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Il diciottismo di Monti
Nella nuova strategia del premier e del suo governo c'è una visione del mondo e un obiettivo tutto politico. Non è una scelta tecnica, ma risponde a un'idea precisa della crescita alla quale si vuole candidare l'Italia
Monti ha preso in mano la situazione e si sta spendendo per convincerci che l’art. 18 è la causa della nostra arretratezza economica; una “campagna” ampiamente sostenuta come attesta il forte supporto di Scalfari e di tutta l’arco del (centro-)destra.
Con l’alibi di essere un tecnico Monti asserisce che l’eliminazione dell’art. 18 è tecnicamente essenziale per rilanciare gli investimenti in Italia, specie quelli esteri, ma è proprio questa giustificazione che dimostra invece quanto “politica” sia la sua scelta nel scegliere questa questione come bandiera della sua politica di rilancio della crescita. E non solo per l’aspetto, politicamente piuttosto grossolano, di chiedere il sacrificio dell’art. 18 in cambio di una pseudo-patrimoniale mettendo sullo stesso piano la richiesta di rispettare un dovere (fiscale) con la rinuncia a un diritto.
In questa scelta vi è tutta la visione politica di questo governo che, al di là del piglio serio (rispetto alla destra cui eravamo abituati), esprime in pieno – e nella sua collegialità, si vedano gli interventi reiterati di Fornero, ma anche di Cancellieri e altri - la sua visione neoliberale (libdem) della società. Sotto l’egida di un “keynesismo” che ha larghi tratti di consonanza con il monetarismo, manifesta le sue radici nella convinzione che è l’impresa il motore del nostro progresso civile, visione che rinsalda l’opinione comune che l’economista è strutturalmente un pensatore di destra per il considerare la società, con i suoi valori e suoi diritti, solo un’appendice del mondo della produzione; il divulgatore del mantra che è l’economia a determinare la forma reale della società (sempreché non neghi l’esistenza stessa della società).
Eppure Monti nelle sue Lezioni europee del 2009 su “L’Europa, il capitalismo di mercato e la crisi economica” sottolineava che la crisi sociale era tanto preoccupante quanto la crisi finanziaria e si preoccupava per la sostenibilità del modello sociale europeo, del quale rivendicava l’obiettivo di garantire solidarietà ed equità nella distribuzione delle “risorse”. Anche senza i toni da “welfare caritatevole”, rimane tuttavia l’impressione che il timore per la crescente iniquità e disuguaglianza sociale fosse, e sia, dovuta agli effetti che iniquità e disuguaglianza possano avere per il funzionamento del mercato e che gli interventi per contenerle siano solo un costo necessario per il suo corretto funzionamento.
Non tutti gli economisti hanno questa vista destrorsa (sebbene “illuminata”), ci sono anche quelli che guardano le cose in altro modo; l’esempio può essere quello di autori, come Stiglitz, Sen e Fitoussi del Rapporto Sarkozy, che, ponendo al centro dell’analisi economica la “qualità della vita” delle persone, sostengono tra le molte cose interessanti che “L'incertezza circa le condizioni materiali che possono prevalere in futuro ha conseguenze negative per la qualità della vita … La perdita di lavoro può portare a insicurezza economica … La paura di perdere il lavoro può avere conseguenze negative per la qualità della vita dei lavoratori (ad esempio, la malattia fisica e mentale, le tensioni nella vita familiare), nonché per le imprese (ad esempio gli impatti negativi sulla motivazione dei lavoratori e la produttività, ridurre l'identificazione con gli obiettivi aziendali) e la società nel suo complesso” (traduzione mia). Ridimensionare i diritti della parte più debole significa aumentare l’insicurezza sociale, ridimensionare l’inclusione nella vita pubblica, ridurre il cittadino a suddito il ridimensionamento del suo potere di contrattazione. Considerare i diritti acquisiti con lotte civili come risultato di “buonismo” è un’altra scivolata terminologica del nostro premier, che dimostra la scarsa comprensione di una democrazia dove i diritti vengono conquistati e non paternalisticamente concessi.
L’obiettivo politico è quello di rafforzare il ruolo dell’impresa, trascurando le interazioni che un tale processo ha con gli altri processi sociali e quindi il suo effetto finale sull’efficienza del sistema economico. Visto in un’ottica di lungo periodo (sentiero sul quale ci indirizzano i nostri tecnici-politici) il rischio è di immiserire quelle risorse democratiche che dovrebbero essere il cuore del modello sociale europeo che perde però di senso se le parti sociali sono deboli per non essere portatrici di propri diritti. E la prevista monetizzazione del diritto a non essere ingiustamente licenziato esprime la concezione che la società va subordinata all’economia: gli individui non come cittadini, ma semplici produttori.
Nessuno può negare che la realtà che stiamo vivendo non sia di particolare complessità e che il modo con il quale la affrontiamo costituisca un momento discriminate per il nostro futuro; ma proprio per questo non si possono affrontare le difficoltà assumendo in maniera semplicistica come taumaturgico un intervento che, dal punto di vista economico, non appare di per sé rilevante se non per le pericolose implicazioni sociali e politiche.
Non è una conclusione eccessiva: la vicenda dell’art. 18 documenta l’angustia della visione espressa dal governo dei tecnici sul rilancio della crescita. Merita interrogarci su quale sia il modello di crescita presente di fatto nella visione di Monti. A suo avviso l’articolo incriminato è responsabile del blocco degli investimenti in Italia. Tale affermazione trascura però il fatto che di fronte alle difficoltà introdotte dall’euro per fronteggiare la maggiore concorrenza internazionale, la nostra classe imprenditoriale, invece di percorrere la via più complessa e difficile verso produzioni di più elevato tenore tecnologico per competere sulla qualità, ha scelto la strada più facile della compressione dei costi (delocalizzando e precarizzando il lavoro) per competere in termini di prezzo. Nella nostra storia industriale anche recente non mancano esempi del primo tipo, ma è il secondo che ha prevalso e ha dato il tono all’evoluzione della nostra economia. La pressione salariale e normativa del lavoro che, non permettendo lo statu quo, avrebbe dovuto costituire uno stimolo per i veri imprenditori a innovarsi nei metodi e nei prodotti, si è invece tradotta in un assetto produttivo che garantisce alle imprese i profitti (da destinare alla rendita finanziaria e ai consumi opulenti), ma non una solida prospettiva di crescita industriale e di progresso civile.
Non prendere in considerazione le determinanti della nostra accumulazione impedisce la corretta interpretazione di molti aspetti critici della nostra realtà, dalla precarizzazione alla fuga dei cervelli. La stessa disoccupazione, come scarto tra domanda e offerta ai saggi di salario correnti, non è credibilmente spiegata se non in termini di una domanda di lavoro da parte delle imprese che si presenta ristretta e rigida; in tale contesto la maggiore facilità al licenziamento si traduce in salari più bassi, in occupazione sostanzialmente immutata e quindi in ulteriore caduta dei redditi da lavoro (soprattutto a fronte di un più accentuato precariato). Con il contenimento del reddito dei lavoratori, il ridimensionamento delle pensioni, la compressione fiscale dei redditi più bassi, la maggiore insicurezza sul posto di lavoro fa grandi passi il processo di omogeneizzazione al ribasso all’interno di quella “società dei quattro quinti” che si presenta come possibile futuro. La scelta ossessiva di Monti sull’art. 18 si presenta allora come un fattore che favorisce l’ulteriore spostamento del baricentro della nostra industria verso un assetto basato sul contenimento dei costi del lavoro. Se questo è il modello di crescita di cui tanto si parla nel “salva-crescita” del governo è bene cominciare a pensare a come affrontare l’inevitabile contraddizione tra economia e società che si presenta con la partecipazione all’euro: la forza della prima comporterebbe il deterioramento della seconda; alla resistenza della seconda si assocerebbe la debolezza della prima. In entrambi i casi si registrerebbe una crescente fragilità della nostra società e della democrazia, nostra e europea.
L’attuale crisi – è sempre più evidente - non è solo crisi economica ma anche crisi sociale; anzi è una crisi politica poiché è l’espressione dell’incapacità della “politica” di formulare un progetto credibile di come governare l’economia a supporto della crescita sociale e della democrazia. In questo senso nulla è cambiato con il governo Monti e i suoi tecnici. Il dramma è che di fronte alla “serietà” di Monti ci sono solo balbettii, non molto convinti e tanto meno convincenti, sulle possibili alternative in grado di irrobustire la nostra democrazia. Ma non c’è molto tempo per passare dai balbettii a una chiara voce.
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