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Marco Buti vs Renzi. O no?
Renzismo alla prova/Il Direttore per gli affari economici della Commissione europea raccomanda di guardare alla Germania che «ha ridotto la disoccupazione anche durante la crisi». Ma il semestre italiano può essere l'occasione per chiarire se la visione renziana della società si differenzia, come e quanto, da quella dei nostri tecnocrati europei
In un'intervista a Repubblica, il primo giugno scorso, è stato chiesto a Marco Buti, Direttore generale per gli affari economici e finanziari della Commissione europea, se l'Europa insisterà nel pretendere dall'Italia una compressione dei conti pubblici in presenza di una disoccupazione «strutturale» dell'11%. Autorevolmente è stato risposto che, a differenza della Spagna, per l'Italia la stima della Commissione «è sostanzialmente corretta, è proprio tutta disoccupazione strutturale, o quasi» e che, se la disoccupazione dovesse scendere al di sotto di quel livello, si genererebbero pressioni inflazionistiche «non immediatamente quando inizia la ripresa, ma nel medio termine sì.»
Il che significa che, fino a che la disoccupazione rimane a questi livelli, il governo italiano sarà costretto a ridurre il deficit pubblico e a deprimere la domanda (che, come noto, non ha per la Commissione alcun effetto rilevante). A giustificazione di questa politica, l'economista Buti raccomanda di guardare la Germania che «ha ridotto la disoccupazione anche durante la crisi»; e, alla perplessità dell'intervistatore che osserva che è difficile chiamare occupazione una situazione «di 7 milioni di mini-job, quasi un quinto degli occupati, a 450 euro al mese», la risposta è «Beh, meglio quella che niente».
Un'intervista istruttiva che, nella stringatezza del bravo intervistatore, offre alcuni spunti di grande interesse. Innanzitutto che Marco Buti è un fiorentino, laureatosi in Italia, master a Oxford, visiting professor in diverse università europee e che dal 1987 lavora alla Commissione europea dove diventa nel 2006 Direttore Generale aggiunto. Se si desidera un ritratto del funzionario che «tecnicamente» gestisce la politica economica europea, la sua visione «politica» mi sembra emblematica.
Eppure non è tedesco, ma uno dei tanti italiani, spagnoli, finlandesi, portoghesi, francesi e anche tedeschi che, formatisi in giro per il mondo, costituiscono la nuova classe (tecno)dirigente europea (se non globale). Si autodefinisce «keynesiano» (anche se «ragionevole») in quanto aderente a quel New Keynesian Consensus che mi sembra abbia poco a che fare con Keynes.
Basti pensare a come esprime la sua sensibilità sociale e politica con tutta la franchezza di chi non ha dubbi: l'Italia nel medio periodo (5-10 anni?) non può aspettarsi di adottare alcuna politica economica che gli permetta di ridurre la sua disoccupazione strutturale al di sotto del 10%.
Ovviamente, Buti sa che il 10% è una media, per cui quella del nostro Sud sfiora il 20%, non molto lontana da quella della Spagna (e dei problemi che sono stati posti alla Commissione per i suoi metodi di calcolo).
Ma soprattutto sa anche che ai 3 milioni di disoccupati strutturali si sommano un certo numero di precari, inattivi, scoraggiati e Neet che, complessivamente, non sono molto minori di quei 7 milioni di tedeschi, senza disporre peraltro nemmeno dei 450 euro di sussidio al mese. E, nonostante tutto questo, non gli sembra che questo sia un problema (dimenticando forse che, per Keynes, questo era «il» problema).
Per una classe dirigente ragionevole (non solo italiana, ma anche europea, che nel complesso non sta molto meglio) questa situazione dovrebbe essere da incubo. Non si sfugge allora ad alcune domande nodali.
Quando il nostro Primo Ministro, dice programmaticamente «prima di tutto il lavoro» pensa a soluzioni diverse da quelle della dirigenza europea? Ritiene di continuare a non voler avanzare – come sostiene Buti – alcuna contestazione su una metodologia e una politica economica così «recessiva»?
Crede che il problema dell'occupazione si risolva tutto dal lato dell'offerta, ovvero che, sebbene non abbia prodotto un posto di lavoro in più, «la strada è quella ... delle riforme del mercato del lavoro» (Buti, Commissione europea, dixit)?
Pensa che politiche di aumento della produttività e di riduzione del costo del lavoro, per quanto necessarie alla crescita della produzione, siano le sole in grado di risolvere nel medio e lungo periodo il problema della crescita dell'occupazione (nel breve – 2/3 anni – nessuno si azzarda a sperare in qualcosa di più del contenimento delle perdite di occupazione)? Ma soprattutto, ritiene che attraverso queste politiche si possa frenare il deterioramento/precarizzazione delle relazioni sociali? Penso che queste siano le questioni decisive e urgenti; il semestre italiano può essere l'occasione per chiarire se la visione renziana della società italiana futura si differenzia, come e quanto, da quella dei nostri tecnocrati europei.
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