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Compromessi forse, ma con diagnosi chiare

10/06/2013

Non è sbagliato cercare di trattare con l’Europa. È invece drammatico far partire le trattative affermando, come sembra fare il premier, che le posizioni egemoni in Europa sono corrette

Ci è stato detto e ripetuto che i compromessi vanno accettati in certi casi. Così in occasione del governissimo nelle parole del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio. Così, in precedenza, da parte del prof. Monti, in relazione alle trattative con la Commissione europea e con gli altri Stati membri dell’Unione. Il problema non è quello della accettazione dei compromessi, bensì quello di come si portano avanti le trattative, quando la presenza di discriminanti etiche fondamentali non le impedisca. Francamente vedo ovunque una costante pericolosa: i governi di sinistra (e più in generale quelli dei paesi in recessione) sembrano sempre far finta che le posizioni della Germania e dei suoi satelliti in Europa, per non parlare degli eurocrati, sono in fondo quelle giuste. In altri termini ci si presenta con il cappello in mano per ottenere qualche concessione.

Era plausibile, al momento dell’insediamento del prof. Monti, sostenere che prima di trattare l’Italia dovesse riacquisire una credibilità perduta. Almeno sul piano dei riconoscimenti formali l’abbiamo fatto e altrettanto plausibilmente con la costituzione del governo Letta l’abbiamo, agli occhi internazionali, confermato. Ma se, a questo punto, e dopo l’emergere di statistiche ed analisi che mostrano la vacuità delle posizioni tedesche ed eurocratiche in materia di austerità di bilancio, dobbiamo stringere sulle trattative, è opportuno farlo partire da punti di partenza chiari e ragionevoli; occorre inoltre che le proposte politiche siano corrette e fattibili e che la chiarezza dei punti di partenza venga mantenuta nel corso delle trattative e dopo la loro conclusione. Occorre cioè evitare che i risultati del compromesso vengano spacciati per “la cosa corretta”, sostanzialmente al fine di difendersi preventivamente, rispetto agli elettori, per la pochezza dei risultati ottenuti. Resta intatta l’ipotesi peggiore, e cioè che i Letta, gli Hollande e altri leader di paesi in recessione pensino davvero che l’austerità sia necessaria.

Ad uso e consumo di questi leader giova forse tornare a chiarire come stanno le cose alla luce dei più convincenti ragionamenti che girano in Europa a partire da analisi argomentate ed evidenze empiriche schiaccianti. Vorrei farlo collegando la questione dell’austerità a quella dei provvedimenti per l’occupazione giovanile di cui molto si parla da qualche tempo. Tutti sembrano dire che il problema della disoccupazione giovanile può e deve essere affrontato indipendentemente dalle politiche di bilancio, coinvolte solo nella misura in cui le politiche per la disoccupazione giovanile possono comportare maggiore spesa e quindi entrare in conflitto con i vincoli di bilancio già stabiliti.

Che il problema della disoccupazione giovanile sia prioritario non vi sono dubbi. Che abbassando il costo del lavoro, ceteris paribus, l’occupazione aumenti è diagnosi non corretta. Non vi è artigiano o commerciante o imprenditore industriale che non lo sappia, anche se i loro interessi più miopi ed immediati possono portarli a dire, del tutto opportunisticamente, il contrario. Pagare meno il lavoro fa comunque comodo ma non si parla di assumere se non esistono prospettive di vendita! Sul piano diagnostico non si può dire altro che il problema della disoccupazione giovanile è parte del problema della disoccupazione generale. È l’ingorgo all’ingresso che si crea se non vi è spazio nel bacino occupazionale perché questo si restringe.

Questa proposizione non è in contraddizione con quella che la disoccupazione giovanile è il problema prioritario. Tale priorità può quindi portare, del tutto correttamente, a sostituire occupazione giovanile a occupazione di lavoratori anziani o maturi. Alcune cose vanno tuttavia tenute presenti. Politiche discriminatorie possono avere effetti sulla produttività variamente contraddittori, magari diversi nel breve e nel lungo periodo e, ancora, diversi a seconda delle scelte produttive che vengono simultaneamente fatte o delle politiche pubbliche che vengono complementariamente praticate.

La disoccupazione dei giovani, protratta fino ad età matura è un dramma da molti punti di vista. Da un punto di vista strettamente economico il problema maggiore è l’esclusione e/o il ritardo nella socializzazione al lavoro dei giovani. Questa socializzazione include la formazione sul lavoro. Il capitale umano associato alle persone, in assenza di lavoro, si deteriora e/o non completa la sua formazione. Ciò restringe il campo delle future possibili iniziative imprenditoriali ed incide negativamente, pertanto, sulla capacità imprenditoriale e sulla produttività in futuro.

La formazione professionale fuori dal rapporto lavorativo non basta; essa è certo importante ma non sostituisce quella on the job, e comunque preliminarmente richiede apparati formativi all’altezza del compito. Gli apparati di formazione professionale, sia privati che pubblici, mai forti in Italia salvo limitate e notevoli eccezioni, si sono probabilmente impoveriti nei lunghi anni di stagnazione, lungo i quali le imprese hanno fortemente tagliato le spese di addestramento (tra l’altro disperdendo gli addestratori). Occorre quindi puntare ad un recupero delle funzioni formative delle imprese ed eventualmente alla ricostituzione di un apparato formativo pubblico, ma occorre essere consapevoli che queste cose sono possibili solo in tempi lunghi e che la cultura della formazione non si improvvisa, come le lunghe riflessioni e ricerche condotte in sede Cedefop insegnano. Contemporaneamente non vi è studio analitico sulle innovazioni che non ponga in evidenza il carattere strategico degli investimenti in alta formazione e in ricerca e i collegamenti tra ricerca ed attività industriali. Non sono cose che si improvvisano, dopo anni di tagli.

Sembra si conti di intervenire sulla disoccupazione giovanile in primo luogo diminuendo il cuneo fiscale tra remunerazione lorda e netta per i giovani. Non vi è da aspettarsi molto. Il cuneo fiscale è negativo essenzialmente perché è diverso tra paesi concorrenti e in Italia è particolarmente elevato. Del resto anche l’uso del gettito che deriva dal cuneo è nei diversi paesi diversamente efficace, sicché nel complesso la concorrenza ne risulta distorta. Sono questi elementi a dover portare a riflessioni più ampie su concorrenza e coordinamento delle politiche in Europa. Ma, ferma restando la domanda finale ai suoi bassi attuali livelli, l’abbassamento del cuneo non può portare ad un aumento rilevante dell’occupazione. Ed è invece scorretto, scorrettissimo, far finta che provvedimenti discriminatori a favore dell’occupazione giovanile siano provvedimenti per l’occupazione in generale.

Per risolvere i problemi della disoccupazione (senza aggettivi) servono politiche economiche espansive, ma non “qualsiasi” politica espansiva, bensì

a) o intraprese direttamente dalla Germania e dai suoi satelliti o, meglio,

b) intraprese a seguito della costruzione di un vero bilancio federale. È questa seconda strada, che contiene in sé l’opzione di un rilancio dell’Europa federale in contrasto con le tendenze alla fuga dalla costruzione europea attualmente prevalenti, a costituire la strada maestra. Purtroppo non è quanto i paesi che soffrono maggiormente degli effetti dell’austerità fiscale stanno chiedendo; essi si limitano infatti a chiedere

c) di poter praticare al loro interno politiche solo un tantino meno restrittive.

Ciò può solo alleviare le spinte recessive e la perdita di posti di lavoro. Una cosa è il meglio, altra è il meno peggio e tutto ciò va percepito e detto con estrema chiarezza.

Non è sbagliato cercare di “trattare con l’Europa”, anche facendo leva sul fatto di avere nel recente passato accettato le regole e fatto i sacrifici richiesti. E’ invece drammatico far partire le trattative e la ricerca di compromessi dicendo di pensare, come sembra fare il premier Letta, che le posizioni egemoni in Europa sono “corrette”. Si può compromettere in direzioni giuste solo conservando lucidità su ciò che è giusto o sbagliato.

Oppure occorre ammettere che il premier Letta parta da premesse sbagliate. A farlo pensare sono molte sue affermazioni. Non solo egli sembra davvero pensare che si può combattere la disoccupazione abbassando il cuneo fiscale. Pensa anche che sia meglio passare al presidenzialismo a seguito della cattiva prova fatta dalla nostra Costituzione nell’ultima tornata di elezioni presidenziali. Forte nelle diagnosi, il Presidente!

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