Home / Archivio / democrazia / I democratici e le deleghe in bianco

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Archivio

Ultimi articoli nella sezione

08/12/2015
COP21, secondo round
di Lorenzo Ciccarese
03/12/2015
Lavoro, la fotografia impietosa dell'Istat
di Marta Fana
01/12/2015
La crisi dell’università italiana
di Francesco Sinopoli
01/12/2015
Parigi, una guerra a pezzi
di Emilio Molinari
01/12/2015
Non ho l'età
di Loris Campetti
30/11/2015
La sfida del clima
di Gianni Silvestrini
30/11/2015
Il governo Renzi "salva" quattro istituti di credito
di Vincenzo Comito

I democratici e le deleghe in bianco

11/10/2014

Il partito di Renzi aspira a essere fortissimo nei confronti delle istituzioni mentre vuole apparire debolissimo in quanto associato nell’immaginario allo stato, che è bene che sia debole

La notizia, per ora generica, del crollo delle iscrizioni al PD, è stata accompagnata dal coro quasi unanime di lodi alla modernizzazione, inevitabile, e da rare considerazioni sulle conseguenze dell’ormai avvenuta mutazione genetica tenacemente perseguita da molti esponenti della vecchia ditta. Il Pd stesso ha reagito in due modi contraddittori, negando il fatto (il vicesegretario), esaltandolo (il segretario). Come al solito, per lodare l’ennesimo caso di pseudo-democrazia moderna, i corifei hanno tirato in ballo presunti modelli politici anglosassoni (gli americani e gli inglesi hanno due sistemi completamente diversi).

Nei giorni in cui il Senato vota una delega in bianco al governo sul diritto del lavoro sarà utile ricordare alcuni fatti. Non appena cominciarono critiche di merito al progetto di legge elettorale del governo, Renzi cominciò a rispondere che aveva il mandato di tre milioni di elettori: un po’ pochi per la bisogna, ma nessuno stette a ricordare la volgarità che al secondo turno delle primarie del Pd 2013 i votanti erano meno di tre milioni, e che per lui votarono in 1.900.000 (neppure 200.000 più che per Bersani nel 2012), i quali è improbabile che conoscessero un progetto preciso di legge elettorale in quanto diverso dall’obbiettivo di cambiare l’abbietta legge vigente. Per l’aborto del nuovo Senato e l’attuale ferrea volontà di restituire al padronato italiano l’extraterritorialità legale nei luoghi di lavoro, tutti mezzi di disinformazione hanno fedelmente ripreso la pretesa di Renzi di avere un legittimo mandato di agire contro ogni procedura parlamentare e contro ogni ragionevole richiesta di riflessione in quanto titolare del 41% alle elezioni europee. I corifei hanno ripetuto fino alla nausea che mai il Pd o i Ds o il Pds, e men che meno il Pci, era arrivato a un simile risultato: la sinistra che finalmente vince, una svolta epocale. Il 40,81% di queste elezioni corrisponde a 11.172.861 voti, ossia il 23,9% degli aventi diritto, dal momento che l’affluenza al voto è stata solo del 58,69%. In realtà questi undici milioni e rotti di voti rappresentano la dimensione pressoché stabile dei votanti che dalle elezioni del 2001 si riconoscono nell’alleanza più o meno organica di ex-Ds ed ex-Margherita, dagli 11 milioni e mezzo di quell’anno ai quasi 12 del 2006 ai poco più di 12 del 2008. Naturalmente la composizione dell’elettorato è cambiata non solo anagraficamente, ma anche come orientamento politico. Tuttavia è bene ricordare che il Pci aveva la stessa dimensione elettorale, anche senza scomodare il picco dei 12 milioni e mezzo del 1976, quando andò a votare il 93,40 degli aventi diritto. Anche se Renzi, in un quadro politico straordinariamente favorevole, ha ripreso una parte dei voti persi da Bersani nel 2013 (non tutti), evidentemente la deriva maggioritaria che già nel 2004 aveva imposto la soglia di sbarramento del 4% alle elezioni europee (quale esigenza di governabilità?) non ha portato bene al Pd. In effetti la legge elettorale che sta passando alle Camere sembra far parte di una strategia in cui è implicito che il Pd non potrà aumentare significativamente la dimensione del proprio elettorato e dovrà contare su una legge elettorale manipolativa. Nella fisiologia di una democrazia liberale una maggioranza parlamentare ottenuta in questo modo dovrebbe portare poi a cercare una più ampia legittimazione in tattiche di mediazione, contrattazione e compromesso, che è ciò che Renzi detesta di più. Perciò il rimando allo strabocchevole consenso di corpi elettorali indeterminati, o misurati nel modo più utile, o non misurabili affatto, è il secondo perno della strategia politica di chi va di fretta.

Su questo terreno la sequenza è cominciata con le primarie del 2013, quando il piccolo azionista deciso a lanciare un’opa ostile su una vecchia ditta in difficoltà pretese e ottenne dal debole e colpevole management in carica che votassero non solo gli azionisti, ma la platea indeterminata di tutti gli stakeholders, fornitori e consumatori, e magari ditte concorrenti ma interessate alla possibile, o già nota, linea di prodotti dell’eventuale nuovo amministratore delegato. È stata una procedura mai vista prima: né nelle società per azioni né nei partiti. Che Renzi sia felice del crollo di iscritti al suo partito è quindi del tutto ovvio, purché nessuno osi mettere in dubbio il potere assoluto del gruppo dirigente del partito eletto con quella inaudita procedura di imporre una rigida disciplina di partito ai gruppi parlamentari di cui si considera proprietario. In questo quadro un partito di piccoli numeri, con iscritti che si sono autoselezionati per adesione al progetto renziano, non vuol dire assolutamente partito debole, vuol dire partito compatto, fedele, e finalmente ridotto senza alcun superfluo alla funzione reale esercitata in questi anni, quella di agenzia di selezione e collocamento per meriti non virtuosi, e quindi agile a muoversi.

Non occorre avere nessuna illusione, o nostalgia, per la vecchia ditta e per quanto contassero in essa la presenza, le opinioni, il lavoro degli iscritti, per vedere che il partito falange di professionisti non è un ingranaggio funzionale in una democrazia in assenza di qualche altro ingranaggio. Lo si può vedere anche solo con uno sguardo al modello americano (non penso che il sistema americano sia un gran bell’esempio da imitare, ma consente di vedere una fisiologia a contrasto con le deformità istituzionali che partoriscono i politici italiani quando si coprono con cascami casuali di sistemi altrui). Il presunto partito come comitato elettorale ad attività intermittente (falso, ma non importa qui) è coerente solo con un sistema elettorale a collegio uninominale con primarie, il quale non è propriamente un sistema maggioritario, in quanto solo casualmente trasforma una minoranza del voto in una maggioranza dei seggi. Negli Stati Uniti le primarie sono normalmente chiuse, in quanto bisogna registrarsi come elettori del partito; solo in pochissimi casi sono aperte, con le ovvie conseguenze di comportamenti opportunistici dei militanti (si veda quel che è successo in questi giorni nelle primarie del Pd per il candidato governatore della Calabria). Per il bene e per il male, la fondamentale scelta se provare a vincere al centro o con una netta scelta di parte è il frutto di una tensione più o meno forte tra il partito e i suoi militanti, non di una decisione centrale (come è noto, Obama non era la scelta del partito democratico per quella elezione: facesse la debita gavetta). I posti sono pochi, e quindi i candidati hanno un’alta visibilità per gli elettori: trecento deputati per una popolazione di più di trecento milioni. Sarebbe un bell’esempio da seguire per diminuire il numero e il costo di tutti quei fastidiosi parolai, a cui poi bisogna impedire di parlare. A proposito, nel senato americano vige l’insensata regola che, se la maggioranza non gode dei due terzi dei seggi, l’ostruzionismo della minoranza è praticamente senza limiti.

Questa dialettica che si attiva in particolare alle scadenze elettorali sta dentro un sistema politico disseminato di trappole per i professionisti in carriera: referendum propositivi a tutti i livelli, salvo quello federale. Soprattutto, i partiti negli Stati Uniti, paese la cui costituzione è nata in una cultura politica ossessionata dal pericolo delle “fazioni” e che non li nomina mai, sono separati dalle istituzioni da una barriera impensabile in Italia dove i partiti hanno penetrato le istituzioni in maniera sempre più corruttiva. Lo scambio corrotto esiste ovviamente anche negli Stati Uniti, ma provate a immaginarvi lì il detentore di un’importante carica pubblica che sia anche il segretario di un importante partito. La questione del partito debole o forte è insensata se non si dice forte nei confronti di chi e debole nei confronti di chi, per fare che cosa o astenersi dal fare che cosa. Il partito di Renzi, un’unica decisiva volontà, aspira a essere fortissimo nei confronti delle istituzioni tutte, con la loro arcaica pretesa di bilanciare i poteri; vuole apparire invece debolissimo in quanto associato nell’immaginario allo stato, che è bene che sia debole.

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui

Commenti