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Legge elettorale, il governo della minoranza

27/12/2013

Il confronto tra i partiti sulla legge elettorale. Perchè il modello francese potrebbe costituire una ragionevole mediazione tra le esigenze della rappresentatività e quelle della governabilità

L’attuale governo, se si contano i voti dei partiti che lo sostengono (e si accredita a Ncd un 8 per cento) rappresenta il 42,6 per cento dei votanti, e dunque non è un governo della maggioranza, ma della minoranza. Se poi si calcola, come sarebbe più corretto, quale percentuale degli aventi diritto al voto esso rappresenti, si scende al 32 per cento. Anche il precedente governo di larghe intese, pur rappresentando il 58,5 dei voti espressi, rappresentava solo il 43,8 per cento degli aventi diritto, ossia dei cittadini a cui un governo dovrebbe rispondere. Queste cifre mettono in chiaro i caratteri di fondo di uno spazio politico che è ormai tripolare e al tempo stesso disertato dal 25 per cento degli aventi diritto. Manca in questo momento nel paese la possibilità di una maggioranza naturale. Di conseguenza il problema principe di tutti coloro che competono - che pensano di competere in un non lontano futuro - per conquistare il governo del paese è quale sistema possa consentire di trasformare una minoranza dei voti alle elezioni in una maggioranza di seggi nel parlamento, e una maggioranza abbastanza coesa da consentire una navigazione del futuro governo in condizioni di stabilità, a quanto pare la stella polare di un paese in stagnazione. Naturalmente le diverse forze politiche hanno preferenze diverse a seconda delle caratteristiche dei propri elettorati, e soprattutto della loro distribuzione territoriale. Ma il principio - bisogna trovare, sotto spoglie democratiche, il modo di consegnare il governo a una minoranza - è condiviso.

Questa configurazione può spiegare perché le proposte dei partiti che arrivano al pubblico siano così incredibilmente vaghe, e quello che dovrebbe essere un dibattito tra opinionisti è anch’esso interamente dominato dal problema della governabilità, ossia della consegna del governo a una qualsiasi minoranza, con l’oscuramento pressoché totale del problema della rappresentatività, che pure nell’attuale situazione di sfiducia dei cittadini nelle istituzioni elettive e soprattutto in chi ne è parte dovrebbe apparire almeno altrettanto grave. Il problema della rappresentatività viene invece aggirato con un facile trucco verbale circa l’invocato maggioritario che dovrebbe salvarci dai guai del proporzionale. È quindi opportuno ricordare alcune banali verità circa i sistemi elettorali cosiddetti maggioritari, che sono appunto di varia natura, ma di per sé non possono garantire nessuna maggioranza parlamentare se non in presenza di due condizioni: in primo luogo che la competizione sia rigorosamente a due; e in secondo luogo che siano sempre gli stessi due partiti in tutti i collegi oppure che ci sia un collegio unico nazionale. Ad esempio, il sistema uninominale inglese (competizione di collegio in cui vince chi arriva primo, qualunque sia la percentuale di voti che ha preso), il quale pure già ha prodotto nella storia quasi sempre governi di minoranza (ad esempio, per tutto il periodo 1945-1990 i governi inglesi hanno rappresentato in media poco più del 41,4 per cento dei voti espressi) non la garantisce affatto. Di conseguenza, chi pensa alla possibilità di tornare alla legge Mattarella, con il suo 75 per cento dei saggi assegnati con l’uninominale all’inglese, già avverte che bisognerebbe aggiungerci anche un premio di maggioranza: un’ulteriore sproporzione dei seggi rispetto ai voti aggiunta al carattere sproporzionale della rappresentanza insito in questo tipo di uninominale. La cosiddetta proposta Violante, di cui abbiamo già parlato su Sbilanciamoci!, segue il percorso di ridurre a due soli i contendenti al secondo turno in un collegio unico nazionale. Dunque non è un qualsiasi sistema elettorale maggioritario di per sé che nella situazione presente può garantire la desiderata governabilità, ma solo un maggioritario ulteriormente manipolato al fine di consegnare il governo a una minoranza.

L’invocazione di un maggioritario è tuttavia parte essenziale dell’inganno nei confronti dei cittadini, che forse sono desiderosi solo di essere governati purchessia, ma forse desiderano anche che le loro scelte contino qualche cosa nella formazione del parlamento e del governo. A questo si risponde sventolando il maggioritario in un altro senso, ossia come principio di maggioranza - decide la metà più uno. Renzi si è distinto, senza peraltro essere l’unico, nel far balenare un magnifico obiettivo democratico: un sistema elettorale che il giorno dopo le elezioni dica ai cittadini qual è il governo che il popolo ha scelto - governo il quale, s’intende, essendo stato così chiaramente votato, potrà procedere senza indugi e lungaggini a realizzare il programma che era stato proposto. Come se il legislativo avesse l’unico compito di tenere in carica un governo, il quale poi si incarica del “fare”, secondo la retorica di Letta. Siccome il principio di maggioranza è un fondamento della democrazia, ecco che con l’abbaglio di questa decisiva semplicità si nasconde che quel governo sarebbe il governo della minoranza di una minoranza, perché nell’attuale configurazione dello spazio politico italiano solo un sistema elettorale che produca enorme sproporzione tra voti e seggi potrebbe garantire quel risultato netto.

Nell’attuale situazione politica quale legge elettorale può augurarsi il cittadino preoccupato per la democrazia costituzionale e privo di illusioni circa la disponibilità dei tre maggiori partiti a trovare una soluzione ragionevolmente equilibrata tra l’esigenza della rappresentatività e quella della governabilità? A mio avviso ci sono buone ragioni per pensare che la copiatura pura e semplice della legge elettorale francese sia il meglio che ci possa capitare. L’elezione uninominale a doppio turno di collegio adottata in Francia (non solo nella V Repubblica, ma anche dal 1870 al 1940, con qualche variante) ha alcune caratteristiche importanti di cui poco si parla. In primo luogo per l’elezione al primo turno si richiede non solo la maggioranza assoluta dei voti espressi, ma anche il 25 per cento degli aventi diritto, proprio per evitare che venga eletto troppo facilmente chi rappresenta solo una minoranza. Nelle elezioni del 2012 quattro candidati non furono eletti al primo turno perché avevano raggiunto il primo requisito, ma non il secondo (traggo questi dati da un ottimo rapporto del Servizio studi del Senato, settembre 2013, sui sistemi elettorali). In secondo luogo, al secondo turno non accedono solo i due candidati con il miglior risultato, ma tutti quelli che abbiano raggiunto un numero di voti pari almeno al 12,5 per cento degli elettori iscritti; al secondo turno si è avuta quindi quasi un cinquantina di potenziali competizioni triangolari. Con un tasso di astensionismo dell’ordine di quello italiano questo vuol dire dover raggiungere una percentuale di voti espressi intorno al 16-17%.

La legge francese comprende quindi almeno due dispositivi che mirano sia a evitare elezioni con minoranze troppo esigue sia a non scoraggiare potenziali elettori di raggruppamenti minori, che non possono sperare di essere tra i primi due, ma possono puntare ad arrivare al secondo turno. Tra il primo e il secondo turno si apre quindi un processo politico. In un sistema che di per sé premia la concentrazione territoriale di alcune forze politiche minori, un altro vantaggio va alla capacità di fare accordi e di stringere alleanze che portano a desistenze. Questo spiega perché il Front national, nonostante i suoi tre milioni e mezzo di voti al primo turno abbia solo due eletti al secondo turno, di fronte a una rappresentanza molto maggiore di altre forze di destra con un numero molto inferiore di voti: nessuno si allea con il Front national, e questa è un’assunzione di responsabilità dei partiti che non abbiamo visto, ad esempio, da parte di Forza Italia in elezioni fatte con la legge Mattarella.

Alle elezioni francesi del 2012 questo complesso di norme ha dato quasi la maggioranza assoluta dell’Assemblée al Ps, ma non gli ha consentito di raggiungere la soglia agognata dai politici italiani, e dunque il partito vincitore si trova a patteggiare con qualcuno. Anche se si tratta di un governo di minoranza la sproporzione dei seggi rispetto al numero di voti ottenuti è limitata: dei 541 seggi in palio al secondo turno il Ps ha ottenuto il 47.7 con una percentuale di voti del 40.9 (più i 22 ottenuti al primo turno con maggioranza assoluta). Al tempo stesso la composizione complessiva del legislativo, non in termini di forza, ma di presenza, è risultata sufficientemente articolata rispetto alla configurazione dei gruppi politici nel paese. Non si tratta di pensare che tutte le forze politiche minori in Italia, che secondo i progetti elettorali che circolano sarebbero impietosamente lasciate fuori dal parlamento, siano particolarmente meritevoli; ma di scegliere un sistema elettorale che non ponga una soglia insuperabile alla presenza, oggi o domani, di tutti coloro che non fanno parte dei due partiti o coalizioni maggiori, che non richieda un eccezionale scoppio di rabbia, come è avvenuto nel 2013. S’intende che non bisogna illudersi che una legge come quella francese produca automaticamente risultati altrettanto equilibrati in un sistema politico disfunzionale come quello italiano: ma sicuramente meglio che non il governo della metà della metà.

 

 

 

 

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