richiesti dei laureati?

 

Da tempo cresce incessantemente la propensione dei giovani – quelli che resistono dentro i contesti formativi – ai percorsi “lunghi”, sempre più lunghi. Dei circa 450.000 studenti che ogni anno si diplomano, più o meno il 70% - quasi la totalità dei diplomati dei licei, il 49,6% dei tecnici, il 26,8% dei professionali – si iscrive all’università. Solo il 5% sceglie i corsi di alta professionalizzazione post-diploma, un’offerta formativa ancora troppo esigua e troppo poco conosciuta (anche dalle imprese). Solo il 25% entra direttamente nel mondo del lavoro. La corsa all’istruzione lunga, che svuota i tecnici e gonfia eccessivamente i licei e che soprattutto ritarda in modo abnorme l’ingresso dei giovani nel lavoro, è solo parzialmente contenuta dalla scansione in lauree triennali e specialistiche degli studi universitari, anche perché gran parte dei curricoli, inventati dalle università per ragioni che non hanno granché a che fare con il mondo del lavoro, non ha un profilo professionalizzante. Dei laureati triennali solo il 20,6% decide di non proseguire per entrare nel lavoro; e il 43,9% dei laureati quinquennali è orientato a studiare ancora. L’altra faccia della medaglia è che una quota importante degli immatricolati continua a perdersi per strada. Meno della metà raggiunge la laurea breve nei tre anni, gli altri accumulano ritardi o abbandonano per le difficoltà incontrate: perché la preparazione degli studi secondari è inadeguata o perché la scelta si rivela sbagliata. Molti, per paura di studi troppo impegnativi, si imbarcano in lauree “deboli”, di scarsa o nessuna spendibilità nel mondo del lavoro. Diversi fattori contribuiscono alla scelta dei percorsi lunghi, tra questi c’è anche il timore di misurarsi con un mercato del lavoro che sembra promettere soprattutto lunghe attese e estenuante precarietà. Ma ha certo un suo peso la convinzione che a titoli più alti corrispondano prospettive occupazionali migliori. E’ ancora così? Ed è così in ogni parte del paese?

 

Attorno a questi interrogativi gira una quantità di indagini e di studi. Alcuni si basano sull’accertamento della condizione occupazionale a una certa distanza dal conseguimento del titolo. L’ultima indagine Istat, per esempio, condotta nel 2004 sui diplomati 2001, segnala che circa un quarto di coloro che non studiano (e sono quindi “attivi” sul mercato del lavoro) è ancora alla ricerca di un impiego a tre anni dal titolo. Altre informazioni vengono dall’indagine Excelsior che intervista ogni anno 100.000 imprese con almeno un dipendente sulle assunzioni programmate per l’anno in corso2. Da quella relativa al 2008 emergono elementi che consentono di leggere l’evoluzione dei fabbisogni di professionalità delle imprese e di ricavare indicazioni per la progettazione formativa e per l’orientamento scolastico e universitario. C’è, intanto, una notizia non positiva, e cioè che sebbene calata di quasi 7 punti dal 2004 (e di 0,7 dal 2007), è ancora molto alta, pari cioè al 34,3%, - in valori assoluti 284.170 su un totale di 827.890 assunzioni - la quota di lavoratori per cui non si chiede nessuna qualificazione. Per cui basta il titolo minimo (scuola dell’obbligo) o si ritiene il livello di istruzione non rilevante. Un dato che dice molto sulla realtà economico-produttiva italiana e che, se appare rassicurante per quell’1% circa dei giovani che esce dalla scuola media senza licenza e per quel 20% che non termina i percorsi secondari, non dovrebbe però per nessuna ragione essere utilizzato per scoraggiarli a proseguire gli studi: perché la soglia di sapere che si raggiunge alla conclusione della scuola media è largamente al di sotto di quello che serve nel mondo di oggi per vivere con pienezza di cittadinanza e per lavorare (conservare il lavoro, crescere nel lavoro, accedere alle opportunità di formazione continua). Altri dati, viceversa, segnalano una tendenza crescente delle imprese a utilizzare personale con livelli alti e medio-alti di qualificazione. High Skills, secondo la denominazione Excelsior: in verità in prevalenza diplomati (40,5%: 11 punti in più rispetto al 2004 e 0,6 rispetto al 2007), mentre assai più lenta e modesta è la crescita della domanda di laureati (10,6%: 2,2 punti in più rispetto al 2004, 1,6 rispetto al 2007). Diminuisce invece la domanda di personale con qualificazione professionale: se nel 2004 era il 21,1% delle assunzioni programmate, oggi si precipita al 14,5%. Sfiducia delle imprese in questi percorsi formativi o schiacciamento verso il basso del valore dei diplomi tecnici e professionali quinquennali? Si conferma, comunque, che è l’area dei diplomati la più richiesta dalle imprese, in particolare da quelle che operano nella produzione, mentre è un po' più alta la richiesta di laureati da parte del terziario. Si tratta, ovviamente, di diplomati dell’istruzione tecnica e professionale.

 

Su questo interesse delle imprese a utilizzare soprattutto diplomati (e di quelle manifatturiere a privilegiare i periti dei tecnici industriali) si è basata, qualche anno fa, la forte azione di contrasto di Confindustria alla “licealizzazione” dei tecnici disegnata dal ministro Moratti, che li privava della spendibilità professionale dei titoli. Una battaglia corretta, a cui aggiungeva benzina l’allarme per l’inquietante calo di iscrizioni agli istituti tecnici avviatosi in verità anni prima. Ma i calcoli di Confindustria su dati Excelsior, tendenti a dimostrare che, tra diminuzione delle iscrizioni e crescita del tasso di passaggio dei diplomati tecnici all’università, alle imprese mancherebbero perché introvabili sul mercato decine di migliaia di periti l’anno, non sono mai stati convincenti. Non solo perché una parte di quelli che si iscrivono all’università non la conclude e quindi ingrossa a qualche anno dall’immatricolazione le fila dei neodiplomati in cerca di lavoro, ma perché – come precisa quest’anno Excelsior – se le imprese danno al titolo un valore di prerequisito per l’assunzione in determinate postazioni professionali, è però sempre più consistente la richiesta di un’esperienza professionale pregressa. Nel 2006 la domanda di lavoratori “al primo impiego” si attestava già su un livello piuttosto basso (26%), ma due anni dopo è scesa al 21%. La richiesta di “esperienza specifica” non è alta solo per il personale dirigente (91,9 %) e tecnico (70,4%), ma anche per gli operai specializzati (66,5%) e i conduttori di impianti (54,8%). Lo scarto tra domanda e offerta, dunque, non è solo quantitativo o solo territoriale (ad assumere di più, e più personale qualificato, sono le piccole imprese del Nord Ovest, mentre i tassi precipitano nel Mezzogiorno e nell’impresa media e grande), ma anche qualitativo. Le difficoltà di reperimento di determinate figure professionali denunciate dalle aziende (per certi profili e territori anche il 45%) derivano anche dalla scarsa fiducia in una formazione scolastica e universitaria giudicata troppo poco professionalizzante. Tant’è che per i nuovi assunti si prevedono azioni non solo di affiancamento/corsi (72,2%) ma anche di attività corsuali (24,7%), peraltro spesso impraticabili per le piccolissime aziende.

 

La richiesta delle imprese – in particolare delle piccole, che oggi assumono di più, ma sono anche le meno attrezzate a sviluppare formazione on the job – di trovare un personale già compituamente professionalizzato, è indubbiamente eccessiva. Vi si legge, fra l’altro, una preoccupante sottovalutazione delle competenze culturali e trasversali che dovrebbero sempre essere assicurate dall’istruzione, e altri tradizionali vizi nell’interpretazione della professionalità come mero adattamento alla prestazione: si sa, del resto, che al di là della retorica sull’economia della conoscenza, non è precisamente l’occupabilità – le possibilità di carriera, gli strumenti per cambiare lavoro – quello che gli sta a cuore (se fosse così sarebbero meno avare rispetto alla stessa formazione continua). Ma è vero che la scuola e l’università si tengono troppo al di qua delle competenze tecnico-operative e trasversali che servono al lavoro e ai lavoratori; e che molti tra gli stessi studenti lamentano uno squilibrio eccessivo, a favore delle conoscenze teoriche,nei curricoli di studio anche dell’istruzione tecnica secondaria e terziaria. Analogamente, come negare che nelle scelte dei giovani sui percorsi di studio pesino pregiudizi culturali e sociali avversi al sapere scientifico-tecnologico e, in molti casi, anche una preparazione inadeguata o demotivante rispetto a studi considerati più impegnativi di altri? Manca, del resto, nell’offerta formativa del paese, o è ancora troppo debole, un’ istruzione/formazione superiore di tipo non accademico; si perdono, nelle vicissitudini delle politiche del lavoro dall’uno all’altro governo, gli spazi e le risorse per percorsi di apprendistato effettivamente formativo e non solo finalizzato ad abbassare il costo del lavoro e ad assicurare flessibilità; non ci sono ancora dispositivi efficaci di formazione permanente e di certificazione formale delle competenze acquisite fuori dei percorsi di istruzione. E’ vero inoltre – anche questo ce lo dice Excelsior – che pur essendo in aumento la propensione delle aziende a stipulare contratti a tempo indeterminato (dal 45,4% del 2007 al 47,4% del 2008) e in calo la domanda di lavoro stagionale, è sempre troppo alta (42,6%) la quota delle assunzioni programmate a tempo determinato. Ci sono ottimi motivi, dunque, perché si alimenti tra i giovani la paura del lavoro, il desiderio di rinviare il momento di misurarsi con esso, la scelta di proseguire gli studi in attesa di tempi migliori, anche senza vera motivazione e disponibilità all’impegno. Sopratutto nel Sud, ma anche nel Centro-Nord. Mentre, tra blocchi ripetuti delle assunzioni e dei concorsi e precariati infiniti, anche sul versante del lavoro pubblico la situazione non è affatto incoraggiante.

 

Di tutto questo e di molto altro parla Excelsior 2008. Ma sono temi che oggi non appartengono alla politica. Né quella governativa, che si appresta ad usare la logica dei tagli anche nella scuola superiore e nell’educazione degli adulti e che ripropone il vizio antico di mettere al centro l’offerta piuttosto che la domanda. Né quella dell’opposizione. Ma che politica è – dell’istruzione e del lavoro – quella che non si occupa di quello che riguarda direttamente i giovani , le famiglie, il mondo del lavoro, le imprese? O che ne parla, a tratti, in modo generico e approssimativo? O che preferisce, quand’ anche se ne ricordi, vecchi e nuovi approcci ideologici?

 

 

 

 

 

1 Unioncamere,Ministero del Lavoro, Dopo il diploma, 2008.

 

2www.unioncamere.it

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti