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L'uscita dall'euro prossima ventura

23/08/2011

Il problema non è il debito pubblico, ma il debito estero, e i paesi che mantengono la loro moneta possono cavarsela con la svalutazione. L’Unione monetaria attuale serve solo alla Germania, impone bassi salari e disciplina economica. Finirà con l’uscita dell’Italia dall’euro

Un anno fa, discorrendo con Aristide, chiedevo come mai la sinistra italiana rivendicasse con tanto orgoglio la paternità dell’euro: non vedeva quanto esso fosse opposto agli interessi del suo elettorato? Una domanda simile a quella di Rossanda. Aristide, economista di sinistra, mi raggelò: “caro Alberto, i costi dell’euro, come dici, sono noti, tutti i manuali li illustrano. Li vedevano anche i nostri politici, ma non potevano spiegarli ai loro elettori: se questi avessero potuto confrontare costi e benefici non avrebbero mai accettato l’euro. Tenendo gli elettori all’oscuro abbiamo potuto agire, mettendoli in una impasse dalla quale non potranno uscire che decidendo di fare la cosa giusta, cioè di andare avanti verso la totale unione, fiscale e politica, dell’Europa.” Insomma: “il popolo non sa quale sia il suo interesse: per fortuna a sinistra lo sappiamo e lo faremo contro la sua volontà”. Ovvero: so che non sai nuotare e che se ti getto in piscina affogherai, a meno che tu non “decida liberamente” di fare la cosa giusta: imparare a nuotare. Decisione che prenderai dopo un leale dibattito, basato sul fatto che ti arrivo alle spalle e ti spingo in acqua. Bella democrazia in un intellettuale di sinistra! Questo agghiacciante paternalismo può sembrare più fisiologico in un democristiano, ma non dovrebbe esserlo. “Bello è di un regno come che sia l’acquisto”, dice re Desiderio. Il cattolico Prodi l’Adelchi l’ha letto solo fino a qui. Proseguendo, avrebbe visto che per il cattolico Manzoni la Realpolitik finisce in tragedia: il fine non giustifica i mezzi. La nemesi è nella convinzione che “più Europa” risolva i problemi: un argomento la cui futilità non può essere apprezzata se prima non si analizza la reale natura delle tensioni attuali.

 

Il debito pubblico non c’entra

Sgomenta l’unanimità con la quale destra e sinistra continuano a concentrarsi sul debito pubblico. Che lo faccia la destra non è strano: il contrattacco ideologico all’intervento dello Stato nell’economia è il fulcro della “controriforma” seguita al crollo del muro. Questo a Rossanda è chiaro. Le ricordo che nessun economista ha mai asserito, prima del trattato di Maastricht, che la sostenibilità di un’unione monetaria richieda il rispetto di soglie sul debito pubblico (il 60% di cui parla lei). Il dibattito sulla “convergenza fiscale” è nato dopo Maastricht, ribadendo il fatto che queste soglie sono insensate. Maastricht è un manifesto ideologico: meno Stato (ergo più mercato). Ma perché qui (cioè a sinistra?) nessuno mette Maastricht in discussione? Questo Rossanda non lo nota e non se lo chiede. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al 110% del Pil), e poi Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti pubblici inferiori. Ma la crisi è esplosa prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Non il debito pubblico (minimo nei primi paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma l’inflazione. Già nel 2006 la Bce indicava che in Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna l’inflazione non stava convergendo verso quella dei paesi “virtuosi”. I Pigs erano un club a parte, distinto dal club del marco (Germania, Francia, Belgio, ecc.), e questo sì che era un problema: gli economisti sanno da tempo che tassi di inflazione non uniformi in un’unione monetaria conducono a crisi di debito estero (prevalentemente privato).

 

Inflazione e debito estero

Se in X i prezzi crescono più in fretta che nei suoi partner, X esporta sempre meno, e importa sempre più, andando in deficit di bilancia dei pagamenti. La valuta di X, necessaria per acquistare i beni di X, è meno richiesta e il suo prezzo scende, cioè X svaluta: in questo modo i suoi beni ridiventano convenienti, e lo squilibrio si allevia. Effetti uguali e contrari si producono nei paesi in surplus, la cui valuta diventa scarsa e si apprezza. Ma se X è legato ai suoi partner da un’unione monetaria, il prezzo della valuta non può ristabilire l’equilibrio esterno, e quindi le soluzioni sono due: o X deflaziona, o i suoi partner in surplus inflazionano. Nella visione keynesiana i due meccanismi sono complementari: ci si deve venire incontro, perché surplus e deficit sono due facce della stessa medaglia (non puoi essere in surplus se nessuno è in deficit). Ai tagli nel paese in deficit deve accompagnarsi un’espansione della domanda nei paesi in surplus. Ma la visione prevalente è asimmetrica: l’unica inflazione buona è quella nulla, i paesi in surplus sono “buoni”, e sono i “cattivi” in deficit a dover deflazionare, convergendo verso i buoni. E se, come i Pigs, non ci riescono? Le entrate da esportazioni diminuiscono e ci si deve indebitare con l’estero per finanziare le proprie importazioni. I paesi a inflazione più alta sono anche quelli che hanno accumulato più debito estero dal 1999 al 2007: Grecia (+78 punti di Pil), Portogallo (+67), Irlanda (+65) e Spagna (+62). Con il debito crescono gli interessi, e si entra nella spirale: ci si indebita con l’estero per pagare gli interessi all’estero, aumenta lo spread e scatta la crisi.

 

Lo spettro del 1992

E l’Italia? Dice Rossanda: “il nostro indebitamento è soprattutto all’interno”. Non è più vero. Pensate veramente che ai mercati interessi con chi va a letto Berlusconi? Pensate che si preoccupino perché il debito pubblico è “alto”? Ma il nostro debito pubblico è sopra il 100% da 20 anni, e i nostri governi, anche se meno folcloristici, sono stati spesso più instabili. Non è questo che preoccupa i mercati: quello che li preoccupa è che oggi, come nel 1992, il nostro indebitamento con l’estero sta aumentando, e che questo aumento, come nel 1992, è guidato dall’aumento dei pagamenti di interessi sul debito estero, che è in massima parte debito privato, contratto da famiglie e imprese (il 65% delle passività sull’estero dell’Italia sono di origine privata).

 

Cui Prodest?

Calata nell’asimmetria ideologica mercantilista (i “buoni” non devono cooperare) e monetarista (inflazione zero) la scelta politica di privarsi dello strumento del cambio diventa strumento di lotta di classe. Se il cambio è fisso, il peso dell’aggiustamento si scarica sui prezzi dei beni, che possono diminuire o riducendo i costi (quello del lavoro, visto che quello delle materie prime non dipende da noi) o aumentando la produttività. Precarietà e riduzioni dei salari sono dietro l’angolo. La sinistra che vuole l’euro ma non vuole Marchionne mi fa un po’ pena. Chi non deflaziona accumula debito estero, fino alla crisi, in seguito alla quale lo Stato, per evitare il collasso delle banche, si accolla i debiti dovuti agli squilibri esterni, trasformandoli in debiti pubblici. Alla privatizzazione dei profitti segue la socializzazione delle perdite, con il vantaggio di poter incolpare a posteriori i bilanci pubblici. La scelta non è se deflazionare o meno, ma se farlo subito o meno. Una scelta ristretta, ma solo perché l’ottusità ideologica impone di concentrarsi sul sintomo (lo squilibrio pubblico, che può essere corretto solo tagliando), anziché sulla causa (lo squilibrio esterno, che potrebbe essere corretto cooperando). Alla domanda di Rossanda “non c’è stato qualche errore?” la risposta è quella che dà lei stessa: no, non c’è stato nessun errore. Lo scopo che si voleva raggiungere, cioè la “disciplina” dei lavoratori, è stato raggiunto: non sarà “di sinistra”, ma se volete continuare a chiamare “sinistra” dei governi “tecnici” a guida democristiana accomodatevi. Lo dice il manuale di Acocella: il “cambio forte” serve a disciplinare i sindacati.

 

Più Europa?

Secondo la teoria economica un’unione monetaria può reggere senza tensioni sui salari se i paesi sono fiscalmente integrati, poiché ciò facilita il trasferimento di risorse da quelli in espansione a quelli in recessione. Una “soluzione” che interviene a valle, cioè allevia i sintomi, senza curare la causa (gli squilibri esterni). È il famoso “più Europa”. Un esempio: festeggiamo quest’anno il 150° anniversario dell’unione monetaria, fiscale e politica del nostro paese. “Più Italia” l’abbiamo avuta, non vi pare? Ma 150 anni dopo la convergenza dei prezzi fra le varie regioni non è completa, e il Sud ha un indebitamento estero strutturale superiore al 15% del proprio Pil, cioè sopravvive importando capitali dal resto del mondo (ma in effetti dal resto d’Italia). Dopo cinquanta anni di integrazione fiscale nell’Italia (monetariamente) unita abbiamo le camicie verdi in Padania: basterebbero dieci anni di integrazione fiscale nell’area euro, magari a colpi di Eurobond, per riavere le camicie brune in Germania. L’integrazione fiscale non è politicamente sostenibile perché nessuno vuole pagare per gli altri, soprattutto quando i media, schiavi dell’asimmetria ideologica, bombardano con il messaggio che gli altri sono pigri, poco produttivi, che “è colpa loro”. Siano greci, turchi, o ebrei, sappiamo come va a finire quando la colpa è degli altri.

 

Deutschland über alles

Le soluzioni “a valle” dello squilibrio esterno sono politicamente insostenibili, ma lo sono anche quelle “a monte”. La convivenza con l’euro richiederebbe l’uscita dall’asimmetria ideologica mercantilista. Bisognerebbe prevedere simmetrici incentivi al rientro per chi si scostasse in alto o in basso da un obiettivo di inflazione. Il coordinamento del quale Rossanda parla andrebbe costruito attorno a questo obiettivo. Ma il peso dei paesi “virtuosi” lo impedirà. Perché l’euro è l’esito di due processi storici. Rossanda vede il primo (il contrattacco del capitale per recuperare l’arretramento determinato dal new deal post-bellico), ma non il secondo: la lotta secolare della Germania per dotarsi di un mercato di sbocco. Ci si estasia (a destra e a sinistra) per il successo della Germania, la “locomotiva” d’Europa, che cresce intercettando la domanda dei paesi emergenti. Ma i dati che dicono? Dal 1999 al 2007 il surplus tedesco è aumentato di 239 miliardi di dollari, di cui 156 realizzati in Europa, mentre il saldo commerciale verso la Cina è peggiorato di 20 miliardi (da un deficit di -4 a uno di -24). I giornali dicono che la Germania esporta in Oriente e così facendo ci sostiene con la sua crescita. I dati dicono il contrario. La domanda dei paesi europei, drogata dal cambio fisso, sostiene la crescita tedesca. E la Germania non rinuncerà a un’asimmetria sulla quale si sta ingrassando. Ma perché i governi “periferici” si sono fatti abbindolare dalla Germania? Lo dice il manuale di Gandolfo: la moneta unica favorisce una “illusione della politica economica” che permette ai governi di perseguire obiettivi politicamente improponibili, cavandosela col dire che sono imposti da istanze sopraordinate (quante volte ci siamo sentiti dire “l’Europa ci chiede...”?). Il fine (della lotta di classe al contrario) giustificava il mezzo (l’ancoraggio alla Germania).

 

La svalutazione rende ciechi

È un film già visto. Ricordate lo Sme “credibile”? Dal 1987 al 1991 i cambi europei rimasero fissi. In Italia l’inflazione salì dal 4.7% al 6.2%, con il prezzo del petrolio in calo (ma i cambi fissi non domavano l’inflazione?). La Germania viaggiava su una media del 2%. La competitività italiana diminuiva, l’indebitamento estero aumentava, e dopo la recessione Usa del 1991 l’Italia dovette svalutare. Svalutazione! Provate a dire questa parola a un intellettuale di sinistra. Arrossirà di sdegnato pudore virginale. Non è colpa sua. Da decenni lo bombardano con il messaggio che la svalutazione è una di quelle cosacce che provocano uno sterile sollievo temporaneo e orrendi danni di lungo periodo. Non è strano che un sistema a guida tedesca sia retto dal principio di Goebbels: basta ripetere abbastanza una bugia perché diventi una verità. Ma cosa accadde dopo il 1992? L’inflazione scese di mezzo punto nel ’93 e di un altro mezzo nel ’94. Il rapporto debito estero/Pil si dimezzò in cinque anni (da -12 a -6 punti di Pil). La bolletta energetica migliorò (da -1.1 a -1.0 punti). Dopo uno shock iniziale, l’Italia crebbe a una media del 2% dal 1994 al 2001. La lezioncina sui danni della svalutazione (genera inflazione, procura un sollievo solo temporaneo, non ce la possiamo permettere perché importiamo il petrolio) è falsa.

 

Irreversibile?

Si dice che la svalutazione non sarebbe risolutiva, e che le procedure di uscita non sono previste, quindi... Quindi cosa? Chi è così ingenuo da non vedere che la mancanza di procedure di uscita è solo un espediente retorico, il cui scopo è quello di radicare nel pubblico l’idea di una “naturale” o “tecnica” irreversibilità di quella che in fondo è una scelta umana e politica (e come tale reversibile)? Certo, la svalutazione renderebbe più oneroso il debito definito in valuta estera. Ma porterebbe da una situazione di indebitamento estero a una di accreditamento estero, producendo risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992. Se non lo fossero, rimarrebbe la possibilità del default. Prodi vuol far sostenere una parte del conto ai “grossi investitori istituzionali”? Bene: il modo più diretto per farlo non è emettere Eurobond “socializzando” le perdite a beneficio della Germania (col rischio camicie brune), ma dichiarare, se sarà necessario, il default, come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo. È già successo e succederà. “I mercati ci puniranno, finiremo stritolati!”. Altra idiozia. Per decenni l’Italia è cresciuta senza ricorrere al risparmio estero. È l’euro che, stritolando i redditi e quindi i risparmi delle famiglie, ha costretto il paese a indebitarsi con l’estero. Il risparmio nazionale lordo, stabile attorno al 21% dal 1980 al 1999, è sceso costantemente da allora fino a toccare il 16% del reddito. Nello stesso periodo le passività finanziarie delle famiglie sono raddoppiate, dal 40% all’80%. Rimuoviamo l’euro, e l’Italia avrà meno bisogno dei mercati, mentre i mercati continueranno ad avere bisogno dei 60 milioni di consumatori italiani.

 

Non faccia la sinistra ciò che fa la destra

Dall’euro usciremo, perché alla fine la Germania segherà il ramo su cui è seduta. Sta alla sinistra rendersene conto e gestire questo processo, anziché finire sbriciolata. Non sto parlando delle prossime elezioni. Berlusconi se ne andrà: dieci anni di euro hanno creato tensioni tali per cui la macelleria sociale deve ora lavorare a pieno regime. E gli schizzi di sangue stonano meno sul grembiule rosso. Sarà ancora una volta concesso alla sinistra della Realpolitik di gestire la situazione, perché esiste un’altra illusione della politica economica, quella che rende più accettabili politiche di destra se chi le attua dice di essere di sinistra. Ma gli elettori cominciano a intuire che la macelleria sociale si può chiudere uscendo dall’euro. Cara Rossanda, gli operai non sono “scombussolati”, come dice lei: stanno solo capendo. “Peccato e vergogna non restano nascosti”, dice lo spirito maligno a Gretchen. Così, dopo vent’anni di Realpolitik, ad annaspare dove non si tocca si ritrovano i politici di sinistra, stretti fra la necessità di ossequiare la finanza, e quella di giustificare al loro elettorato una scelta fascista non tanto per le sue conseguenze di classe, quanto per il paternalismo con il quale è stata imposta. Si espongono così alle incursioni delle varie Marine Le Pen che si stanno affacciando in paesi di democrazia più compiuta, e presto anche da noi. Perché le politiche di destra, nel lungo periodo, avvantaggiano solo la destra. Ma mi rendo conto che in un paese nel quale basta una legislatura per meritarsi una pensione d’oro, il lungo periodo possa non essere un problema dei politici di destra e di sinistra. Questo spiega tanta unanimità di vedute.

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Commenti

Il motore immobile

Premessa: se parlo di “furto di democrazia” non ho in mente una teoria del complotto. La disinformazione c’è stata ed è documentabile, ma questo dibattito chiarisce anche quanto sia difficile tentare di fare informazione. Si percepisce nei miei interlocutori un livello di istruzione elevato, una grande passione civile e una grande disponibilità al dialogo. Non è colpa loro, ma “nostra” (degli economisti e del sistema educativo) se queste virtù non sono sempre supportate da nozioni adeguate di contabilità nazionale (l’economia la lascerei stare). Il livello delle osservazioni che mi vengono fatte è quello (elevato) degli interlocutori, e la risposta richiede talora che si stabiliscano alcuni concetti di base. Vi prego di credere che non mi interessa fare la lezioncina (anche se sareste un uditorio più attento dei miei studenti) né avere l’ultima parola (ho rinunciato ad averla anche in famiglia). Mi interessa capire. Ho anch’io i miei tanti dubbi, che non si possono esprimere in 15000 battute. Ma ho anche qualche certezza, maturata in tanti anni di ricerca sul tema della sostenibilità del debito. Sottopongo le mie certezze alle vostre critiche.

Comincio da quelli che non sono d’accordo: per un ricercatore sono sempre i più preziosi!

Sono lieto che Marco da Roma abbia letto un articolo di Milesi-Ferretti. Conosco e stimo moltissimo Gian Maria da anni: abbiamo studiato nella stessa facoltà, vivevamo nello stesso quartiere, si è laureato un anno prima di me (ricordo le complicatissime formule della sua tesi in economia monetaria con Arcelli) e tutta la comunità scientifica internazionale gli è grata per le sue ricerche sul debito estero (J. Int. Econ. 2007), fondamentali anche per il mio lavoro. L’idea di Marco che il deficit estero sia legato a quello fiscale in realtà, come Marco sa, non è un’idea sua: è la cosiddetta ipotesi dei deficit gemelli, espressa di solito nel capitolo 2 di ogni buon testo di macroeconomia. Credo che il lavoro al quale Marco accenna sia l’unico articolo sul tema dei deficit gemelli che non ho ancora letto, e così Alberto da Firenze e Marco da Roma si completano. Mi permetterà Marco di dirgli cosa c’è scritto negli altri lavori. Tutte le stime effettuate concludono che la relazione fra deficit fiscale e deficit estero di solito esiste, ma è tenue: di norma, un punto di Pil di deficit fiscale si scarica per un terzo (0.3) sul deficit estero. Precisamente: Bartolini e Lahiri (2006) trovano un coefficiente di 0.30 per i paesi Ocse; Chinn e Prasad (2003) un coefficiente di 0.34 per i paesi industrializzati (0.37 su tutto il campione di 89 paesi). Questi risultati sono ottenuti facendo una bella insalata mista di paesi disparati (si chiamano stime “panel”). C’è però un’eccezione: negli studi che esaminano casi singoli, come Salvatore (2006) o Bagnai (2006), si riscontra generalmente che questa relazione per l’Italia non esiste. Abbiamo bisogno di tanta scienza (incluso il mio modesto contributo) per giungere a questa conclusione? Direi di no: basterebbe guardare i dati. Prendo quelli Imf, visto che Marco si fida dell’Imf (una volta a sinistra stavamo più attenti, ma va bene così...). Nel 1999 il deficit pubblico era -1.7 punti di Pil, e le partite correnti erano in surplus per 0.7 punti; nel 2007 il deficit pubblico era -1.5 punti di Pil, e le partite correnti -2.4. Ovvero: fino alla crisi il deficit pubblico è rimasto più o meno dove stava, mentre quello estero è sprofondato di 3 punti di Pil. Ora: siamo uomini di cultura, quindi concorderemo col fatto che quello di “motore immobile” è un concetto metafisico o teologico, non economico. In economia tendiamo a vedere una relazione fra due cose se queste si muovono insieme. Ma se una si muove e l’altra sta ferma andiamo a cercare spiegazioni che abbiano un senso.

Sintesi: Bagnai regge e Marco non legge. Non ha tutti i torti. Molti lavori degli economisti (mi ci metto anch’io) rispondono più al loro legittimo bisogno di sentirsi scienziati che alla necessità di chiarire i problemi. Ma i dati dell’Imf sono a disposizione di chiunque.

L’osservazione di Marco però non è inutile, perché mi permette di chiarire una cosa importante. Io non stabilisco alcuna “dicotomia” fra debito pubblico e debito estero. Vorrei ricordare che i debiti si classificano sia in base a chi prende i soldi che in base a chi li dà. Quando parliamo di debito pubblico stiamo dicendo che i soldi li ha presi il settore pubblico, quando parliamo di debito estero stiamo dicendo che i soldi sono stati dati dai mercati finanziari internazionali (e non dai risparmiatori residenti). I due concetti non si escludono: lo stato può indebitarsi sui mercati internazionali e il debito pubblico può quindi essere anche estero (vedi la Grecia). Tuttavia, siccome un euro di indebitamento pubblico in media si scarica per un terzo sull’indebitamento estero, di converso l’indebitamento estero è per due terzi di origine privata. INSISTO SUL DEBITO ESTERO PERCHÉ È L’INDICATORE PIÙ IMMEDIATO DI FRAGILITÀ FINANZIARIA DEL SETTORE PRIVATO. Ovvero: i paesi con forte indebitamento estero sono quelli con forte indebitamento privato (andate a vedere...). Non sono cioè quei paesi nei quali i governi viziosi hanno fatto bieca e improduttiva spesa pubblica. Sono quelli nei quali i consumatori sono stati convinti da disinteressati consulenti che è cosa buona e giusta avere tutto subito (il SUV, la terza casa e la vacanza ai Caraibi) rivolgendosi alle amiche banche. O quelli nei quali l’euro ha stritolato i redditi e quindi il risparmio delle famiglie, costringendole a indebitarsi per mandare i figli a scuola o per fare la spesa. Questa è l’origine dei vari default cui abbiamo assistito.

Molte altre osservazioni necessitano di risposta. Farò del mio meglio e ringrazio tutti per l’attenzione.

considerazioni

Un lavoro del 2011 di Milesi-Ferretti del FMI mostra come il deficit della parte corrente della BdP sia dovuto, nei paesi avanzati, soprattutto ad una cattiva posizione fiscale e ad una posizione finanziaria netta estera (oltre che al saldo della bilancia petrolifera).
Questo corrobora la mia idea secondo la quale il deficit corrente sia legato anche a quello fiscale. Sicché la dicotomia che introduce implicitamente Bagnai non regge.
Cordialmente,
Marco da Roma

L'egemonia tedesca e il "dittatore benevolo"

Gentile professore,
rinnovo l'apprezzamento per i suoi interventi che danno spunti oltremodo interessanti e per il dibattito che stiamo portando avanti.
Il problema di democrazia insito nella BCE, chiamata da Stiglitz un organismo simile ad un "dittatore benevolo", è un problema reale e ci richiama alla vecchia diatriba sul fatto che il board della stessa debba o non debba essere eletto direttamente dai cittadini. L'imposizione tecnocrati vale la candela? Anche qui abbiamo una divaricazione fra teoria e pratica: in linea teorica, se tecnocrazia significasse competenza e piena autonomia nella gestione della liquidità europea, potrebbe essere apprezzabile. Nella pratica, la tecnocrazia diventa "dittatura di pochi" qualora accettasse i diktat del potere politico (la famosa telefonata della Merkel).
Io però oserei di più: la BCE, seppur fosse retta da persone diverse e con un'ottica più simile alla nostra, non funzionerebbe comunque. L'unione monetaria non rispetta in alcun modo i famosi tre criteri di ottimalità (sistema produttivosimile fra i paesi aderenti, alta mobilità del lavoro, mercato fortemente integrato), e quindi qualsiasi shock esterno produrrebbe effetti totalmente asimmetric, rendendo la gestione monetaria utile per alcuni e nociva per altri. Fino a questo punto, credo di poter concordare con lei. La costruzione frettolosa della nostra unione monetaria ha creato equilibri distorti e prodotto ingiustizie che si abbattono tuttora sull'economia reale.
Le soluzioni che abbiamo preso in esame dovrebbero però mirare a minimizzare, attraverso dei trasferimenti mirati, le asimmetrie e provvedere a ridurre due tipi di disuguaglianza: quelle fra paesi centrali e periferici e quelle di reddito negli stessi paesi dell'area euro. Le crisi economiche hanno un denominatore comune che non è il crollo borsistico, ma il fatto che, ad un certo punto, i ricchi sono troppo ricchi e i poveri troppo poveri. La Germania dovrebbe così aumentare il proprio salario minimo, agendo così sul salario reale, e l'Italia dovrebbe addirittura introdurlo.
Ovviamente, per far sì che ciò si avveri, servono persone ai governi che non pensino al modello Barro - Gordon come depositario di ogni verità, per cui rivalutazione salariale equivarrebbe a semplice inflazione e progressiva svalutazione della moneta, ma teorici che siano in grado di capire che, finchè sarà impossibile esportare sulla Luna, come citavo nel mio precedente intervento, l'unica strada per una crescita sostenibile non possa che essere il sostegno alla domanda interna.


In conclusione, perseverare nel voler ridurre le disuguaglianze di reddito e per introdurre un nuovo concetto di cooperazione economica internazionale credo sia di sinistra. Poi, se la Germania dovesse perseverare, allora ben venga un movimento anti - sistema, per usare le parole del buon Wallerstein, che corregga il tiro laddove gli altri hanno fallito.

2 considerazioni

-esistono dati su quanto del debito pubblico denominato in euro è detenuto da banche e pivati della zona euro? Perchè in un sistema che prevede la salvezza delle banche prima di quella degli stati si potrebbe ragionare su una compensazione.

-da quando esiste l'euro è chiaro che la politica economica, gira e rigira, viene fissata in sede europea. In tanti anni però, non c'è mai stata, non dico un lotta in comune ma neanche una presa di posizione congiunta dei sindacati che restano nazionali e provinciali, se non dialettali: nessuno ha mai pensato di cominciare di lì, che mi senbra più urgente e importante che sbracciarsi sul terzo mondo, l'ambiente, la TAV e via corteando. Il guaio è che queste cose si sono sempre fatte, e la burocrazia, anche quella sindacale, ha paura di affronteare temi nuovi, anche se necessari, basta pensare all'incredibile ritardo dei sindacati, non solo italiani,a occuparsi del destino precario dei figli dei loro iscritti.

Cavarsela con la svalutazione?

Vorrei fare una premessa amichevole e non acrimoniosa. Nel tentativo di aiutarmi a chiarire il mio pensiero, la redazione del forum, come è suo pieno diritto fare, ha affibbiato al mio pezzo un titolo e un cappello che in realtà chiariscono il suo pensiero molto meglio del mio. Va bene così, l’importante è la chiarezza, ma due parole devo aggiungerle (in sincera amicizia, senza acredine e pro veritate).

[1] Chi ha letto il pezzo ha capito benissimo che a me interessa relativamente poco la questione della deflagrazione dell’euro. Mi preoccupa molto di più il furto di democrazia che ha accompagnato l’entrata nell’euro. Questo furto non consiste solo, come tutti riconoscono, nell’aver delegato la politica monetaria (e quindi l’intera politica) a un organismo assolutamente privo di rappresentatività e responsabilità politica (la BCE), quanto nell’aver deliberatamente (secondo le candide e non tanto velate ammissioni dei protagonisti) disinformato gli elettori.
Il primo furto di democrazia (la BCE “indipendente”) è stato giustificato col fatto che la politica monetaria andava condotta da un organismo indipendente dal potere politico, il quale altrimenti non avrebbe saputo resistere alla tentazione di inflazionare l’economia per biechi motivi elettorali. Abbiamo così imparato una nuova definizione di “indipendente”. Nel dizionario dell’euro “indipendente” significa: “organismo che fa qualcosa solo quando telefona Angela Merkel”. Questo è infatti quello che è successo due settimane fa: la Germania ha capito di essersi spinta troppo oltre, e ha cortesemente ingiunto a Trichet (o “tricher”?) di accattarsi un po’ di debito pubblico italiano e spagnolo (per il famoso discorso del “non segare il ramo ecc.”). A me viene da ridere amaramente, ma se a voi sta bene, sta bene anche a me, restiamo amici! Il secondo furto di democrazia, quello che mi interessa di più, è stato giustificato col fatto che i costi iniziali (iniziali?) dell’euro andavano occultati per consentire di raggiungere un obiettivo di superiore benessere. I risultati si vedono e non meritano altri commenti oltre quelli fatti nell’articolo.

[2] L’espressione “cavarsela con la svalutazione” non mi appartiene, e non dovrebbe appartenere ad alcun economista, per il semplice motivo che un economista dovrebbe considerare la svalutazione dei paesi in deficit estero (e la rivalutazione dei paesi in surplus estero) come una normale e fisiologica manifestazione della legge della domanda e dell’offerta (di valuta estera). Non ritengo corretto caratterizzare queste dinamiche con un giudizio di valore. Supponiamo che ci sia un raccolto abbondante. A qualcuno di voi verrebbe mai in mente di dire che il contadino “se la cava” abbassando i prezzi? Non ha senso, vero? Ma se questa espressione può aiutare a chiarire, usiamola ancora un po’. Il problema oggi non è che l’Italia (e la Spagna, ecc.) non può più “cavarsela” svalutando. Ormai tutti capiscono che il problema è un altro: la Germania ha creato un sistema nel quale può “cavarsela” non rivalutando, come dovrebbe fisiologicamente accadere a un paese in surplus, e anzi svalutando in termini reali, semplicemente non permettendo ai suoi operai di appropriarsi almeno in parte dei guadagni di produttività realizzati nel settore tradable (ricordo ancora il contributo di De Nardis su http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001966-351.html). Quindi ha perfettamente ragione Cavalieri quando profetizza che “a battere il capo sarà la classe operaia tedesca”. Direi che sta già succedendo.

Di Sbrana apprezzo il suggerimento di risolvere il problema del debito pubblico italiano (che pure esiste) ricorrendo al contrasto di interessi, che condurrebbe all’emersione del sommerso. Non tutti i tecnici sono d’accordo, ma dichiaro di non essere competente e istintivamente sono d’accordo con Sbrana. Posso dire però che apprezzerei anche di più il suo suggerimento se Sbrana sapesse spiegarmi perché né destra né sinistra sono riuscite a introdurre il contrasto di interessi nel nostro ordinamento. La mia ipotesi, espressa anche nel pezzo, è che in effetti in Italia abbiamo a che fare con due destre, una un po’ più folcloristica e provinciale, e una un po’ più presentabile, da usare in caso di bisogno (chiamandola sinistra). Queste due destre evidentemente competono su una fascia marginale di elettori che non deve essere irritata con proposte eversive. E allora, caro Sbrana, che senso ha farle?

Mi colpisce molto in Sbrana la serenità con la quale accetta l’idea che mezza Europa abbia perso una guerra non dichiarata e debba accettare l’egemonia continentale tedesca. Credo che sia il riflesso di una certa esterofilia un po’ di maniera, quella che ci porta a ritenere che all’estero siano sempre necessariamente migliori di noi, e quindi ad accettare con fatalismo il fatto che siano loro a dirci cosa dobbiamo fare. Trovo questo atteggiamento ingiustificato e irritante per tre motivi: il primo è che le “consulenze” della Merkel le stiamo pagando molto care (come i fatti dimostrano); il secondo è che la competitività tedesca ha poco a che fare con il genio e la qualità (prova ne siano le legnate prese sui mercati emergenti, documentate dalle cifre), e molto con le svalutazioni competitive, che non sono mai foriere di grande unione e fratellanza: la Germania è rimorchio, non locomotiva, quindi dovrebbe esprimere gratitudine e non lezioncine; il terzo è che in quelle due guerre che Sbrana chiama “europee” (apprendo così che nazioni belligeranti quali Giappone e Stati Uniti sono in Europa) sono morti tanti italiani. So che è una riflessione scomoda e fuori moda, ma meglio farla qui pacatamente prima che qualcuno la faccia altrove con minore serenità: forse ci vorrebbe un po’ più di rispetto per questi morti (come ce ne vorrebbe per gli elettori italiani). Alcuni di loro non sono morti perché il primo ministro tedesco ci telefoni la nostra linea politica. Dopo di che, se l’Italia diventa un Land io non ho problemi: il tedesco lo so. Ma vorrei che questa fosse una scelta trasparente e democratica, non imposta surrettiziamente e paternalisticamente.
Apprezzo il tentativo di fare la storia coi “se”: “se non fossimo nell’euro saremmo già caduti nel default”. Le opinioni sono tutte rispettabili. Ho cercato di spiegare che il problema è un altro, citando dati ed esperienze storiche. Se non ci sono riuscito, nonostante il supporto della redazione, non mi resta che rassegnarmi (e ripassare il tedesco, visto lo scarso successo del mio italiano).

Si può aggiungere qualcosa?

Bell'articolo. Vorrei proporre, se posso, un paio di integrazioni.

In primo luogo, debito estero non è solo, forse nemmeno soprattutto, deficit commerciale. La crisi è esplosa prima in Irlanda, ma si tratta di un paese che negli anni 2000-2007 aveva presentato sempre saldi positivi per le voci "beni" e "servizi" del conto corrente della bilancia dei pagamenti. La Francia, al contrario, faceva registrare saldi leggermente negativi dal 2005. La vera differenza mi pare risiedere altrove, nella voce "redditi". È qui che troviamo saldi sempre negativi per i PIIGS, sempre positivi per altri paesi, saldi prima negativi (-8 miliardi di euro nel 2000) poi positivi (+43,5 nel 2007) per la Germania. L'importanza della voce "redditi" è tale che un'altra vistosa differenza emerge tra paesi "forti" e paesi "deboli": nel periodo 2000-2007 i primi hanno mantenuto differenze positive tra reddito nazionale lordo e prodotto interno lordo. La Germania è quasi un caso a parte, perché è passata da una differenza negatva (-19 miliardi di euro) a una vistosa differenza positiva (+49,5). La Francia invece, ma anche l'Olanda e il Belgio (über alles non è solo Deutschland), hanno fatto sempre registrare differenze positive. Nell'ambito dei paesi "deboli" è successo il contrario: la Grecia è passata da una modesta differenza positiva a una negativa, mentre Italia, Irlanda, Portogallo e Spagna hanno sempre sofferto differenze negative. In parole povere, una quota non trascurabile del reddito prodotto nei paesi "deboli" viene drenato da anni a favore dei paesi "forti". Se non erro, si dice che per sopportare un dato tasso di interesse del debito pubblico è necessario che il PIL cresca a un tasso almeno uguale, ma se parte di quel PIL diventa reddito nazionale di altri paesi...

Vi è poi la domanda "Ma perché i governi periferici si sono fatti abbindolare dalla Germania?" Certamente per favorire quell'"illusione della politica eonomica", ma forse anche per altri motivi. Negli anni dal 1980 al 2000, mentre maturava la scelta della moneta unica, nei paesi dell'Europa a 15 si assisteva a una lenta ma progressiva diminuzione non solo della quota del lavoro sul PIL, ma anche della quota degli investimenti reali sul PIL. Dove sono finiti, allora, profitti interessi e rendite? Verrebbe voglia di pensare a una diminuzione delle opportunità di investimento reale, tanto più che in buona parte dei paesi che hanno poi aderito all'euro è parallelamente aumentata una vistosa percentuale delle attività finanziarie sul PIL, giunta nel 2000 al 663% in Germania, al 595% in Francia, al 1091% in Olanda, al 606% in Portogallo, al 466% in Spagna. Ben diversa appare la situazione di paesi che NON hanno aderito: appena 174% in Polonia, 158% in Danimarca, 96% in Ungheria. Quanto all'Italia, le attività finanziarie raggiungevano, nel 2000, solo il 111% del PIL, ma si trattava di una percentuale più che raddoppiata dal 1995. Forse i governi periferici hanno perseguito gli interessi dei rispettivi ceti dominanti nazionali anche in questo: l'adesione all'euro, rendendo impossibili le svalutazioni e improbabile un'inflazione, difende il valore reale di attività finanziare che si accumulano in mancanza di appetibili investimenti reali.

Infine... uscire dall'euro? Difficile. La situazione attuale risulta alla fine comoda per quei ceti dominanti: l'euro difende il valore reale della loro ricchezza, il ricorso a "liberalizzazioni" e "privatizzazioni" - presunto rimedio al falso problema del debito pubblico - crea dal nulla nuove opportunità di investimento. Temo che si andrà avanti così ancora per un bel po', forse fino a far esplodere un nuovo dissenso alimentato da una progressiva macelleria sociale. Forse in modo non molto diverso da quanto è successo e sta succedendo in paesi arabi. In fondo, purtroppo, mi pare proprio questo l'esito che la Grecia, ormai già da qualche tempo, prospetta come il più probabile. Sarebbe certo meglio se non avessimo una "sinistra" così povera di idee, così subalterna a una destra che non è Le Pen, ma Maastricht. Sarebbe meglio, ad esempio, se la "sinistra" facesse proprie proposte come quelle recentemente avanzate da Emiliano Brancaccio su Il Sole 24 Ore (http://www.emilianobrancaccio.it/wp-content/uploads/2011/08/brancaccio-sole24-ore-190811.pdf), ma così non è.

Uscita dall'Euro ???

Ma se non fossimo entrati nell'euro ...l'Italia già sarebbe caduta in default !!!
Poi, è certamente vero che la Germania con la creazione dell'euro ha 'vinto' la terza guerra europea (dopo aver perduto con le armi la 1a e la 2a ), ma che interesse avrebbe a far fallire il sistema che essa stessa ha inventato per la propria 'egemonia' continentale? Pertanto, tutto considerato, credo che la Germania abbia tutto l'interesse a mantenere in vigore l'euro, ma certamente per aiutare i Paesi 'non-virtuosi' imporrà delle regole...
Ad esempio, per l'Italia, imporrà altre ristrettezze sul debito sovrano...e l'Italia avrà un'unica via d'uscita: una seria, concreta e credibile Riforma Fiscale (come si fa a recuperare i 120 miliardi di euro di tasse non versate dagli evasori italiani ogni anno ?...Proviamo con la DEDUZIONE DELLE SPESE ?????????: se si vuole si può fare!).
Altrimenti c'è un'altra via d'uscita: la 'GRECIA'.
Buona Fortuna a Tutti!

l'uscita dall'euro prossimo venturo

ho letto l'articolo con grande interesse, concordo sul fatto che il debito di un paese diventa insostenibile quando a dati livelli di reddito si determina uno squilibrio commerciale con l'estero che si fa cronico e che si manifesta con stabili e crescenti indebitamenti netti con l'estero. Mi chiedo (le chiedo) se questo sia il caso del nostro paese, i nuovi dati della Banca d'Italia lo danno al 20 per cento del pil , ma questo per una diversa metodologia di rilevazione, la precedente lo indicava attorno al 5 per cento e questo per il fatto che la precedente rilevazione considerava che una parte del debito estero fosse in realtà in forma illegale in mano a residenti italiani in conseguenza di sottofatturazioni di esportazioni e sovrafatturazione di importazioni (Committeri ed ora Pellegrini-Tosti). Se questo è vicino al vero significa che la posizione con l'estero non spiega del tutto la crisi del debito pubblico italiano, i grandi detentori di titoli pubblici italiano possono perseguire consapevolmente l'obbiettivo di trovare spazi di investimento nel settore pubblico dell'economia (privatizzazioni) e soprattutto di riformare, come dicono, le istituzioni che regolano il mercato del lavoro. Leggerei quello che sta avvenendo alla luce di quanto scriveva Marx. "i capitalisti che si comportano come dei falsi fratelli quando si fanno concorrenza, costituiscono tuttavia una vera massoneria nei confronti della classe operaia nel suo complesso". Per questo credo che le borghesie europee, i cui interessi sono sempre più nei capitali finanziari che dirigono i nuovi investimenti dove più alti sono i saggi di profitto, non rinunceranno a questa Europa che ha solo lo scopo di tenere a bada la classe operaia. La Germania segherà Il ramo su cui sta appollaiata, se non acquisirà i mercati di altre industrie europee, ma a battere il capo sarà la classe operaia tedesca. Cavalieri tiziano

Se errare è umano, perseverare è di sinistra?

Caro G.C.,

apprezzo molto il suo intervento che merita una discussione articolata. Spero di avere l'opportunità di condurla. Qui mi limito a alcune osservazioni sintetiche.

Se rileggerà l'ultimo paragrafo del mio intervento, vedrà che scrivo che le politiche (non "i governi") di destra nel lungo periodo avvantaggiano solo la destra. Esattamente quello che è successo fra le due guerre. Era di destra (cioè era idiota) schiacciare la Germania sotto il peso dei debiti di guerra. Il risultato è stato il nazismo e Keynes lo aveva detto. Siamo esattamente nella stessa situazione: un vincitore (questa volta la Germania) gestisce la propria vittoria senza un minimo di buon senso. Segue catastrofe (e anche questa volta molti lo hanno detto, a cominciare da Tony Thirlwall).

Lo standard retributivo europeo, del quale lei parla, di fatto equivale a imporre alla Germania una rivalutazione in termini reali. Si tratterebbe cioè di chiedere alla Germania quello che tutti chiedono alla Cina, ovvero di sostenere la propria crescita con la propria domanda interna, insomma, di inflazionare, come dico nel mio intervento. Tenga presente che la Cina nell'ultimo decennio ha rivalutato in termini reali del 20% e continua a crescere al 10% nonostante il crollo dei suoi mercati di sbocco (segno che la sua crescita è già sostenuta dalla domanda interna, non trova?). La Germania invece ha praticato una svalutazione competitiva di almeno il 5% nei confronti dell'Eurozona (dagli amici mi guardi Iddio), ma si trova ugualmente in difficoltà ora che la domanda mondiale cala (segno che la Germania campa sulla domanda altrui, che poi è la nostra). Insomma, la richiesta di rivalutazione (standard retributivo) è molto più giustificata nei riguardi della Germania (che ha svalutato) che della Cina (che ha rivalutato), ma anche molto meno realistica, visto che la Germania, a differenza della Cina, senza truccare le carte non ce la fa, e non vorrà certo perdere la sua posizione di privilegio!

In altre parole, la Germania non vorrà mai aderire a una simile richiesta (per continuare a campare sulle nostre spalle), ed è anche piuttosto chiaro come riesca a non rivalutare in termini reali pur essendo un forte esportatore (non trasferendo sulle retribuzioni reali del settore tradable i guadagni di produttività, come documenta lucidamente de Nardis - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001966-351.html). Sessanta anni dopo il crollo del nazismo il mito della razza ariana in Germania spero non sia più di moda... ma in compenso da noi spopola!

Non so se è chiaro: se esistesse una qualsiasi disponibilità a considerare il problema dell'aggiustamento in termini simmetrici, la sua proposta sarebbe inutile, perché verrebbe automaticamente implementata non "truccando" il mercato del lavoro (tedesco). Ma siccome questa disponibilità non esiste, temo che la strada da lei delineata, per quanto teoricamente impeccabile, sia impraticabile, e l'unico modo di ristabilire una simmetria è lasciare che le valute seguano la legge della domanda e dell'offerta.

Il catastrofismo che lei esprime è assolutamente corrente oggi. Vorrei capire come sono riuscito ad arrivare a 49 anni, visto che ne avevo 30 quando ho dovuto sopportare l'onta inenarrabile di una catastrofica svalutazione! Sarà per quello che ho perso tanti capelli. E gli Islandesi? Abominio su di loro... Eppure non mi sembra che se la stiano passando così male. Sul Manifesto un politico di "sinistra" si estasiava sulla "creatività" con la quale sono usciti dalla crisi. Ma quale creatività? Hanno svalutato, e non hanno ridato i soldi indietro. Punto. Sono passati da un indebitamento estero del 28% del Pil a un accreditamento dell'1% e nei prossimi due anni cresceranno al 2% (dice il Fmi).

Scherzi a parte:

1) l'Europa non è l'euro, i problemi sorgono proprio perché l'integrazione europea è stata trascurata a favore di un progetto che DOVEVAavere vincitori e vinti. Rifiutare questo progetto non è rifiutare l'Europa, ma esattamente il contrario. Prima deve venire l'integrazione reale (del sistema educativo, del mercato del lavoro, degli schemi di sicurezza sociale) e poi la moneta può dare un modesto contributo.

2) esiste un problema di democrazia sul quale riflettere per non compiere sempre gli stessi errori.

3) la solfa che "sì, la situazione è sbagliata, ma dobbiamo andare avanti così" ce la ripetono da anni. Lo diceva anche Modigliani nel 1997: la Germania amministra l'ecu a suo vantaggio, ma andiamo avanti verso l'euro e vedrete che le cose cambieranno. Era un'idiozia, come si poteva già vedere all'epoca (ebbi il triste privilegio di dirlo), e i fatti lo dimostrano.

Se le cose non funzionano, vanno cambiate. Se non le cambieremo, dopo aver campato per un decennio sulle nostre spalle, l'asse franco-tedesco (ma ormai solo tedesco) verrà a fare la spesa da noi. Lei ha il privilegio di avere intorno a casa sua un supermercato che non sia francese? Capisce cosa intendo? O fa parte di quelli che si lamentano perché per colpa del governo gli imprenditori esteri non portano abbastanza capitali in Italia? Altro che se li portano! E ci stanno comprando pezzo per pezzo...

Poi diamo la colpa alla Cina (che rivaluta e cresce sui suoi consumi)!

Diagnosi e soluzione

Gentile professore,
non posso che concordare con quanto scritto da lei in questo articolo. la diagnosi è esatta e le conseguenze della perduta sovranità monetaria sono dinanzi agli occhi di tutti.
Mi trovo però a dover fare un'osservazione riguardo al suo epilogo. Trovo personalmente rischiosa e non priva di sofferenze un'uscita dalla moneta unica e quindi, l'automatica imposizione di un freno al processo di integrazione europea. Lo scenario che verrebbe a presentarsi è poco confortante e, a tratti, difficilmente immaginabile. Avremmo di nuovo un marco ipervalutato ed una lira svalutatatissima, le attività bancarie avrebbero delle difficoltà non indifferenti (un altro credit crunch è ipotizzabile), il movimento di capitale sarebbe nullo (o quasi) per un lasso di tempo indeterminato. I costi andrebbero presto a ricadere sull'economia reale.
Ciò detto, l'Europa così non và. Il processo è giunto a un punto di non sostenibilità, ma non ha ancora raggiunto un picco di "non ritorno". Qualcosa ancora si può fare e và fatto.
Mi riferisco allo "standard retributivo europeo", un progetto poco conosciuto, ma il cui meccanismo è stato già descritto da lei. I virtuosi pagano e i "viziosi" (se così volessimo apostrofarli) riducono il peso dell'indebitamento estero. Certo, la Germania dovrà innalzare i redditi, rafforzare la propria domanda interna, favorendo maggiori importazioni a danno della propria bilancia dei pagamenti. Ma è l'unica strada percorribile. D'altronde, uno sviluppo, come è nei fatti quello tedesco, nel lungo periodo non è sostenibile, in quanto "non siamo ancora in grado di esportare sulla Luna". Inoltre, non sono d'accordo quando afferma che nel lungo periodo i governi di destra favoriscono i governi di destra. Sono convinto che questi governi di destra, similmente a quelli degli anni Venti e Trenta del Novecento ma per ben altre ragioni, finiscano per affossare l'intera Europa, senza favorire nemmeno loro stessi.
La sinistra europea, stendo un velo pietoso sulla situazione italiana, dovrebbe concentrarsi sull'imposizione dello standard retributivo europeo. Forse è vero, in Germania nascerà e prolifererà un movimento delle camicie brune. Intanto, però, pensiamo a salvare il salvabile e a portare avanti un processo, questa volta sì, "sanamente" europeo.

si può uscire .....?

Gentile prof. Bagnai,
ho letto con grande complicità questo articolo, e considerato che mi è piaciuto allora ho deciso di leggere quelli passati pubblicati su questo sito. Sono molto d’accordo su quello che scrive, soprattutto sull’errore di concentrarsi molto sul debito pubblico e poco sugli squilibri delle bilance commerciali tra i paesi dell’UE. Aggiungo una breve riflessione da profano e mi piacerebbe che mi correggesse. In uno dei suoi recenti articoli (mi dispiace non ricordo quale) lei ha parlato del falso problema del debito pubblico e dell’esempio del Giappone. In quel caso presentava il Giappone come un grande debitore interno ma creditore con l’estero. A mio parere, si dovrebbe aggiungere che uno dei fattori che rende l’economia nipponica ancora più stabile delle nostre è il controllo della banca nazionale e di conseguenza della politica monetaria. Infatti, sempre citando lei, l’Italia ha un debito superiore al 100% del PIL da diversi decenni, ma la crisi è soprattutto successiva all’Euro. In primis, a mio avviso, perché la percentuale di debito verso “non cittadini italiani” è aumentata (quindi è aumentata per i fattori della “crisi” anche il tasso debitore); secondo l’Italia non può più controllare la liquidità all’interno del sistema (deficit spending) e di conseguenza non può più manovrare su fattori macroeconomici che invece possiedono le altre nazioni (come il Giappone appunto). Secondo lei un ritorno ad un controllo delle banche nazionali, uscendo dall’area euro, con la possibilità di svalutare la moneta in casi di deficit commerciali e aumentare la spesa pubblica con l’emissione di moneta in eccesso, può ricondurre la nostra economia ai tempi migliori evitando lo spauracchio (a mio avviso inutile) dell’inflazione?