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La trappola del Fiscal compact

10/03/2014

Per mezzo dell’invenzione del bilancio strutturale, il Fiscal compact prima, il six pack e il two pack poi, hanno eliminato definitivamente anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht. Condannando così l’Europa all’austerità permanente

Si parla tanto del Fiscal Compact ma pochi sanno come funziona veramente. E non solo in Italia. Nei corridoi di Bruxelles la voce che gira è che il testo completo del patto “l’hanno letto in 10 e capito in 3”. Quanto c'è di vero, dunque, su quello che si sente in giro?

Tanto per cominciare, c’è da dire che il Fiscal Compact di nuovo introduce molto poco. Il testo poggia in buona parte sul Trattato di Maastricht (1991) e sul patto di stabilità e crescita (1999) – le tavole su cui sono incise le sacre regole di bilancio dell’Ue –, e poi riprende e integra un insieme di disposizioni proposte dalla Commissione nel periodo 2010-11 e per la maggior parte già adottate dal Consiglio e dal Parlamento europeo, come il Patto per l’euro e in particolare il six-pack e il two-pack.

Com’è noto, il Trattato di Maastricht – successivamente rafforzato dal Patto di stabilità e crescita – si componeva di due “regole d’oro”:

  • Il divieto per gli stati membri di avere un deficit pubblico superiore al 3% del Pil. Questo limite risultava l’unico soggetto a sanzioni in caso di mancato rispetto: la Procedura per deficit eccessivo (Pde) obbligava i paesi “in difetto” a intraprendere una politica di restrizione fiscale e a rendere conto delle sue decisioni in materia di spesa alla Commissione e al Consiglio e infine, eventualmente, a pagare una sanzione.
  • Il divieto di avere un debito pubblico superiore al 60% del Pil. Superato questo limite, i paesi “in difetto” dovevano avviare delle politiche correttive. Ma questo vincolo non prevedeva procedimenti sanzionatori.

I pacchetti di regolamenti six-pack e two-pack – entrambi approvati dal Parlamento Europeo – hanno poi introdotto nell’ordinamento europeo l’obbligo del “pareggio di bilancio strutturale” e la sorveglianza multilaterale sui bilanci degli stati membri (che in futuro avranno l’obbligo farsi pre-approvare le finanziarie dalla Commissione).

Di fatto, quello che fa il Fiscal Compact è estendere, rafforzare e radicalizzare la normativa esistente (a partire dal Patto di stabilità e crescita), e istituzionalizzare su base permanente il “regime di austerità” che è stato imposto in Europa in seguito alla crisi.

Il cuore del Fiscal Compact è l’articolo 3.1, che riguarda il famoso “pareggio di bilancio”. Esso afferma che “la posizione di bilancio della pubblica amministrazione di una parte contraente [deve essere] in pareggio o in avanzo”; questa regola si considera soddisfatta se il deficit strutturale annuale delle amministrazioni pubbliche risulta inferiore allo 0,5% del Pil. I paesi devono garantire una convergenza rapida verso questo obiettivo, o verso l’obiettivo di bilancio di medio specificato per il singolo paese, secondo una forcella stabilita tra il -1% del Pil e il pareggio o l’attivo. I tempi di questa convergenza verranno definiti dalla Commissione. I paesi non possono discostarsi da questi obiettivi o dal loro percorso di aggiustamento se non in circostanze eccezionali. Un meccanismo di correzione è avviato automaticamente se si individuano forti divergenze; ciò comporta l’obbligo di adottare misure volte a correggere queste deviazioni in un periodo determinato.

Ma cosa si intende esattamente per “bilancio (o deficit) strutturale”? Secondo la logica alla base del Fiscal Compact, sussiste un deficit strutturale quando un paese continuare a registrare un deficit pubblico anche se la sua economia sta operando al “massimo potenziale”. Si tratta in sostanza di un indicatore che dovrebbe permettere alla Commissione di giudicare se il deficit pubblico di un paese sia dovuto alla congiuntura economica – come nel caso di una crisi economico-finanziaria, per esempio –, nel qual caso potrebbe essere eliminato per mezzo della crescita; o se invece sia “strutturale”, ossia continuerebbe a sussisterebbe anche se il paese riprendesse a crescere e arrivasse ad operare al massimo potenziale. La premessa è che in condizioni economiche “normali” un deficit è considerato “normale” se non supera lo 0,5% del Pil. Questa idea riflette la visione neoliberista della politica di bilancio come di una politica “neutrale”, che non è né espansiva (attraverso un’iniezione di reddito all’interno del circuito economico) né recessiva (mediante un aumento del risparmio pubblico).

Ovviamente, per valutare quale sarebbe il deficit in assenza di una recessione o in caso di ripresa economica, serve una teoria. Quale sarebbe il livello della produzione – gli economisti la chiamano la “produzione potenziale” – se la situazione fosse “normale”? Più la differenza tra la produzione reale – quella che viene misurata – e la produzione potenziale è significativa, più la parte considerata congiunturale del deficit risulterà rilevante, e più il deficit strutturale verrà considerato basso. E viceversa. Questa differenza è chiamata nel gergo della Commissione “output gap”. Supponiamo che uno stato membro registri un tasso di crescita dello 0,5% e un deficit pubblico del 3% (quindi in linea con i parametri di Maastricht); la Commissione potrebbe stabilire, secondo i suoi calcoli, che se l’economia del paese in questione operasse al massimo potenziale il deficit – quello strutturale, appunto – sarebbe del 2% (in questo caso l’output gap – ovvero la percentuale del deficit imputabile alla congiuntura economica – sarebbe di -1%), e dunque il paese dovrebbe effettuare una manovra fiscale equivalente all’1,5% del Pil, per mezzo di un consolidamento di almeno lo 0,5% del Pil l’anno, per portare il deficit strutturale entro i limiti imposti dello 0,5% del Pil (pur, ripetiamo, rispettando i parametri di Maastricht). Gli stati possono temporaneamente deviare dall’obiettivo del pareggio di bilancio strutturale o dal percorso di aggiustamento solo nel caso di “circostanze eccezionali”, ossia eventi inusuali che sfuggono al controllo dello stato interessato e che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione, oppure in periodi di grave recessione – nel qual caso anche la Commissione sarebbe costretta ad ammettere l’esistenza di un significativo output gap congiunturale –, “purché la deviazione temporanea della parte contraente interessata non comprometta la stabilità del bilancio a medio termine”. E comunque, appena quel paese uscisse dalla recessione e ricominciasse a crescere, anche di poco, l’output gap si ridurrebbe, e il paese sarebbe costretto a ridurre nuovamente il deficit (per mezzo di ulteriori tagli alla spesa). Tornando all’esempio di prima, se il paese in questione aumentasse il suo tasso di crescita dell’1% (arrivando al suo “massimo potenziale” di 1,5%) e il suo deficit pubblico rimanesse invariato al 3%, l’output scenderebbe a 0, e di conseguenza il deficit strutturale arriverebbe a coincidere col deficit effettivo (3%), costringendo il paese a una manovra ancora più pesante (pari al 2,5% del Pil). In sostanza, il Fiscal Compact costringe i paesi a implementare misure di austerità sia in tempi di recessione o di bassa crescita che di crescita sostenuta (soprattutto in questi casi).

Questo presenta una serie di problemi. Il primo è di ordine teorico, nel senso che non esiste nella teoria economia un metodo generalmente accettato per misurare la “produzione potenziale” di un paese. In base all’approccio liberista, a cui si ispira la Commissione, se la produzione ha un calo non è dovuto tanto a un’insufficienza della domanda quanto a problemi di offerta (produttività o competitività insufficiente, salari troppo elevati, mercato del lavoro troppo rigido, ecc.), e dunque non è possibile avere una produzione molto maggiore allo stato attuale; la componente ciclica del deficit in questo caso è minima, e quello che serve sono invece “riforme strutturali” e ulteriori tagli alla spesa. Questo metodo tende a sottovalutare il divario tra la produzione reale e la produzione potenziale, particolarmente nei periodi di recessione. A tal proposito è interessante notare che secondo i calcoli della Commissione, tra il 2008 e il 2014 il bilancio strutturale non è mai andato vicino al pareggio in nessuno dei paesi della periferia (eccetto la Grecia, per effetto delle pesantissime misure di austerità), di cui tutto si può dire fuorché che non abbiano riscontrato una “grave recessione”. E questo nonostante il fatto che prima della crisi alcuni di questi (Irlanda e la Spagna) – sempre secondo la Commissione – registrassero deficit (sia effettivi che strutturali) vicini allo zero o addirittura in avanzo.

Il secondo problema è di ordine politico, nel senso che, proprio perché non esiste alcuno strumento per misurare oggettivamente il bilancio strutturale di un paese – a differenza del bilancio effettivo –, è la Commissione a decidere, secondo dei parametri del tutto arbitrari (e molto discutibili), quale sia il livello del suddetto bilancio, e a imporre le misure correttive necessarie. Ed è sempre la Commissione, tramite le sue previsioni, a stabilire se e quanto l’economia di un paese è destinata a crescere l’anno seguente, e a chiedere sulla base di quelle previsioni misure di austerità “preventive”, in vista della riduzione dell’output gap. A tal proposito va ricordato che la Commissione è celebre per la sua tendenza a sovrastimare clamorosamente le prospettive di crescita degli stati membri. Va specificato che la Commissione può anche stabilire che un paese sta operando al di sopra del suo massimo potenziale, il che determinerebbe un output gap positivo e un conseguente peggioramento del bilancio strutturale. Supponiamo che un paese cresca a un ritmo del 2,5% e registri un bilancio pubblico di -0,5% (quindi praticamente in pareggio); la Commissione potrebbe stabilire che l’economia è di 0,5% al di sopra del suo potenziale massimo di 2% (perché, per esempio, il livello di disoccupazione è sceso al di sotto di quello che Commissione ritiene essere il “tasso naturale” per quel paese). In quel caso l’output gap sarebbe anch’esso di +0,5%, risultando in un deficit strutturale dell’1%. Con la conseguenza che il paese, pur avendo un bilancio in pareggio o quasi, sarebbe comunque costretto a effettuare una manovra dello 0,5% del Pil. In definitiva, possiamo concludere che non ci sono conti pubblici che tengano, per quanto “in ordine”, di fronte ai “calcoli” della Commissione. Ma c’è di più: anche nel caso in cui un paese registri un bilancio strutturale in pareggio, la Commissione può lanciare una Procedura per deficit eccessivo semplicemente sulla base della previsione che il deficit tornerà a crescere. È quello che la Commissione chiama il “braccio preventivo” (che va a complementare il “braccio correttivo”, che viene attivato nel caso di uno sforamento): una sorta di equivalente fiscale della nozione di “precrimine” immaginata da Philip Dick nel suo racconto Rapporto di minoranza.

Il terzo problema è di ordine costituzionale, nel senso che il Fiscal Compact – imponendo l’obbligo del pareggio o quasi di bilancio strutturale – parrebbe violare il Trattato di Maastricht, che in tutte le sue successive versioni, da quella originaria del 1992 a quella di Lisbona del 2007, ha sempre previsto un margine di deficit del 3%. Su questo punto, però, va detto che in realtà il Trattato di Maastricht imponeva già agli stati membri un pareggio (o surplus) di bilancio de facto. Il deficit pubblico di un paese, infatti, include gli interessi sul debito pubblico. Considerando che in media tra il 2000 e il 2009 la spesa annuale per interessi dei paesi dell’eurozona è stata pari al 3.2% del Pil, vuol dire che gli stati membri sono stato costretti ad avere un avanzo primario (al netto degli interessi) di almeno 0.2% solo per rientrare nei parametri di Maastricht. In realtà l’effettivo avanzo primario dell’eurozona in quegli anni è stato ancora più alto, 0.8%; altro che deficit massimo del 3%! A tal proposito, è utile ricordare che anche il Fondo monetario internazionale consiglia di basare le regole di bilancio sul bilancio primario, non su quello totale, proprio perché il pagamento degli interessi non può essere considerato una spesa produttiva che va a incidere sulla domanda aggregata (e anzi rappresenta il suo opposto: un trasferimento di risorse dall’economia reale verso i creditori, nazionali ed esteri). In questo senso, dovremmo dire che il Fiscal Compact, più che il pareggio di bilancio istituzionalizza definitivamente il “surplus di bilancio” obbligatorio.

L’altro pilastro del Fiscal Compact riguarda la riduzione del debito in eccesso. In base all’articolo 4, qualora il rapporto debito pubblico/Pil superi la soglia del 60%, gli stati membri sono tenuti a ridurlo a un rimo medio di un ventesimo della parte in eccedenza all’anno. A vedere le raccomandazioni fatte ai singoli paesi, però, questa sembra essere l’unica misura sulla cui implementazione la Commissione sembra disposta a essere un po’ più flessibile – se non altro per l’entità irrealistica dei tagli che alcuni paesi si vedrebbero costretti a operare.

In definitiva, possiamo concludere che non è esagerato affermare che il Fiscal Compact, per mezzo dell’“invenzione” del bilancio strutturale, elimina definitivamente anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht e dal Patto di stabilità e crescita, condannando l’Europa – ad eccezione di un cambio di politica radicale – all’austerità permanente. Nei prossimi giorni vedremo nel dettaglio quali sono le implicazioni del Fiscal Compact per l’Italia e per gli altri paesi dell'eurozona, e riveleremo alcune inquietanti indiscrezioni trapelate in questi giorni dalla Commissione.

 

Alcune delle considerazioni sul patto sono tratte da “Cosa salverà l’Europa. Critiche e proposte per un’economia diversa” del gruppo degli Economisti sgomenti

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