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L’Europa della troika. Intervista a Luciano Gallino

26/09/2011

Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario concentrano i poteri, alimentano la recessione, espropriano la democrazia. Si deve ripartire dal modello sociale europeo e da un’autorità politica democratica

Quali sono stati i punti deboli della formazione dell'Ue?

La Ue è nata con due gravi difetti strutturali, insiti nello statuto e relative funzioni della Commissione europea e della Bce. La Ce opera di fatto come il direttorio della Ue, ma non è stata eletta da nessuno, le sue posizioni differiscono sovente da quelle del Parlamento europeo, organismo eletto, e appare in troppi casi funzionare come la cinghia di trasmissione dei dettami iperliberisti dell’Ocse e dell'Fmi.

Da parte sua la Bce è una banca centrale di nome, che però opera solo parzialmente come tale. I paesi entrati nell’euro hanno rinunciato al potere più importante che uno stato possa detenere: quello di creare denaro. Oggi solo la Bce può farlo. Ma lo fa male e in modo indiretto, ad esempio concedendo per anni imponenti flussi di credito alle banche che poi creano denaro privatamente con i prestiti che concedono a famiglie e imprese. Il maggior limite della Bce deriva dal suo statuto, che le impone come massimo scopo quello di combattere l’inflazione, laddove una banca centrale dovrebbe avere tra i suoi scopi anche la promozione dello sviluppo e dell’occupazione. Va notato ancora che la sua indipendenza dai governi maschera in realtà la sua dipendenza dal sistema finanziario e la sua mancanza di responsabilità sociale in nome di un ottuso monetarismo. Democratizzare la Ce e la Ue sarebbero compiti impellenti per i governi europei, se non fosse che per governi di destra, come di fatto son diventati quasi tutti, in fondo una governance non democratica e socialmente irresponsabile della Ue non è poi un gran male.

La centralità della moneta unica, come esclusivo campo d'unità europea, quali vuoti ha prodotto nello sviluppo economico degli stati membri?

Gli stati della zona euro hanno ceduto il potere di creare denaro, com’era necessario per creare una grande realtà politica ed economica quale è la Ue, ritrovandosi poi senza una banca centrale che presti loro, in caso di reale necessità, il denaro occorrente. La Bce dovrebbe operare come un prestatore di ultima istanza – così sostengono vari economisti – non diversamente da quanto avviene con altre banche centrali quali la Fed o la Bank of England. Tuttavia il suo statuto per ora le impedisce di assumere in modo diretto un simile fondamentale ruolo e potere. Ciò ha influito negativamente in tutta la Ue sulla possibilità di condurre politiche economiche e sociali adeguate alla situazione dell’economia europea e mondiale. Le economie più forti, quali la Germania e la Francia, ne sono uscite meglio – non da ultimo perché i banchieri tedeschi e francesi che siedono nel consiglio della Bce han fatto tutto il possibile per evitare troppi danni alle banche dei loro paesi.

Cos'è mancato di più, nel processo unitario, dal punto di vista sociale?

Se c’è un elemento che più di ogni altro potrebbe e dovrebbe fondare l’unità della Ue è il suo modello sociale, cioè l’insieme dei sistemi pubblici intesi a proteggere individui, famiglie, comunità dai rischi connessi a incidenti, malattia, disoccupazione, vecchiaia, povertà. Sebbene il modello sociale europeo presenti notevoli differenze da un paese all’altro, nessun altro grande paese o gruppo di paesi al mondo offre ai suoi cittadini un livello paragonabile di protezione sociale – la più significativa invenzione civile del XX secolo. Ne segue che i governi Ue che attaccano lo stato sociale sotto la sferza liberista della troika Ce, Bce e Fmi, nonché del sistema finanziario internazionale, minano le basi stesse dell’unità europea, oltre a fabbricare recessione per il prossimo decennio e piantare il seme di possibili svolte politiche di estrema destra.

Alla luce della crisi attuale, perché l'Ue appare impotente?

Anzitutto perché non ha ancora alcuna istituzione che svolga qualcosa di simile alle funzioni di un governo centrale democraticamente eletto e riconosciuto dalla maggioranza dei suoi cittadini. Di conseguenza ciascun paese pensa per sé. A ciò contribuisce pure lo strapotere del sistema finanziario internazionale, in assenza di qualsiasi riforma che sappia arginarlo. Inoltre, se si guarda ai singoli paesi, i partiti al potere hanno un orizzonte decisionale di pochi mesi, ovvero pensano soprattutto alle prossime elezioni, mentre dovrebbero ragionare su un arco di più anni. Peraltro l’impotenza deriva anche da una diagnosi sbagliata – quando non sia volutamente artefatta – delle cause della crisi di bilancio. Quest’ultima viene concepita come se derivasse da un eccesso di uscite generato dai costi dello stato sociale, laddove si tratta in complesso di un calo delle entrate che dura da oltre un decennio. Esso è stato causato da diversi fattori: i salvataggi delle banche, che solo nel Regno Unito e in Germania sono costati un paio di trilioni di euro; le politiche di riduzione dell’onere fiscale concesse ai ricchi, che hanno sottratto centinaia di miliardi ai bilanci pubblici (in Francia, ad esempio, tra i 100 e i 120 miliardi nel decennio 2000-2009); infine il fatto che grazie alle delocalizzazioni le corporation pagano le imposte all’estero, dove tra l’altro sono minime, e non nel paese d’origine. Ancora in Francia, per dire, si è molto discusso del caso Total, il gigante petrolifero che nel 2010 ha conseguito 12 miliardi di utili, ma in patria – del tutto legalmente – non ha pagato un euro di imposte (salvo qualche milioncino che vale come indennizzo ai comuni dove opera ancora qualche suo impianto). Ora se un governo è ossessionato dall’idea che il deficit sia dovuto unicamente a un eccesso di spesa sociale punta a tagliare quest’ultima, cercando però al tempo stesso di evitare ricadute negative in termini elettorali, e per la medesima ragione si rifiuta di accrescere le entrate alzando le imposte ai benestanti, o alle imprese delocalizzate. È ovvio che non fa differenza se quel governo sa benissimo che la diagnosi è errata, ma la abbraccia per soddisfare le forze economiche cui ritiene di dover rispondere. In ambedue i casi il risultato sono manovre che picchiano soltanto sui più deboli, mentre le radici reali della crisi non sono nemmeno intaccate.

I vincoli di bilancio quali conseguenze hanno sull'economia «reale»?

Le più visibili sono l’aumento della disoccupazione e del lavoro precario. I licenziamenti in tanti paesi di centinaia di migliaia di dipendenti della PA, insegnanti compresi, i tagli alle spese dei ministeri ed ai servizi resi dai comuni, a partire dai trasporti pubblici, l’aumento delle imposte indirette come l’Iva, comportano nell’insieme una riduzione dei consumi e con essa una minor domanda di beni e servizi alle imprese. Queste reagiscono licenziando o assumendo quando capita solo con contratti a termine, il che genera altra disoccupazione, in un minaccioso avvitarsi dei processi economici verso il basso.

Ha senso, come alcuni fanno, auspicare il default o il ritorno alle monete nazionali?

Sarebbe una pura follia. In primo luogo il ritorno a diciassette monete diverse solleverebbe difficoltà tecniche assai complicate da superare, poiché l’integrazione economica, finanziaria e legislativa tra i rispettivi paesi ha fatto nel decennio e passa dell’euro molti passi avanti. Inoltre parecchi paesi avrebbero a che fare con tassi di scambio catastrofici. Tra di essi vi sarebbe sicuramente l’Italia. Il giorno dopo un eventuale ritorno alla lira ci ritroveremmo con il franco a 500 lire (era a 300 quando venne introdotto l’euro), il marco a 2.000 (era a 1.000) e la sterlina a oltre 3.000. A qualche imprenditore simili tassi possono far gola, poiché favoriscono le vendite all’estero; ma essendo quella italiana un’economia di trasformazione, che all’estero deve comprare tutto, dal gas ai rottami di ferro, il costo degli acquisti dall’estero le infliggerebbe un colpo insostenibile.

Gli stati, i governi hanno ancora qualche margine di manovra e qualche peso sulle decisioni di fondo o tutto è nelle mani di Fmi, Bce o Commissione di Bruxelles?

La troika in questione ha di fatto espropriato i paesi Ue della loro sovranità – con l’eccezione della Germania per la sua capacità produttiva e del Regno Unito perché ha conservato una moneta sovrana. Senza le riforme strutturali della Ue, implicite in ciò che dicevo all’inizio, essa continuerà a dettar legge.

Che giudizio dà sulla manovra italiana? E sull'atteggiamento un po' rassegnato – sul merito – delle opposizioni parlamentari?

La manovra italiana è una fotocopia sbiadita delle solite ricette che la troika di cui sopra trasmette regolarmente ai paesi in difficoltà. Di certo essa accrescerà la disoccupazione, impoverirà ulteriormente il paese, ponendo così le basi per dieci anni di recessione – teniamo conto che il nostro Pil è ancora parecchi punti al disotto del livello raggiungo nel 2007 – e per giunta non servirà in alcun modo a ridurre il debito pubblico. Su questo fronte l’opposizione difficilmente poteva opporsi all’ultimo momento, poiché quando la nave sta affondando uno cerca di salvare il salvabile, piuttosto che continuare a insistere sui difetti di progettazione della nave. Peraltro le opposizioni hanno avuto anni per chiamare i cittadini a discutere su tali difetti, quelli della povera scialuppa del governo ma anche quelli della nave Ue, e provare a disegnare insieme con loro un progetto diverso. Non mi pare che finora le loro proposte abbiano lasciato traccia di sé, nella memoria dei cittadini o nei documenti.

 

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Commenti

Basta!

“Talete, volendo dimostrare come fosse facile arricchire, prese a nolo i frantoi, dopo aver preveduto un abbondante raccolto di ulive, e guadagnò un gran mucchio di denari” (Diogene Laerzio, I, 26).

“Il giorno dopo un eventuale ritorno alla lira ci ritroveremmo con il marco a 2000”. Invidio la capacità di Luciano Gallino di fare previsioni così accurate dei tassi di cambio nominali. Con capacità simili ritengo sia miliardario. Tanto più apprezzabile il tempo che dedica a informarci. Ma quanto è plausibile il suo scenario da tregenda (una svalutazione del 100% rispetto al marco)?

Nella precedente esperienza, quella del 1992, il cambio si mosse in linea con i fondamentali macroeconomici. L’ultimo riallineamento della lira si era avuto nel 1985 (http://www.bis.org/about/chronology/1980-1989.htm). Dal 1986 al 1991 il differenziale di inflazione fra Germania e Italia era stato in media di 4 punti (World Economic Outlook Database, http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2011/02/weodata/download.aspx). E nel 1992 il cambio effettivo nominale dell’Italia si deprezzò di circa il 20%, recuperando i 6x4=24 punti di rivalutazione reale subiti (tenuto conto di due piccole rivalutazioni del marco intervenute nel frattempo; International Financial Statistics, Agosto 2010, serie136..NECZF... ). Il cambio nominale cioè si comportò come previsto dalla teoria della parità relativa dei poteri d’acquisto.

Dal 1993 al 2010 oggi il differenziale di inflazione con la Germania è stato in media di un punto l'anno. La perdita di competitività cumulata su questi 18 anni è stata quindi del 18% (sempre WEO database). Per riassorbirla basterebbe una svalutazione comparabile a quella del 1992, cioè del 20%, non del 100%. E quindi lo scenario di Gallino non è plausibile, come non è plausibile che entri l’uomo nero a portarsi via il bimbo recalcitrante. I mercati, che quando gli conviene ai fondamentali ci guardano, acquisterebbero immediatamente delle lire svalutate del 100%, perché saprebbero benissimo che a quel livello sarebbero sottovalutate, e il cambio, ove mai l’isteria del momento lo spingesse più in basso, recupererebbe. E del resto, perché non dovrebbe? Non solo la teoria della parità relativa dei poteri d’acquisto è generalmente verificata dai dati (Noman, 2008, Economics Bulletin), ma è anche (giusta o sbagliata che sia) quella cui fanno riferimento gli stessi mercati nel formulare le loro previsioni (Takizawa et al., 2011, “In Which Exchange Rate Models Do Forecasters Trust?” IMF Working Papers: 11/116).

Sembra invece plausibile l’argomento che siccome dipendiamo dall’estero per tante vie, una svalutazione ci sterminerebbe. Sembra, ma non lo è, perché è contrario all’evidenza disponibile e perché contiene un errore di ragionamento economico. L’errore consiste nel ritenere che se i prezzi dei beni esteri aumentassero, noi continueremmo comunque a comprarne. Non compriamo solo petrolio dall’estero, compriamo anche tante cose alle quali possiamo rinunciare o che potremmo ricominciare a produrre in Italia (prima che la nostra industria sia sterminata). E per quanto riguarda le fonti di energia, basta ricordare che dopo la svalutazione del 1992 la nostra bolletta energetica rimase sostanzialmente inalterata (i dati vengono dal database Chelem e qui trovate un grafico http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002468.html). Quindi o nel 1992 l’Italia era cosparsa di pozzi di petrolio, o Gallino non sa cos’è una curva di domanda. Fate voi.

Scusate se sono stato così pedante nell’indicare le mie fonti. Era solo per ristabilire un equilibrio. In democrazia l’informazione è importante, e la disinformazione è fascista. E adesso basta sparare sulle ambulanze: vado a cercare un forum di sociologi per spiegar loro cos’è l’”embeddedness”. Confesso di non saperne assolutamente nulla, ma mi sembra corretto ricambiare la visita di cortesia. E poi, magari loro non se ne accorgono. Ma qui ci sono dati, e coi dati, ahimè, non si scherza. Non fidatevi di chi ve li nasconde, e nemmeno di chi se li inventa.