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Se la politica si riprendesse la moneta
Bassa crescita, alto debito e ricche occasioni di speculazione. La miscela esplosiva della crisi europea potrebbe essere evitata da una politica economica comune, partendo da una moneta che torni a servire la politica. La discussione di Sbilanciamoci.info e il manifesto sulla rotta d’Europa
In Europa si vivono due crisi: la prima, economica, si esprime in tassi di crescita tanto bassi da lasciare invariato o addirittura da aumentare un tasso di disoccupazione socialmente ed economicamente molto costoso. (...) La seconda crisi colpisce lo stato. Con il Pil che non cresce, e con la spesa pubblica che aumenta per la necessaria assistenza sociale (con la stagnazione, basta un minimo aumento della produttività del lavoro per far crescere la disoccupazione), il deficit pubblico aumenta; ciò allevierebbe la crisi economica, perché quella pubblica è pur sempre domanda aggiuntiva, ma poiché il deficit è coperto dal debito pubblico – ché se fosse coperto da maggiori tasse aggraverebbe la crisi – cresce il rapporto debito/Pil. Al crescere di questo rapporto e poiché la crisi limita i risparmi nazionali destinati ad acquistare il maggior debito pubblico, è sul mercato finanziario internazionale che gli stati troveranno gli acquirenti delle loro obbligazioni. Questo innesta un movimento speculativo che, senza regolazione, tende a rafforzarsi. La speculazione sulle obbligazioni pubbliche, in fase di crisi, è sempre al ribasso: si tratta, per gli operatori finanziari, di vendere oggi per ricomprarle domani a un prezzo più basso. Quando l’ammontare del debito è una quota rilevante del Pil del paese debitore, e se l’economia non cresce e il gettito tributario non aumenta, è difficile pagare gli interessi; così, ogni nuova emissione avviene a prezzi più bassi di quelle precedenti, e la speculazione al ribasso ha successo. Tuttavia, proprio perché la speculazione funziona, gli operatori continueranno a giocare contro il debito pubblico, vincendo ogni volta, finché non si arriva alla bancarotta dello stato (...).
Nel caso dell’Europa dell’euro, poiché il fallimento di uno stato membro avrebbe conseguenze sulla moneta europea, gli altri membri intervengono e consentono al paese in potenziale bancarotta di pagare i creditori, ma lo obbligano a dotarsi di un piano di restrizioni finanziarie tanto grande quanto necessario per produrre un avanzo di bilancio pubblico, così da ridurre il volume del debito. Naturalmente, il paese in questione subirà una crisi ancora più forte, e solo se la sua economia è piccola rispetto alla somma di quelle degli stati membri, ciò potrà non avere un’influenza sulla crescita complessiva. Poiché gli operatori finanziari sperimentano questo salvataggio, e poiché non perdono di valore le obbligazioni in loro possesso, riterranno che la speculazione al ribasso contro i debiti pubblici è a basso rischio, e continueranno a operare nei confronti di qualsiasi paese membro (logicamente, verso paesi più grandi, anche per testare la resistenza collettiva dei membri), ogni volta che il tasso di crescita specifico è troppo basso per consentire al governo del paese oggetto di attenzione di aumentare il gettito tributario e ridurre il deficit (…). La prospettiva è disastrosa, anche perché la difesa dei paesi più grandi diventerebbe sempre più difficile, perché sempre più grande sarebbe il fondo rischi da erigere per evitare la bancarotta degli stati.
Non tutta l’Europa, tuttavia, è in queste condizioni: com’è noto, la Germania cresce a un tasso superiore al tasso di interesse sul suo debito pubblico e, anche se ha visto crescere notevolmente il rapporto debito/Pil negli ultimi anni, non è l’oggetto della speculazione sul debito pubblico. Vi sono molte spiegazioni per la buona performance economica della Germania nel periodo post-crollo; quella più generale, pur ipotetica, è che, con l’euro, l’economia tedesca gode di un’implicita svalutazione competitiva, determinata dal fatto che l’euro comprende paesi con cambio ombra più debole di quello tedesco – se si vuole, con attivi delle bilance correnti dei pagamenti più bassi rispetto alla Germania, o addirittura con bilance in passivo. Tale svalutazione si contrappone alla svalutazione dei paesi emergenti e la rende meno aggressiva. Il fenomeno è noto, anche se dimenticato: la libera circolazione delle merci, senza una regolazione dei cambi, porta con sé, inevitabilmente, forme di protezionismo mercantilista. Questo vantaggio impedisce alla Germania di liberarsi dell’euro, e la costringe a salvare le economie più deboli che, appunto, le garantiscono un cambio competitivo.
Nell'attesa di una crisi nei paesi emergenti – inevitabile in ragione dell’inflazione che li colpisce, dovuta proprio alla loro svalutazione competitiva che rende le loro importazioni più care – la politica europea continuerà a difendere le economie deboli contro la speculazione sul loro debito pubblico. Se in quelle economie ciò si accompagna a misure di austerità molto energiche, tuttavia non ne deriva uno svantaggio per la Germania, perché quanto minore è la crescita dei paesi in difficoltà, tanto minore è la crescita europea, salvo per quella tedesca, che sull’esportazione extra-europea costruisce il proprio relativo benessere. Inoltre, la debolezza degli altri paesi membri permette alla Germania di acquistare merci a basso costo dal resto d’Europa, e per questa via va ad aumentare ulteriormente il proprio vantaggio competitivo nei confronti del resto del mondo. Questo argomento spiega la ragione delle prossime riforme in tema di vincoli sui bilanci pubblici europei: non è la crescita europea che interessa la Germania, ma quella del resto del mondo. Ne deriva una curiosa forma di imperialismo monetario, che alla lunga sembra difficile non crei una reazione politica (…)
L’economia europea è abbastanza grande da poter finanziare i propri disavanzi senza ricorrere al mercato o – almeno – riducendo grandemente il ricorso al mercato. Molte proposte sono state fatte in merito. In primo luogo, la vera riforma consisterebbe nel finanziamento dei deficit pubblici attraverso l’emissione di moneta della Banca centrale europea (Bce) – nelle forme e nelle quantità adeguate a coniugare la crescita, un’inflazione non superiore a quella dei partner extra-europei, e la sconfitta della speculazione sui titoli di stato. Ciò confligge con il mito dell’autonomia o indipendenza delle banche centrali, che è stato la causa prima della graduale erosione della sovranità degli stati, attraverso la riduzione del finanziamento dello stato sociale, dei servizi universali, dei beni di merito, delle politiche di lotta all’esclusione. La recente politica della Bce di acquistare titoli di stato di paesi in difficoltà rompe una parte di quel mito, ma non annulla la nozione per la quale non esisterebbe più un sistema bancario, ma solo banche e società finanziarie in concorrenza tra loro – togliendo potere alla banca centrale nel regolare la moneta bancaria attraverso l’obbligo di riserva, e attribuendo al mercato dei capitali il compito di rifornire i capitali alle banche nella misura necessaria per consentir loro di fare prestiti. In breve, sono quasi trent’anni che il rapporto tra credito ed economia è cambiato: in precedenza, erano gli impieghi che creavano i depositi, mentre al presente sono i depositi che creano gli impieghi – un’inversione che ha ridotto drasticamente la crescita potenziale. Le diverse formulazioni sul rischio delle banche – da Basilea 1 a Basilea 3 – sono solo il segno che la banca non è più un servizio pubblico e che la politica monetaria delle banche centrali non ha più alcun riferimento alla crescita. Le eccezioni sono però significative: a differenza dell’Unione monetaria europea, gli Usa, la Cina, l’India, il Giappone, sono tutte economie dove la banca è strumento dei governi, pur con svariati gradi di autonomia. Del resto, non è nemmeno chiara la ragione della sopravvivenza del divorzio tra governi e banche centrali, dopo che l’iperinflazione degli anni ’70 – che ne era stata la causa – non si è più riprodotta. Si potrebbe opporre che proprio quel divorzio ha impedito il risorgere dell’iperinflazione, ma le eccezioni al divorzio ora indicate dimostrano che non è così.
In secondo luogo, se la Bce può finanziare i debiti e, sia pure indirettamente, i disavanzi pubblici, potrebbe allora finanziare la stessa Commissione europea per una propria politica di spesa volta alla crescita e, in questo modo, alleviare la pressione sui bilanci pubblici degli stati membri. È sempre l’emissione di moneta che potrebbe generare le risorse per questa politica. È vero, come si vedrà tra le proposte avanzate, che le autorità europee possono già ora indebitarsi per finanziare progetti di sviluppo – e i limiti di questa possibilità devono ancora essere studiati a sufficienza – tuttavia si tratta pur sempre di debito, di interessi da pagare sul debito, di garanzie da dover prestare, sia pure in forma implicita, da parte dei paesi membri. Nulla vieta di creare, peraltro, un finanziamento al debito pubblico degli stati membri, attraverso l’emissione di blue bond europei a basso tasso di interesse.
Eppure, qualcosa vieta che ci si possa avviare in Europa verso una delle possibili proposte su debito e crescita. Ed è il semplice fatto che l’Europa non è una nazione né una federazione; e i singoli stati membri preferiscono vivere con bassa crescita, alta disoccupazione, riduzione dello stato sociale, piuttosto che cedere parti di una politica economica che, peraltro, non sono individualmente capaci di mettere in atto. Esiste una dimostrazione lampante sulla forza straordinaria del nazionalismo, in presenza di una altrettanto straordinaria debolezza politica degli stati: ed è la rassegnazione del Parlamento europeo che, pur eletto da cittadini e perciò sovrano, non sa trasformarsi nel parlamento degli europei.
Questo testo è tratto dal rapporto “Gestire il debito e costruire una politica economica europea” realizzato per la Cgil, giugno 2011:
English version on Opendemocracy: Reclaim economic policy
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