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L'arbitro e l'arbitrio. Lo scontro sull'articolo 18
Articolo 18, la riforma proposta dal governo scardina il diritto dei lavoratori. Che si trovano così ad essere meno protetti proprio nel pieno della crisi economica
Niente legge, solo arbitri. O meglio niente giudici, saremo nelle mani degli arbitri, che magari non saranno “cornuti”, ma sicuramente faranno soldi a palate con i loro interventi in migliaia di controversie di lavoro. Si potrebbe sintetizzare con queste battute la nuova polemica sul tentativo di aggirare l’articolo 18, ma soprattutto molte altre norme che garantiscono il diritto del lavoratore contenuto nel disegno di legge 1167-b approvato dalle due Camere e ora in attesa (almeno al momento in cui scriviamo) del giudizio definitivo del presidente della repubblica, Giorgio Napolitano.
Gli arbitri, in questo caso, non sono ovviamente quelli che vediamo sui campi di calcio, ma i consulenti del lavoro che secondo la nuova legge dovranno dirimere le controversie di lavoro. Dire "niente legge" non deve sembrare un’affermazione offensiva per il governo o eccessivamente radicale e paradossale. Si tratta al contrario di un dato di fatto: le nuove norme prevedono infatti che al momento dell’assunzione venga chiesto esplicitamente al lavoratore di rinunciare per sempre al suo diritto di ricorrere alla magistratura in caso di contrasto e conflitto con il suo datore di lavoro, scegliendo al contrario la via dell’arbitrato. Una rinuncia preventiva a diritti individuali sanciti prima di tutto dalla Costituzione e poi dallo Statuto dei lavoratori (legge 300, 1970) e della norme che lo hanno seguito.
Una “grande innovazione”, secondo il ministro Maurizio Sacconi, che usa un argomento quantomeno singolare per difendere la sua legge. Noi non vogliamo comprimere alcun diritto, dice Sacconi, anzi diamo una possibilità in più al lavoratore visti i tempi biblici della giustizia.
Sulla materia si è detto tutto e il contrario di tutto, ma colpisce la distanza teorica e politica tra le affermazioni dei politici del centrosinistra e dei dirigenti della Cgil, unico sindacato contrario sia al ddl, che all’avviso comune firmato da Cisl e Uil e le affermazioni categoriche del ministro del lavoro, che parla addirittura in modo enfatico di una “piattaforma riformista” dalla quale solo la Cgil si sarebbe sfilata per eccesso di ideologismo e conservatorismo. Dall’altra parte abbiamo una nutrita schiera di giuristi del lavoro, costituzionalisti, esperti di diritto che parlano esplicitamente di carattere di incostituzionalità delle nuove norme. Lo hanno detto giuristi noti e meno noti, mentre un giudizio negativo è stato espresso anche da Tiziano Treu, sicuramente non catalogabile tra i radicali del settore e da Pietro Ichino, giurista, parlamentare del Pd e assertore di una semplicifazione delle norme che regolano i rapporti di lavoro. Secondo Ichino questo tipo di arbitrato contenuto nel provvedimento del governo – che tra parentesi non avrebbe nulla a che vedere con quello proposto da Marco Biagi – “non è costituzionale”. La norma prevede, ha spiegato con chiarezza il giurista, l’intervento diretto del ministro del lavoro per favorire il ricorso all’arbitrato, laddove il contratto collettivo di lavoro non arrivi (cosa che risulta poi abbastanza frequente). Nel contratto di assunzione può essere stabilito una volta per tutte che le eventuali controversie tra lavoratore e datore di lavoro dovranno essere risolte attraverso un arbitro e non un giudice.
A questo punto vengono in mente tre o quattro considerazioni collaterali. La prima è ovvia: perché un arbitro dovrebbe essere più imparziale di un giudice? E cosa si intende per imparzialità, visto che in gioco ci sono due parti, una forte e una debole? La seconda considerazione riguarda la scelta delle priorità. Le persone ragionevoli si chiedono come mai il quarto governo Berlusconi che non è riuscito a fare nulla di efficace contro gli effetti devastanti della crisi economica sia poi così monomaniaco nei suoi interventi sul lavoro. Un chiodo fisso sull’articolo 18 in un momento in cui i licenziamenti e la precarietà del lavoro non sono certo un bene raro nelle nostre società. Un’ostinazione a ripetere il copione dello scontro politico sull’articolo 18 che a quanto pare non ha davvero nulla di innovativo e moderno. Di tutto si sentiva il bisogno oggi, fuorché di una “riforma” che invece di allargare le protezioni, le riduce ulteriormente in favore – guarda caso – della logica del mercato e delle imprese che vogliono avere le mani libere.
La terza considerazione riguarda l’avviso comune. Per rispondere alla Cgil che ha gridato da subito contro l’attacco all’articolo 18, il ministro Sacconi ha fatto firmare agli altri sindacati un avviso comune in cui si esclude l’applicazione delle nuove norme in caso di licenziamenti. Quindi il sospetto è che nella prima stesura del ddl fosse prevista proprio la cancellazione del fatidico articolo 18. Infine, quarta considerazione laterale, a proposito della Cisl, sindacato da sempre contrario alla via legislativa e legato per storia alla via contrattuale. Il ricorso alla legge nelle materie di lavoro è sempre stato il diavolo per il sindacato cattolico. Ora invece con Sacconi la scena si è ribaltata e troviamo una Cisl nettamente schierata a favore della norma che introduce l’arbitrato a scapito della contrattazione collettiva e del diritto del lavoro. Misteri della fede.
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